“Il cacciatore” by Davide Stanzione

Uno di quei capi d’opera che, quando ti ci affianchi per scriverne, la penna prima ti tremola e poi viene spazzata via dall’impeto di grandezza. Il Cacciatore di Michael Cimino è quel Cinema più grande della vita e più grande di tutto, che non aveva paura del rischio e del gigantismo, del lirismo spensierato che si riversava nel dramma cocente come uno shock anafilattico: scene da un matrimonio e poi il Vietnam, ba-da-bum, senza nessuna mediazione, tre quadri scissi di racconto che non temono la separazione e il taglio brusco. Dritto nel cuore di tenebra dell’orrore.
A rivederlo oggi, è uno dei più grandi e torrenziali prototipi di libertà sconfinata dell’ultimo cinquantennio di Cinema, uno di quei film che vorresti parlarne all’infinito, anche solo per dire quant’è maestosamente macabra e dolorosa questa o quella scena, che belle luci ha, che impeto maestoso e tragico che aveva la regia di Cimino. Uno che aveva un talento così limpido e incandescente che infatti s’è bruciato. Non fa una piega.

 

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