Once Upon a Time in America (?)
di Stefano Falotico
C’era una volta…
Perché essere pleonastici e spendere abusanti parole nei riguardi dello strepitoso, immenso, magnificente capolavoro di Sergio Leone, C’era una volta in America?
Mi parrebbe, questo sì, enormemente sbagliato. Oso dire perfino delittuoso, criminoso quanto questa trama, tanto complessa e stratificata, da elevarsi oltre la mera fotografia di un’epoca da gangster story…
Tutti l’abbiamo visto, rivisto, forse anche odiato perché, quando si superano i confini della superba, immaginifica visione oltre…, l’ammirazione, già sconfinata, valica l’inespugnabile vetta che non devi toccare…
Apice sibillino, calice divino!
L’abbiamo idolatrato in ogni sua versione, rieditata, d’extended cut riemersa in gloria con le scene eliminate e aggiunte nel montaggio “postumo”, ridoppiato in tante voci, che non sappiamo quale ci piace di più. Abbiamo solo l’imbarazzo della scelta d’una vastità opzionale da lasciarci esterrefatti, quasi sconvolti, lubrificati ancora e poi ancora, immemorabilmente stupefatti, danzanti a sua ipnotica vetustà e dinanzi, inchinati, splendenti, illuminati alla luce mai affievolitasi della bellezza sua tanto abbacinante da “pietrificarci” come una sindrome di Stendhal idilliaca di nostro sguardo imprigionatosene… di eternità a era eterea da giovani in queste nostre trasformate età.
Da un romanzo di Harry Grey, “The Hoods”, ecco il capolavoro assoluto di Leone che, in circa quattro ore abbondanti, enuclea tutta la poetica della sua “breve” eppur interminabile opera omnia.
Una filmografia come poche, con pochi titoli, è vero, quella di Sergio Leone, ma son titoli così, appunto, stupefacenti e innovativi, coraggiosi e poliedrici, che (non) bastano siano “sigillati”, racchiusi nel lunghissimo minutaggio di Once Upon a Time…
Una fabula con continui stacchi ed esuberanti, vivi, temporali stacchi, tra flashback, fermo-immagini al ralenti, un perenne play emozionale fra un mettere in rewind, “ripensarlo”, rivederlo instancabilmente, soffermarcene incantati, anzi, “incatenati” nella luccicante “leccornia” d’un flusso stordente d’immagini “ballerine”, da fumatori d’oppio nell’ebetudine saggia a noi avvinta senza tregua, senza scampo, a “perdifiato” negli occhi stanchi e così suadentemente sempreverdi del perdente antieroe per antonomasia, il “loser” che nessuno dimentica, che tutti amano e ameranno alla follia sinché morte non ci s(e)pari, il combattuto, tormentato, erroneo, bigger than life… Noodles.
Il resto è poesia, è Proust ricalcato nell’ottica di Leone su “tagli” magmatici e plumbei, notturni e traslucidi di Tonino Delli Colli, è l’amicizia che imperturbabilmente si rovina, si squaglia, si punisce, si martoria, la vita che cambia, che invecchia ricordando la purezza dell’infanzia, è il crogiolo di questi infami senza lode, senz’arte né parte, è Deborah che balla nella nostra mente, nel nostro “stupro” che ancora fortissimamente ci violenta, ci ammanetta alla rinomanza dell’esistenza, nel suo yesterday (im)possibile, frenetico, poi languido, riflessivo, senile, senz’anagrafe o stazione in cui sostare, la vita che assesta batoste e pugni dalle ferite più lacrimanti ché nessuna carezza ammorbidirà in quel… sono andato a letto presto che, senza parole, a sua estasi, svanita e vanitosa allo stesso tempo…, c’arresta…