Racconti di Cinema – Il seme della follia di John Carpenter

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Ed eccoci con Il seme della follia, pellicola uscita sugli schermi italiani il 4 Maggio del 1995, ma che viene unanimemente considerata dell’anno prima, e infatti proprio in Italia fu presentata in esclusiva al Noir in Festival il 10 Dicembre del ’94.

Terzo e conclusivo capitolo della Trilogia dell’Apocalisse carpenteriana, dopo La cosa e Il signore del male, e ancora una volta, come nel caso dei due film appena citati, un altro emblematico capolavoro esemplare e imbattibile, vetta assoluta della summa poetica di John.

Film dalla durata snella e compatta, fluidissima di un’ora e trentacinque minuti netti, scritto da Michael De Luca.

E interpretato da Sam Neill in quella che considero la performance della sua vita. Perché in questo film titanicamente s’impossessa del miglior personaggio offertogli nella sua altalenante, discontinua eppur brillante carriera d’attore, aderendovi ineccepibilmente con classe impari e infondendogli un’ambiguità sulfurea da pregiato interprete capace di mille sfumature espressive.

Trama…

John Trent (Neill), investigatore privato specializzato in truffe contro le assicurazioni, viene internato in manicomio. Ove, legato da una stretta camicia di forza e tenuto fermo dagli infermieri, arriva in pieno stato delirante.

Ma è pazzo davvero? A uno psichiatra che vuole aiutarlo, giunto nella clinica psichiatrica per fornirgli udienza e soccorso, in un lunghissimo flashback ininterrotto racconta la folle vicenda che gli è capitata, che lui naturalmente sostiene essere vera e non figlia della sua mente malata.

Considerato il miglior detective sulla piazza per il suo fiuto infallibile nello smascherare gli imbroglioni, Trent era stato assunto dalla casa editrice che pubblica lo scrittore più letto al mondo, Sutter Cane (Jürgen Prochnow), i cui libri vendono più di Stephen King, affinché si mettesse alla ricerca proprio dello stesso Cane, sparito nel nulla.

Il passato è il presente, il presente è già il futuro, visualizziamo a mo’ di cronistoria cos’è successo, come fosse accaduto adesso.

Prima di entrare nel vivo delle indagini, Trent comincia a leggere alcuni libri di Cane. Molto scettico riguardo alla valenza delle opere di Cane, che invece letteralmente fanno impazzire i suoi appassionati, le sfoglia inizialmente sbuffando, con grande noia e supponenza ma poi, sebbene continui a sminuirne il valore, ne viene anche lui magneticamente attratto. Riconoscendo che lo stile di scrittura di Cane, seppur descrittivamente banale e logoro, in qualche maniera cattura ipnoticamente e invoglierebbe chiunque infinitamente a proseguire la lettura. Al che, com’illuminato da una fulminea rivelazione, si accorge che, ritagliando accuratamente nei punti esatti le copertine dei suoi libri e congiungendone i pezzi, si addiviene a una mappa topografica che ritrae la perfetta ubicazione geografica di Hobb’s End, cittadina realmente esistente che veniva invece dapprima reputata solo immaginaria e frutto della fantasia di Cane. Hobb’s End esiste, non è mera finzione.

Così, accompagnato dall’assistente e redattrice dei manoscritti di Cane, Linda Styles (Julie Carmen), si mette in viaggio alla volta della bramata città “fantasma”.

Arrivato lì, assiste a eventi impensabili. Prima crede, scherzandoci sopra, che ciò a cui sta presenziando, sorpreso, incredulo ma disincantato, sia tutta una messa in scena e una mossa pubblicitaria architettata per promuovere il futuro libro di Cane, abilmente congegnata per suggestionarlo.

Ma pian piano gli avvenimenti sovrastano la sua ragione e le sue certezze barcollano e soccombono, scricchiolando sotto il peso irrazionale dei dubbi più inoppugnabili. Trent non riesce insomma a darsi una spiegazione logica di ciò che gli succede intorno. E quel posto lo terrorizzerà in un crescendo emozionale tremendo. Sin a divellere e sventrare ogni suo calibrato raziocinio.

Un posto macabro e spaventevole nel quale la realtà par superare di gran lunga la fantasia e dove il confine stesso tra reale e sovrannaturale scompare e si compenetra terribilmente. E Trent vede materializzarsi, davanti ai suoi occhi sempre più allibiti, sconcertati e impauriti, nel succedersi incredibile degli accadimenti sinistri che si concretizzano dinanzi a lui, come se i personaggi descritti nei libri di Cane fossero marionette e burattini manovrati dall’immaginazione creativamente mostruosa del suo mefistofelico autore maledetto, l’imponderabile glacialmente, contagiosamente demoniaco che prende, via via, orripilantemente forma.

E alla fine, probabilmente, impazzirà.

L’umanità intera stessa è impazzita, nessuno è sopravvissuto al morbo epidemico indotto dalla lettura e letteratura pazzamente plagiante le coscienze di Sutter Cane, e Trent allora fugge dal manicomio, recandosi in un cinema deserto in cui stanno proiettando proprio In the Mouth of Madness, film ricavato dal libro intanto pubblicato di Cane, con Trent, sì, lui stesso protagonista, che rivede tutto lo spettacolo a cui finora noi spettatori abbiamo assistito.

Un film ovviamente diretto da John Carpenter in persona.

Carpenter affida non a caso al canuto, iconico Charlton Heston, in una delle sue ultime, grandiose apparizioni cinematografiche, il breve ma centralissimo ruolo di Jackson Harglow. Se nell’indimenticabile, storico I dieci comandamenti di Cecil B. DeMille, Heston incarnava Mosè, cioè il profeta-ambasciatore a cui Dio consegnava le tavole bibliche affinché da emissario fedelissimo diffondesse la sua Parola agli uomini e li irretisse al suo insindacabile volere, qui Carpenter gli cuce addosso i panni dell’editore del demiurgo Cane, uomo fattosi superuomo e diabolicamente assurto a Dio maligno di una nuova era. Un dio satanico, o un Satana divino.

Insomma, la speculare e allo stesso tempo antitetica, identica faccia della medaglia del Signore del maleprince of darkness

Il seme della follia è un impareggiabile apologo radicalmente pessimista, pieno di trovate visive e scenografiche, un pamphlet apocalittico e un horror irraggiungibile, film del brivido che è anche una lucidissima e lungimirante riflessione sulla società delle immagini e sul loro smodato, inesausto proliferare schizofrenico, e quant’altro.

Che attinge dichiaratamente ad Howard Phillips Lovecraft, a uno dei suoi capolavori, Alle montagne della follia, e al suo mito di Cthulhu, a Stephen King, alla letteratura alta e bassa, fumettistica od orrorifica, a Edgar Allan Poe e ai suoi Racconti del terrore, e genialmente miscela il tutto con classe ineguagliabile, figlia dell’eleganza e dell’ipnotismo narrativo di John Carpenter.

Un Carpenter ai suoi massimi livelli. Che al solito è anche autore della clamorosa colonna sonora.

Unica “pecca”: di solito, nelle cliniche psichiatriche, non concedono ai pazienti di usare materiale contundente, come potrebbe essere una matita appuntita. Matita che invece viene data a Trent.

Perché i pazienti potrebbero ferirsi o lacerarsi la pelle. O addirittura bucarsi i polsi.

E come ha fatto Trent a disegnarsi sul viso, sulle guance e sulla fronte delle croci così sapientemente, simmetricamente realizzate a regola d’arte?

E, soprattutto, com’è riuscito con una sola matita a dipingere tutta la stanza tappezzata?

Ma perdoniamo a Carpenter questa, probabilmente volontaria, svista, perché ci pare una licenza prettamente poetica per meglio cesellare e disegnare la figura archetipica di Trent/Sam Neill.

E ricordate, come dice Linda a John: sani e pazzi potrebbero scambiarsi i ruoli. Se un giorno i pazzi fossero la maggioranza, lei si ritroverebbe dentro una cella imbottita.

 

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di Stefano Falotico

 

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