“Frankenstein di Mary Shelley”, recensione a memoria del Falotico mutar della vita d’opera omonima

Pro-Meteo empirico della mostruosità

Frankenstein; or, the modern Prometheus

Laureando in Medicina, m’approcciai al materico mio nitore sfibrato, raffigurandomi in una visione che fremesse per una sinfonia orgasmica alla morte e al suo funerario cordoglio in me straziantissimo di viscere aggrovigliate al dolor esterrefatto, allibito dinanzi al ghiaccio tacitiano d’un abisso nei suoi più lancinanti neri in me emaciati, febbre di rabbia “onirica” per un’onnipotenza divina a covar l’intimo esorcismo d’ogni Uomo in quanto carne, sudore, pelle e detriti macerati del romantico scettro alla fame ancestrale di perennità.

Fin da quando fummo preistorici, nel nostro primo anfibio mutamento, respirando di branchie originate dall’evoluzione “indecriptabile”, crepitante e di pelo screpolato a ergerlo d’erectus, nobile trasformare la Natura in antropomorfico, deformante desiderio, a delinearne i lineamenti a somiglianza delle parvenze nostre intellettive, darwiniane metamorfosi dell’atavico combattimento all’enigmatico mistero di deflagrazioni bibliche e ignote, supplicammo tal “milizia” per resistere alle ossa muscolari. Ossa e anima crocifissa nelle incognite universali. Sibilando, per scibili forse illusori, l’effimera sete proprio risorgimentale dalle crespe acque delle torpide, primordiali oscurità divelte nello squarcio plateale e “planetario” della costellazione profonda.

Fra divanetti altolocati, la “strega” Mary Shelley ha un balzano racconto “omerico” da narrare a un baronetto. Dentro una cupissima Notte albeggiante all’interrogativo sempiterno degli eterni duelli al Creatore per antonomasia, la nostra fantasia che mirò le stelle e plasmò un demiurgo a burattinaio dei nostri ventricoli. Manichini per non impazzirci. Bizzarri a due occhi, due mani, due piedi, Sole vitale del sospir sofferente a eluder le lapidi nel viverci.

Dalle riduzioni teatrali ai mostri della Universal e della sua iconografia più “immediata”, ove Frankenstein, nell’immaginario collettivo, si fonde nell’abominio di chi lo generò. Frankenstein è il Dottore, non la creatura. Ma chiunque ne è confuso.

Francis Ford Coppola, se intinse il suo Sguardo nella trasposizione strabiliante delle convergenze “contaminanti” a reinventare il mito di Dracula e a forgiarlo di rinascentissima, sgorgante Arte post-moderna, scelse il “Bardo” Branagh a specchiarsi con un’altra favola leggendaria. Buia come la pioggia del cardiaco nostro librare nell’asma dell’etere ai lunari brusii.

Branagh, in quanto già Lui megalomane, si trasferisce anche fisicamente nel delirio cinematografico a modello della sua titanica, colta raffinatezza.
“Aggiusta” le iridi del Dottore, imprimendogli il carisma letterario del quale, nelle precedenti versioni, era assente, ma solo levigato di fascino popolare.

Dopo l’operazione, quindi, “chirurgica” di Coppola, finanziatore attraverso la Zoetrope a “direzione” produttiva, le mani del forziere e dell’ipnosi alla segretezza d’un magnetico totem orrorifico,  sono qui affidate all’inventivo, estroso e perfino eccessivo Kenneth.

Che si spoglia delle però agghindate eleganze puriste da Shakespeare, per addentrarsi e addentare l’opera più famosa della Shelley con la sottigliezza incendiaria d’un visionario, michelangiolesco, irresistibile turbinio visivo, corroborando e colorando i pigmenti d’ogni fotogramma nel permearlo, “premerlo” coraggioso e con indomita energia nightmare.

La storia è celebre e, se non la ricordate, la rimembrerò brevissimamente per voi. E ci “smembreremo” come noi stessi esperimenti in vitro, di Pandora, da laboratori terrificanti. Rabbrividiremo, gemeremo come infanti spauriti nelle fetali alchimie al cellulare accorparcene, scorporarci e scoperchiare le tombe del tabù irriguardosamente, scandalosamente, incoscientemente di “scienza” infranto, la sfida a Dio.
Frankenstein emotivamente non resiste alla morte, sì, sempre Lei ch’aleggia e inquieta spasmodica, della madre. “Figlia” d’un parto “amputato” nelle urla alla tragedia.
Ed è forse questo il fulcro, proprio William, che ha indotto in tentazione Branagh a esser(n)e regista amletico. A costruirsi il ruolo, qui protagonista assoluto della scena “vampiresca”, delle vicende e a “relegare” De Niro in secondo, eppur, primissimo piano carismatico.

La creatura diviene forse la nemesi dei suoi conflitti interiori, l’alterità dal sé “sano”. Un diverso, un emarginato, un brutto scherzo dei suoi errori, orridi che gli ululan nell’incubo. Lo tormenta e non vuole che Frankenstein accheti il suo (ri)morso. Licantropie.

Lui lo fa nascere, lo ripudia, lo getta in pasto alle bestie “umane”, che lo derideranno, lo picchieranno, lo flagelleranno e l’obbligheranno all’eremitica solitudine atroce.

Ma il mostro, schernito, offeso nella sua (ir)riconoscibilità, scaturisce forse proprio dall’ideale prolungamento del Max Cady di Scorsese. Gelido, prodigiosamente superomismo assoluto del gelo “invisibile” del suo volto inguardabile.

S’avvicina a Frankenstein, con affetto. Con anima e generosità da bambino ferito e curioso. Ma riceve solo un altro intollerabile rifiuto. E allora, da preda a cacciatore, da hunter che fiuta il “padre” e lo affronta per annientarlo, o forse solo per autodistruggere la sua “meravigliosa” unicità.

Gli chiede una Donna, ché gliela “dipinga” simile al suo Cuore. Cuore strappato della sua sposa.
Cuore che già brucia all’Inferno.

E alla fine l’Apocalisse!

Il mostro lascia espiare il “padre” ch’esalerà l’ultimo battito da vivo, vinto, e piangerà.

Perché era mio padre…

Frase cristallina e tremenda ch’echeggerà nella follia del Mondo.

Per navigare alla scoperta di nuovi lidi, o d’altre aspre “invenzioni”. Atomiche!

Non andartene ti prego, ho paura. Quello che ho fatto è così terribie, così malvagio… ho paura.

(Stefano Falotico)

 

Questo De Niro mostrificato, nella foresta, non assomiglia secondo voi ad Andrew Laeddis? La somiglianza è impressionante. Guardare per credere. Incredibile.

 

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