Identità (Identity), recensione

Identity poster ufficiale identity poster

IDENTITY, John Cusack, 2003, (c) Columbia

IDENTITY, John Cusack, 2003, (c) Columbia

IDENTITY, Ray Liotta, 2003, (c) Columbia

IDENTITY, Ray Liotta, 2003, (c) Columbia

IDENTITY, Pruitt Taylor Vince, 2003, (c) Columbia

IDENTITY, Pruitt Taylor Vince, 2003, (c) Columbia

Ebbene, oggi per i nostri Racconti di Cinema, ripescheremo una pellicola del 2003 forse a tutt’oggi leggermente misconosciuta, perlomeno parecchio sottovalutata, ovvero Identità (Identity), firmata da James Mangold (Cop Land). Un regista, indubbiamente, a sua volta spesso snobbato aprioristicamente in modo alquanto ingiusto e scorretto. In quanto, noi invece lo riteniamo un autore importante, con una sua poetica e un cinematografico sguardo cristallino, peraltro facilmente evincibile e netto, nient’affatto trascurabile, anzi, da rivalutare ampiamente, da lui espostoci ed enucleato anche nelle sue pellicole apparentemente più mainstream quali, per esempio, Logan. Mangold, un cineasta forse non eccezionale i cui film non sono particolarmente memorabili o, necessariamente, dei capolavori irrinunciabili, però un regista di spicco in grado di districarsi, con abilità rilevante, nel cinema di genere e non, in virtù, ripetiamo, delle sue rimarchevoli qualità evidenti. Prima, fra tutte, la sua capacità, per nulla sottovalutabile, di richiamarsi fortemente al Cinema del passato, sovente rielaborandolo e reinventandolo, con classe e stile, senza incorrere, d’omaggi eccessivamente didascalici o studiati, in pedanterie o sterili citazionismi superflui. Per questo Identità, film della scorrevolissima e avvincente durata di un’ora e mezza esatta, infatti, Mangold si rifà espressamente, anche figurativamente, agli stilemi e all’estetica hitchcockiane, trasponendo in immagini una perfetta sceneggiatura, potremmo dire ad orologeria e ripiena di colpi di scena tanto spiazzanti quanto ficcanti e calibrati, diluiti efficacemente, ad opera di Michael Cooney e da lui stesso supervisionata e rivista in alcuni punti, diciamo, ritoccata con qualche personale apporto significativo. Uno script, inoltre, liberamente ispirato al celeberrimo giallo di Agatha Christie, Dieci piccoli indiani:

Trama: A circa 24h ore dall’esecuzione capitale, uno psichiatra, il dr. Malick (Alfred Molina) analizza il caso, giustappunto, del condannato a morte preso da lui in analisi, Malcolm Rivers (Pruitt Taylor Vince, protagonista, assieme a Liv Tyler, dell’esordio registico di Mangold, vale a dire Dolly’s Restaurant). Quest’ultimo, come poc’anzi dettovi, sarà presto giustiziato in quanto ritenuto colpevole d’un crimine barbarico ed efferato. Malick deve decidere se Rivers abbia agito lucidamente in merito a tal orrore, che non vi sveleremo, da lui compiuto oppure, essendo affetto da gravissime turbe psichiche, deve essere assolto per infermità mentale. Nel frattempo, sotto la pioggia scrosciante e imperterrita d’una violentissima tempesta atmosferica, dieci perfetti sconosciuti, per fortuite circostanze, all’apparenza casuali, a causa d’un bislacco disegno del fato imperscrutabile, stazionano in un motel ove, pian piano ma in un terrorizzante crescendo rossiniano, cominciano a spuntare lugubremente i cadaveri. A poco a poco, a uno ad uno, alcuni membri di questa curiosa combriccola vengono singolarmente e spietatamente trucidati e massacrati da un ignoto omicida seriale. Chi è il serial killer? Potrebbe essere uno di loro o, invece, s’annida al buio oppure altrove e non appartiene a nessuno degli uomini e delle donne presenti nell’autostello? A sbrogliare la matassa e l’incresciosa, allucinante situazione mostruosa e intricata, saranno forse imprescindibili e decisive l’acume e l’arguzia deduttiva di Edward Dakota (un grande John Cusack), detto Ed? Chissà… vi lasciamo alla sua visione e vi teniamo sulle spine e col fiato sospeso di sana suspense secca, lapidaria e glaciale.

Mortifero e al contempo dal ritmo vertiginoso, stracolmo di ribaltamenti di prospettiva imprevisti e superbamente architettati da una regia fluida e chirurgica, impreziosito da un cast impeccabile in cui, oltre a Cusack, sono puntuali e bravissimi Ray Liotta, una sexy Amanda Peet fascinosa, Jake Busey, John Hawkes, Clea DuVall, Rebecca De Mornay, John C. McGinley e William Lee Scott, Identità è, sì, imperfetto e presenta qualche inevitabile buco narrativo abbastanza inspiegabile, dunque, non tutti i pezzi del puzzle della narrata vicenda combaciano esattamente, altresì è un thriller che funziona egregiamente e si lascia vedere che è, come si suol dire, davvero un piacere. Sorprendendoci non poco e perfino, specialmente nel finale, parecchio inquietandoci. Ponendoci dubbi e interrogativi morali profondi. Funzionale fotografia di Phedon Papamichael e pertinenti musiche di Alan Silvestri.

IDENTITY, Alfred Molina, 2003, (c) Columbia

IDENTITY, Alfred Molina, 2003, (c) Columbia

IDENTITY, Amanda Peet, 2003, (c) Columbia

IDENTITY, Amanda Peet, 2003, (c) Columbia

Clea Duvall identità Cusack Liotta identity De Mornay Identity

di Stefano Falotico

 

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