La grande bellezza, ed è di nuovo Ci(ne)ma

SET DEL FILM "LA GRANDE BELLEZZA" DI PAOLO SORRENTINO. NELLA FOTO TONI SERVILLO. FOTO DI GIANNI FIORITO

SET DEL FILM “LA GRANDE BELLEZZA” DI PAOLO SORRENTINO.
NELLA FOTO TONI SERVILLO.
FOTO DI GIANNI FIORITO

 

L’importanza del film di Sorrentino sarà rivalutata fra mille anni quando gli uomini, speriamo per la loro (non) sopravvivenza, vivranno come Dio comandò, liberi da orbi, no, orpelli formali e da reciproche diagnosi di “normalità”, fieri di “mendicare” la loro, appunto, umanità decadente come la mia pancetta esuberante.

Gambardella, immerso in una Roma capitolina, capitolata, che i sogni decapita, in mezzo a gente (non) capita, compunta, “comunista” di destra, non desta, festaiola, (ar)ridente, gradassa, soffocata, strozzata, non respirata perché Jep prova nausea, e il suo disgusto s’esibisce in una p(r)osa spavalda e “altolocata”, da scrittore di un libro sto(r)ico che ha mietuto proseliti soprattutto per sé stes(s)o, un uomo cafone di sublime livello narcisistico, alla Falotico, traviato e travagliato, tormentato e insofferente, soprattutto annoiato da tutto, dall’umano “lutto”.

E allora ammira incantato giraffe e griffe eccitanti nel crepuscolo nerissimo delle serate opache, malinconicamente danzando nel suo (r)esistere così strafottentemente (s)lanciato, chiuso, nelle sue “idiozie” reclusosi, (ere)mitico d’una visione stupendamente bella del (non) vivere, un fantasma che, d’ectoplasma suo sbiadito e sba(di)gliato, passeggia con nervosa alterigia e (im)motivata “allegria” s(t)onata nel mondo dei coglioni. Di quelli che, affannosi, rincorrendo mete (d)isperate, lavorano giorno e notte per po(r)tar a casa la pagnotta, i penosi, quelli/e che si dan “pene”, e Gambardella non se ne impenna, non è in panne, vive di sua montata testa alla “panna” nel cioccolato amaro, sbertucciando le maligne ipocrisie coi suoi occhi traslucidi nel traffico cittadino d’una “papale” rinomanza del (non) essere.

Mondo in(f)etto che s’appella, stando perennemente male, a psichiatri della mut(u)a, un mondo “inferm(ieristic)o” che si vuol consolar con chiacchiere al caffè dei tramonti e dei sette colli, quelli “decollati”, incravattati, “impapillonati”, in mezzo agli impomatati, quelli dalla società borghese matati, mai “ammattiti” perché seguono la “retta” via del lor inver(n)o… smarrirsi.

Al che accade un miracolo nel caos, nell’entropia ecco che vien uccisa la miopia e Gambardella si ricorda, sì, si ricorda del suo primo amore. Un’effimera baldanza del suo “impietrito”, avaro e arido cor(po), morigeratezza di un suo uccello (non) brillante che vive di quell’attimo rammemorato, procrastinato nel memento del persistere nonostante… il buio. Sarà agnizione o ancora “patetica”, lenta autodistruzione?

La grande bellezza.

di Stefano Falotico

 

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