Rifkin’s Festival, recensione

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Ebbene, spero di essere libero di scatenarmi sull’ultima opus di Woody Allen, qui alla sua 48° prova dietro la macchina da presa. Ancora una volta purtroppo, così come accaduto nell’ultima decade, ahinoi, semi-fallimentare e deprimente nell’accezione di quest’ultimo termine peggiore.

Ecco, se soffrite semmai di disistima, se siete malati patologici di depressione, bipolare o meno, se siete inclini a vivere in maniera angosciosa la vostra vita, in quanto da tempo immemorabile imprigionati nel vostro solipsismo per l’appunto à la Woody Allen psichiatricamente incurabile, il quale da sempre, avendo preso coscienza assai precocemente di non poterla buttare sul sex appeal irresistibile alla Alain Delon dei tempi d’oro, anziché suicidarsi, è stato ed è enormemente stimabile perché, pur probabilmente abusando di psicofarmaci e/o neurolettici, perlomeno sicuramente di tranquillanti, più o meno blandi o assai pesanti, atti a inibire e sedare le sue rabbie ataviche cagionategli dalla sua immagine non certo esaltante dinanzi allo specchio, ha trasformato l’incarnazione vivente della sfiga fatta persona, da lui esemplificata nel suo sgorbio vivente, sensualmente inaccettabile, traslandola in Arte cinematografica per darsi la spinta vitale forse consolatoria e personalmente ricattatoria, ecco… avete capito.

Woody non sta comunque messo così male. Pensiamo per esempio a molte donne (soprattutto contemporanee) che, per resistere alle frustrazioni quotidiane, ascoltano Gianna Nannini oppure si danno, da dannate, alla meditazione trascendentale, sapendo di non essere molto sexy, diciamocela apertamente. Eh sì, sono le classiche donne che sanno trascendere, eccome, ah ah, che sbavano segretamente per ogni maschio che incontrano per strada, poi s’intrufolano in qualche amena tavola calda, più che altro paninerie dominate da presenze maschili simili alle combriccole virili, anzi vili, di Sotto accusa con Jodie Foster (e ho detto tutto…). E, senza sprezzo del pericolo, represse al massimo, approcciano il primo troglodita che capiti loro a/sotto tiro…, offrendogli una vodka liscia per movimentare un po’ la sporca faccenda delle loro inguaribili, perenni e avvilenti mortificazioni giornaliere da insoddisfatte insopprimibili poiché son deluse da inestinguibili, lacrimose, invincibili e madornali auto-costernazioni veramente degradanti delle più atroci e impagabili da eterne inappagate eppur convinte di farcela, fra le mutande certamente, ah ah, almeno una volta per 15 minuti di celebrità non tanto warholiana, detta altresì sveltina nel bagno puzzolente frequentato da uomini che, in tempi odierni di COVID-19, non solo come loro solito non si lavano le mani dopo la minzione, bensì non usano nemmeno il gel igienizzante per sterilizzare quello esibito da Cameron Diaz in Tutti pazzi per Mary. Uomini da Mery per sempre, veri Ragazzi fuori a cui queste donne senza dignità, per l’appunto, pur di ottenere una promozione (promozione?), pagherebbero addirittura anche Harvey Weinstein in carcere al fine di agguantare almeno un cammeo in uno spot pubblicitario assai buonista del Mulino Bianco o della torta Cameo con protagonista, fra l’altro, l’ex figa o racchia fascinosa, no, ex schermitrice Valentina Vezzali.

La quale, dopo essere stata testimone dello sposo, no, testimonial dei Kinder Cereali, da dura spadaccina tricolore dell’orgoglio femminile MeToo, adesso milita come sottosegretaria di Stato alla Presidenza delle conigliette, no, del Consiglio dei Ministri. Sì, Valentina è in piena zona Mara Carfagna ante litteram, è donna che emana una sensualità da signorina Silvani di Fantozzi. Ah ah. Ma non cazzeggiamo, dai, non siamo in un film di chiappe e spade. No, scusate, in un cappa e spada come I duellanti, Valentina ha molte frecce al suo arco da femminea Errol Flynn di Robin Hood mista alla Ginevra dell’Excalibur di John Boorman, e personifica di certo la versione muliebre di Douglas Fairbanks con tanto di Scaramouche.

Torniamo alla questione Woody Allen. Ebbene, pur essendo sempre stato costui un Allan Stewart Konigsberg ebreo anche in senso, come detto, sfigato… no, figurato, non è mai finito socialmente sfigurato e arso vivo. Poiché, grazie al suo genio da bruttone coglione con un non so che di volpone, è riuscito per anni a portarsi a letto perfino la protagonista de Il dormiglione, ovvero Diane Keaton. Insomma, un donnone.

Sì, riuscì a circuirla e a plagiarla, persuadendola di essere un genio comico oltre che cosmico. Anche se il suo rapporto afasico e altalenante con Diane, privatamente e cinematograficamente, visse d’alti e bassi tipici dell’andamento ciclico non dell’ovulazione, bensì della più nera depressione e chissà… anche soventemente di mancanza d’ere… one.

Io e AnnieManhattanAmore e guerraInteriors…, ah, filmoni, con tanto d’intermezzo di Al Pacino, fiamma giammai spenta nel cuore di Diane, a rompere i marroni e le uova nel paniere, con tanto di Mia Farrow a rovinargli la reputazione, nonostante le ottime recensioni avute per i tanti film da lui scritti e diretti con l’interprete principale di Rosemary’s Baby.

Insomma, va detta la verità, caro Woody. Hai sempre saputo di non essere bono come Henry Cavill di Basta che funzioni, hai preso presto cosce, no, coscienza di non emanare una carnalità mascolina da homo eroticus per eccellenza, ovvero da Jean-Paul Belmondo di Fino all’ultimo respiro, sei sempre stato conscio di non essere nemmeno Richard Gere del non deprecabile remake All’ultimo respiro. Eppure, malgrado tu non sia neppure Louis Garrel di tale tuo Rifkin’s Festival, ecciti… no, citi nella tua ultima pellicola persino Tom Hardy e Ryan Gosling.

Scegliendo stavolta come tuo alter ego un attore bravissimo, vale a dire Wallace Shawn. Il quale però è pressoché identico al compianto Paolo Villaggio e non è ovviamente una sexy beast con la sua lei (Gina Gershon) alla pari di mr. Mi dà gusto mangiare la patataalias Nicolas Cage/Castor Troy di Face/Off.

Al che, in questo film ove omaggi Luis Buñuel, inserisci attrici belle-non belle da Cinema di Pedro Almodóvar come Elena Anaya e connazionali spagnoleggianti in tutti i sensi. Perlomeno, lo furono ai tempi di Una relazione privata. Sì, Lui (si chiama, per modo di dire, proprio così in questo succitato, eccitante film scandalo di Frédéric Fonteyne, con Nathalie Baye), cioè Sergi López. Piccoli affari sporchi docet…

Qui, Sergi è Paco, pittore dadaista-surrealista alla Wassily Kandinsky, una sorta di Pablo Picasso dell’affrescare ogni amante bella quand’è ignuda come Valérie Kaprisky. Ci mancava soltanto che citassi pure Emmanuelle Beart, ça va sans direLa bella scontrosa (La Belle Noiseuse) di Jacques Rivette.

Piaciuto l’ammiccamento? No, non l’occhiolino da Javier Bardem di Vicky Cristina Barcelona. Mi rifaccio… al rifacimento di Breathless.

Cosicché, Woody dai libero sfogo qui alle tue manie da cinefilo di razza e d’eccezione…, tirando in ballo Quarto potere, Godard, Truffaut, Federico Fellini e il tuo immancabile, adorato Bergman.

Non siamo però dalle parti di Un’altra donna e Settembre. Inoltre, la fotografia non è di Sven Nykvist. Anche perché Sven è Mort come il nome del character interpretato da Shawn?

No, è morto e ora, Woody, ti sei affidato a Vittorio Storaro. Il quale fotografa il tuo film in maniera smorta.

Rifkin’s Festival, su metacritic.com, ha una scarsa media recensoria, vale a dire un mediocrissimo 43% di critiche positive. Giustamente perché, sebbene qua in Europa i critici continuino ad acclamarti, questa tua ultima operina è davvero poverina. Fa pena come Mort.

Lagnosa, penosa, patetica, una cantilena indigesta di scenette e battutine trite e ritrite in cui fai il verso al Woody che fosti.

L’unico che ancora crede in te, Woody, è Paolo Mereghetti.

Che, nel suo editoriale del Corriere della Sera, afferma che il tuo film non è che sia effettivamente il massimo ma in alcuni momenti tira come se avesse assunto un Viagra in formato celluloide.

Ecco le sue testuali parole lapidarie del Paolino che non ti assegna il suo celeberrimo, vuoto pallino:

«Cos’ha da dirmi dopo tutto quello che le ho raccontato?». È la domanda con cui Mort Rifkin (Wallace Shawn) si rivolge al suo analista, dopo aver raccontato — a lui e allo spettatore — quel che ha vissuto accompagnando Sue (Gina Gershon), la moglie publicist, al festival di San Sebastián. Ma la domanda con cui finisce «Rifkin’s Festival» è come se Woody Allen la rivolgesse al pubblico e a se stesso: cosa abbiamo visto? cosa ne pensiamo?

E allora, tirato direttamente in ballo, arrischio anch’io la mia personale risposta: ho visto l’ennesima dimostrazione dell’intelligenza cinematografica di Woody Allen, della sua idea di cinema come divertimento, come piacere, come gioco ma anche come riflessione e nostalgia. Il rimpianto per un cinema e un mondo diversi, che fanno del regista e del suo alter ego sullo schermo (impossibile anche solo dubitare che non ci sia un’identificazione totale) due sopravvissuti, decisi però — e qui sta forse il vero «messaggio» del film — a non volersi arrendere nel riempire di piaceri una vita cui si fatica sempre a trovare un senso.

Piaceri che poi sono sempre quelli che conosciamo, gli stessi che ha raccontato nei suoi film e che ci ha ricordato in «Una giornata di pioggia a New York» (le passeggiate per Central Park, i caffè dove puoi mangiare un buon hamburger, una pausa sui grandini del Metropolitan a farsi scaldare dal sole primaverile) oppure in «Midnight in Paris» (l’irresistibile fascino di boulevard Saint Michel sotto la pioggia). Piccole madelaine di un personalissimo bagaglio di ricordi, in perfetta sintonia con un uomo metodico e agé come appunto è Woody Allen, a cui si aggiunge in questo film una più esplicita dichiarazione d’amore cinefilo. I nomi sono sempre quelli (Fellini, Bergman, Welles, Truffaut cui si aggiungono un po’ a sorpresa Godard, Lelouch e Buñuel) ma rivisitati in un giochino citazionista che diventa una delle ragioni del divertimento.

Raccontando infatti all’analista il suo soggiorno spagnolo, durante il quale trovano concretezza i dubbi sulla fedeltà della moglie, fin troppo coinvolta dal suo giovane cliente — Philippe (Louis Garrel), un regista post Nouvelle Vague pomposo e vanesio — Mort si concentra soprattutto sui sogni dove il processo onirico sembra divertirsi a mescolare accadimenti della vita con scene celeberrime. Eliminando il colore con cui Vittorio Storaro immortala i caldi pomeriggi baschi per passare a un mimetico bianco e nero, ecco che «Quarto potere» diventa il mezzo per raccontare l’infanzia di Mort e il suo amore perduto, la scena alle terme di «8 ½» ironizza sui suoi tentativi di scrivere un romanzo, «Jules e Jim» di Truffaut e «Fino all’ultimo respiro» di Godard servono per drammatizzare le sue sbandate matrimoniali, «Un uomo e una donna» di Lelouch per dar forma al sogno di una possibile avventura con la bella dottoressa Rojas (Elena Ayana)…

Perché non dobbiamo mai dimenticare che siamo in un film di Woody Allen, dove l’ipocondria e le malattie più o meno immaginarie hanno un ruolo determinante, per esempio per introdurre il personaggio di una dottoressa sentimentalmente infelice ma perfetta per accendere una riflessione sul senso della vita, su quello dell’amore e della fedeltà. E interpretare forse il più divertente dei sogni, dove l’ammirazione per Bergman (e nel caso specifico per «Persona») porta lei e Sue a parlare in svedese.

Certo, dopo un po’ il gioco diventa scoperto e ripetitivo, anche se la sorpresa per i modi in cui vita privata e immaginario cinematografico si intrecciano riservano sempre delle belle sorprese, specie nell’inevitabile incontro con la morte del «Settimo sigillo», qui con la faccia sorniona di Christoph Waltz, meno vendicativo di quello originale. Ma se ne può fare una gran colpa a Woody? Al suo 48° lungometraggio (senza contare film per la tv ed episodi), Allen ricama sulla trama che conosce, quella dell’educato rimpianto per un mondo e quindi per un cinema di cui non vede più equivalenti e di cui si sforza di ricordarci i valori e la bellezza. E su cui risulta francamente difficile dargli torto.

A prescindere dal Mereghetti, il quale è sul moscio forte, che vi piaccia o no, dopo Mediterranea, pure quest’anno Irama spaccherà col tormentone La genesi del tuo colore.

Be’, a essere sinceri, dopo la mia tetrissima adolescenza in cui allentai la noia depressiva, recandomi alla videoteca Balboni di Bologna per noleggiare tutti i film di Woody Allen, compresi naturalmente Radio Days e Alice, nessuno si sarebbe aspettato che fossi un tipo non da Monza, bensì da Autodromo di Imola.

Purtroppo, mi spiace deludere i miei trattori, no, detrattori da Gigi il troione fantozziano.

Non ho una voce da rincoglionito come Maurizio Costanzo e non sono un personaggio modaiolo da Maria De Filippi, cioè Fanti Maria Filippo.

Che io ricordi, il mio sogno non era scrivere capolavori letterari come quelli di Joyce e Dostoevskij, oppure parlare dalla mattina alla sera di Cinema alla maniera di Pasolini con Bertolucci.

Ho sempre sognato di essere Chris Hemsworth di Rush.

Sono più basso di Chris ma non sono un povero Christ.

Diciamo che sono un maledetto come Walken Christopher con carisma da Ayrton Senna.

Sì, voglio morire bruciato anche in viso come Niki Lauda.

Ma è la mia vita e sono troppo giovane per giocare a scacchi con Max von Sydow o Christoph Waltz.

Vero?

Quindi, ci sarà un motivo perché ho guadagnato il tesserino da Critico di Cinema ai maggiori festival ma, a differenza dei soliti critici, cioè i barbogi rottami, impiego soltanto un’ora e mezza in macchina per percorrere il tratto Bologna-Venezia (qua, vi è il trattino, ah ah). I critici normali vanno istradati, alle kermesse si recano in treno e sono lenti a capire tutto.

Contempliamo la bellezza. Il raggio dardeggiante del Sole a primavera che, mesto, si posa sul cammino di noi, uomini da Umberto Saba o da omonimo Eco, esperto di ermeneutica, di esegesi-esegetica e diegetica, però non tanto di dieta, siam agnelli in mezzo ai lupi di tale vita dura ché la vita è dolore, travaglio e sofferenza, quindi amore e passione, sacrificio e resurrezione.

Sì, roba da maestrine frustrate.

O no?

Mi schianterò? E chi se ne frega.

Giudizio finale e sintetico: un Allen al minimo storico, comunque carino. Carino, a livello fisico, Allen non lo è mai stato. La verità della vita è solo una. Cioè, si diventa artisti per sublimare i malesseri esistenziali e la bruttezza estetica. Se si è sexy come Belmondo, è giusto vedere un bel mondo.garrel rifkin festival

di Stefano Falotico

 

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