Birdman, review

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Melanconica è la vita che vola via, forse lassù, forse giù dal balcone e, sognante mai più, è già svanita dal primo ruolo (non) importante

 

di Stefano Falotico

Birdman, Review

Keaton, spaventapasseri di “scene” teatrali ove, scarnissimo, dagli occhi bluastri, geme silenzioso in un teatro “underground” da passeggero oramai stanco d’un mondo “a sonagli”, cupido e tentatore ma tanto ipnotico e ipocrita a rapirti nella “trappola” per “topi” quanto disperatamente lisergico nell’immergerti solo in emozioni di nylon. Sfila la vita, forse è tutto (s)finito, t’ha rapito l’anima e solfeggiano malinconie profonde, soggiogandoti in un claustrofobico torpore d’un cuore oramai “intorpiditosi”, sporco e dunque sempre pronto a (ri)prender il volo adamantino suo(nato) sol illusorio, giacendo semmai schiacciato o “ghiacciato” da un’altra “faccia” e fiasca di whisky, “raccattata” al bar all’angolo della strada da ubriacone bukowskiano del tuo marciar sia limpidamente (dis)illuso e sia mortifero fra spettri ancor meno vivi di te, ché almeno ti (ac)conci per le feste, ti stordisci con dell’alcol per tamponar ferite d’una aridità (dis)umana cavalcante. Nella quale, inorridito, avanzi lerciamente, rubando attimi di te che mai sarà guarito e non hai neanche, pure quando ti disperi, sbraiti oppur farnetichi, il (co)raggio vibrante di “spaccar” davvero tutto e tutti in senso (a)lato guaito. Fuggitivo, dalle inibizioni inguai(n)ato, o solamente ucciso da un’enorme, insanabile solitudine, chiuso nel tuo passato che, coccolandoti (mal)sano, forse non fa altro che sfiorirti, ti sfiora consolatorio e, nel frattempo, in mille mai cicatrizzate ferite, ti frattura, perciò non riaffiora neppure l’ineludibile vis(t)o d’una realtà mangiatrice quel che già fosti, ché già fosco sei soltanto uno zombi.

I tuoi compagni non son da meno(a)mati, dei morti viventi.

Col damerino Edward Norton in tal gioco di scacchi (e)spiati, in cui tu, Keaton, illanguidito, incuneato nel dedalo d’ansie ritornanti com’un tornante mastodontico d’insostenibile gravezza al “leggermente” sfiancarti, però uccidendoti pian piano dentro, “distante” fra gli astanti del pubblico pagante, ancor commetti il “su(icidi)o” di “sudici alibi” a tetre albe per “dar spettacolo”, ove la pallottola della pistola è l’unico “exploit” del tuo voler “Al lupo, al lupo!” urlar (in)van(it)o(so). Ma è già falò in te arso e mangiato vivo, un fe(ga)to andato a male come un altro ruolo fottuto da pubblico fatuo, falsissimo, un’interminabile fine di foga e blateranti sfoghi, forse era meglio la fune. Il buio t’ha intrappolato in quella tua stanzetta dei “giochi d’infanzia” da supereroe ché eri una volta ma or, solo con la fantasia, (s)vol(t)i. Kammerspiel sui generis, metacinema, esperimento colorato-opalescente-pallido-mortuario-sterile-inutile…

di “diottrie” visive a piano sequenza “effettistico”, senza stacchi dall’inizio alla fine, ma è vacuo, ribadisco futile brucior di stomac(hev)o(le), privo del benché minimo, vivace furore immaginifico, è un pastrocchio (s)coperto di grande trucco come il parrucchino e il cerone-brutta cera di Keaton, per mascherare i difetti d’uno script che, di Raymon Carver, ha “mostrificato” il minimalismo, amplificando il senso della vita a “massima” esagerazione kitsch, a esibizione di stile nauseante e al limite del parossismo, come a gridarci, fastidioso, in chiacchiere silenti solo a primo ascolto quasi sensazionali, la scontentezza scontata della presa di coscienza ché siam maschere di un c’era che mai più sarà, ove par tutto fin(t)o come un bravissimo, al solito, Edward Norton che, in certi istanti, ha il carisma di Brando da Un tram che si chiama desiderio, innegabile, ma semmai non convince quando dovrebbe commuovere di vero istinto naturalissimo d’attore sofisticatissimo, e dunque insopportabilmente “gigioneggia” nel “pasticciar” di tic, che abusano della pazienza dello spettatore anche più ricercato, appesantendo il labbro mezzo-leporino da “volpino” e anche lui, in capelli (s)tinti e persin stempiati, nei (ma non ha il neo magnetico di De Niro) “patetici”, posticci, recitativi manierismi, con tanto di “tremolio” (s)forzato alle mani quando fuma la sigaretta a mo’ del voler “rotolare” nella classe proprio stupendamente malinconica d’un giammai è James Dean, ma solo uno stronzetto caric(at)o nel cazzeggiar anche lui, senza pathos intimo appunto, fra cornicioni d’un film non certo da incorniciare.

Incertissimo, ceruleo. Penzolante, sospeso fra mille sputati significati ma raggrinzito in nessun guizzo vivido e lindo. Molti spunti ma spuntato. Quasi da instant sputtanarlo.

 

Ah, apertura erronea al Lido.

 

“Storto” ma non affascinante, sghembo ma non ficcante, pieno zeppo di dialoghi banali, un film che però non parte male, non spinge, diciamo, l’assunto è infatti, va ammesso, eccezionalmente originale e affascinante ma, a differenza del significato che Iñárritu voleva trasmettere, nel suo stile comunque spesso eccessivamente melodrammatico, troppo pedante e (s)parlante a pigiar di (ri)petizioni sull’acceleratore del déjà vu, questo film, seppur non lunghissimo, par così noiosissimamente non finir dunque più. Tristissimo, non sensibile sulla depressione ma deprimente e basta. E, da ambizioso, delicato, pastiche che poteva essere davvero geniale, diventa un mattone tremendo.

 

Ancor più tremendo perché, nel suo metter tutto dentro, sbaglia proprio nel calcar troppo sulla metafora secondo cui la vita è leggera e non lo è affatto, e questo squilibrio, “facile”, porta alla depressione e al volar giù o su.

 

Dipende dallo sguardo della figlia. Se è matta, come è, guarderà suo padre angelicamente, se è sana, ma invece non lo è, la vita di entrambi fu purtroppo soltanto un sogno da “fumetto”, da nuvole… troppo bianche e sbiadite.

Una vita sba(di)gliata.

 

Peccato che la vita sia orrendamente triste se la sai, e io so dunque che questo film ha sbagliato tutto.

 

Non emoziona. Non basta l’esercizio per tenerlo in vita. Per non tarpargli le ali in “cadute”, appunto, di t(u)oni.

 

La massima non è di cosa parliamo quando parliamo d’amore, bensì il massimo è di cosa parli quando hai voglia di partire, quanto (r)esisterai finché non c(r)ol(l)erai a picc(hi)o!

 

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