Green Book, recensione

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Ebbene, è appena uscito finalmente anche nelle nostre sale il film fenomeno dell’anno, ovvero Green Book. Film della corposa durata di due ore e dieci minuti diretto con mano sensibile ed egregia da un sorprendente Peter Farrelly. Che dopo le tante commedie demenziali girate in coppia col fratello Bobby, Tutti pazzi per MaryScemo & più scemo su tutte, da solo qui dietro la macchina da presa sfodera un tocco personalissimamente magico e sobriamente leggero quanto appassionatamente scanzonato che mai avremmo immaginato che potesse possedere, confezionando un instant classic già vincitore di tre pregevolissimi Golden Globe, fra cui Best Motion Picture – Musical or Comedy, e regalandoci una pellicola nominata a ben cinque premi Oscar, fra cui Miglior Film.

Green Book ha fatto sfracelli tra pubblico e Critica e, solo dopo pochissimi giorni di programmazione nelle nostre sale, sin dal suo debutto avvenuto giovedì scorso 31 Gennaio, pare che stia piacendo tantissimo, visti i considerevoli incassi, anche tra gli spettatori italiani.

Trama…

Siamo nella New York allegoricamente, volutamente un po’ stereotipata e vivacemente colorita dei primissimi anni sessanta. Ove, sin dalle primissime sequenze, veniamo catapultati dentro la rocambolesca vita di Frank Anthony Vallelonga (Viggo Mortensen) soprannominato, nell’ambiente d’italoamericani mangia-spaghetti, Tony Lip. Un buttafuori appesantito e rozzo, dai modi bruschi e irruenti, un uomo grande e grosso, come si suol dire, scalcagnato, sgarrupato e leggermente sfigato, un duro dal cuore tenero interpretato in maniera sublime da un Viggo Mortensen notevolmente ingrassato e raramente così ispirato. Dopo la chiusura del locale per cui lavora, Tony vivacchia alla bell’e meglio, tirando a campare come può, tirando su qualche soldo per mantenere la nutrita famiglia e sua moglie Dolores (Linda Cardellini) grazie a buffonesche, cialtronesche scommesse assai rischiose. Al che, proprio quando il piatto piange, come si suol dire, gli viene offerta una nuova, allettante e remunerativa proposta di lavoro. Cioè essere l’autista personale di Don Shirley (Mahershala Ali), un eccelso e mirabile pianista di musica classica, un gigante di colore dal talento eccezionale che deve andare in tour nel profondo sud degli Stati Uniti.

Tony incontra privatamente Don e, dopo qualche breve scaramuccia tra i due e un’iniziale diffidenza, dopo alcune ritrosie e inevitabili quanto comprensibili titubanze, Tony si lascia piacevolmente assumere e coinvolgere in quest’inaspettata, bizzarra avventura on the road. Nonostante le enormi differenze caratteriali e le loro abissali distanze culturali, fra i due scatta subito una fortissima amicizia. Quasi un legame parentale fra due persone che, per origini e contrapposti background, di primo acchito parrebbero lontane anni luce e, invece, scopriremo essere più vicine di quanto avessimo potuto aprioristicamente desumere.

Don è un musicista molto apprezzato e trionfalmente applaudito durante i suoi inestimabili concerti ma è anche costretto, malgrado la sua nomea e la sua altolocata fama, a subire ancora gli stigmatizzanti e inestirpabili pregiudizi razziali di un’America puritana, segregazionista e vessatoria.

Eppure a sostenerlo in questo straordinario, spericolato quanto ostico viaggio lungo le strade e le città degli States, vi sarà accanto a lui, appunto, Tony Lip. Una sorta di spregiudicato consigliere tuttofare senza macchia e senza paura, un cavaliere impavido, un omaccione un po’ cafone e ignorante, un tipo abbastanza sguaiato e beceramente appariscente che, dietro la scorza villana della sua maldestra, istintiva scortesia e bonaria stronzaggine, nasconde però, come vedremo, un animo buono e lindamente purissimo.

E alla fine, a dispetto di qualche veniale, passeggera, vicendevole, trascurabile schermaglia, nascerà e si solidificherà fra loro un legame forse destinato a durare indissolubilmente per sempre.

Non sveliamo altro per non rovinarvi la sorpresa. Ci pare di avervi già detto perfino troppo.

Mortensen, ribadiamolo, è in continua, inarrestabile ascesa attoriale e, dopo le sue acclamate collaborazioni con David Cronenberg e l’osannato suo Ben Cash di Captain Fantastic, azzecca un altro indimenticabile personaggio, donandoci una performance meravigliosa, istrionicamente misurata e al contempo scoppiettante e incontenibilmente, contagiosamente trascinante.

Beccandosi una nomination sacrosanta come Best Actor. Ma non gli è da meno Mahershala Ali, anch’egli candidato agli Oscar, seppur solo nella categoria di migliore attore non protagonista. Cesella con infinita classe e delicatezza sfumatamente introspettiva un character parimenti memorabile e commoventemente incisivo.

È forse davvero lui il nuovo Morgan Freeman. Guardatelo in questi giorni anche in True Detective 3 e capirete che ci troviamo, senz’ombra di dubbio, di fronte a uno di quegli attori tanto versatili e carismatici del quale sentiremo parlare molto, molto a lungo.

Detto questo, chiariamoci. Green Book non è un capolavoro e non è esente affatto da difetti. E tutto sommato abbiamo visto storie analoghe in tantissimi altri film.

Ma è quel tipo di feel good movie che, stando attento a non cascare mai nella ruffianeria più programmatica, accorto a non scivolare nella scontata, melensa retorica, anche se spesso la vicenda avrebbe certamente implicato un deleterio retrogusto dolciastro e furbetto, si lascia vedere amabilmente.

Perché è girato con estrema finezza, dosa sapientemente buoni sentimenti e anche sapido, schietto cinismo con raffinata mistura e misura estetica, con ponderata diegetica di alta scuola emozionale.

Memore della lezione signorile del grande Frank Capra.

Green Book è stato candidato anche per la migliore sceneggiatura originale scritta dallo stesso Peter Farrelly e da Brian Hayes Currie assieme a Nick Vallelonga che, nel film, interpreta la parte di Augie ed è nientepopodimeno che il vero figlio di Tony Lip, alias appunto Anthony Vallelonga.

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di Stefano Falotico

 

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