The Godfather, Amen

Nel bel mezzo di un gelido inverno, qui (non) vive Corleone, a suo (s)contento

Nel bel mezzo di un gelido inverno, qui (non) vive Corleone,

di Stefano Falotico

The Godfather

Da stagioni immemorabili del nostro scontento, qui vige una Famiglia di non viventi, alle pendici del nostro sacro patto demoniaco col Male…

… perché, traditi da una realtà di cannibali, lussuriosa e brada, noi, i Corleone, abbiamo aderito allo sviscerante, puro patto con un aldilà poderoso dal mortuario appetito sanguinario e violento, a sigillarci nella bara eternamente funebre, dunque vitale, perché emanante ardore autentico dei nostri cuori spezzati, da vampiri dei nostri sogni, ove gl’incubi sospirano delicata danza di morte nel fragore delle ingiustizie universali, ultraterrene, così umane nel nostro umanesimo crudele, d’arcani, irriverenti, buissimi giudici sentenzianti piombo fendente chi vorrà smorzare le nostre alienate e inalienabili, inquiete, nere anime gocciolanti cremisi asma da sepolti vivi… d’era in nostra aspra, cupissima terra… profonda, sepolcrale. Noi siamo gli stranieri, sì, più neri.

Coppola e uno dei suoi grandi, immensi capolavori. Forse, uno dei significati “inconsci” di quest’opera titanica, inarrivabile, unica, strepitosamente fascinosa, invincibile visione dopo visione a decretarne sempre più il fortissimo, magnetico valore, sta nell’enfasi soffusa dell’atroce senso mortale, ferino, squartante di malinconia impalpabile, eppur così suadentemente, irosamente urlante variegate, sconfinate emozioni lapidarie, secche e al contempo liquide, inafferrabili, che sprigiona di turgidissima monumentalità.

Un capodopera assoluto che spaccò le barriere di genere, ascendendo a Cinema limpidissimo, perché il più grande Cinema è intoccabilità della bellezza che scorgi, annusiamo, rapiti dal suo “carisma” irresistibilmente attrattivo come i tacchi da capogiro di Ava Gardner o d’una dalia nera stupenda, peccaminosa e tentatrice, che ci ruba l’anima e il nostro corpo a trasfonderci in suo delittuoso, magnifico, divino avvolgerci nel bacio della più languida, carezzante, morbosa notte maliziosa e seduttiva.

Un giovane dalle grandi ambizioni, Francis Ford Coppola, dopo un paio di produzioni, s’imbarca in un progetto “folle”, tutto di testa già immane sua da patriarca “petroliere”, oh sì, there will be blood, non solo del Cinema total(izzant)e e purissimo, ma dalla vastità cosmica già profetizzante il suo viaggio infernale nelle tenebre, qui già lucentissime, dell’Apocalisse a venire, già oggi in Kurtz/Brando, che a sua (s)volta altri non è se non la parossistica evoluzione della solitudine “maligna” del deluso Vito, il Padrino.

Sì, lo “sconosciuto” Francis compra i diritti dell’omonima novella di Mario Puzo e la propone alla major Paramount, che tentennerà non poco prima di dargli il nullaosta per le riprese, ma Francis riuscirà in tal impresa, cioè la sua ascesa-discesa nelle brame ferine del buio vivido splendente, cupido…

Affida al re dei re, Marlon Brando appunto, il ruolo “titolare” del film, consegnando però, al “vero” protagonista, Al Pacino, uno dei suoi ruoli epicamente più iconici e indimenticabili. Agli Oscar, invertirono i premi e le candidature, ma fu solo un servigio dovuto al baciar le mani di Marlon… d’Academy quasi alla carriera. Immolata a suo piedistallo.

Nelle sue mani da già stupefacente, espertissimo cineasta, Coppola, con questo film, risorgimentale, distrugge completamente tutto ciò che, sino ad allora, era stato il gangster movie. Det(r)onizzandolo a suo apice marmoreo.

Il film, nel suo plasmatico “plagiare” il Cinema a suo virtuosismo metaforico, diventa una galleria angosciante, bellissima di maschere di cera, di “mostri” perché asciugati dalla solarità della vita “comune” e impossibile per gente come loro, un tuffo spaventoso alle origini imperscrutabili, quasi messianiche, tristissime del Male più imbattibile.

Succede tutto per caso, o forse solo perché è, da generazioni e generazioni, soltanto inciso nel DNA della famiglia Corleone.

Allora, il giovane Michael/Al Pacino, il pupillo buono e giudizioso, avviato a una retta via diligente e onesta, sarà invece proprio colui che erediterà la tetra, allucinante successione al godfather deceduto.

Seduto, nella sua solitudine (s)consacrata, nella panchina d’un parco crepuscolare, nell’autunnale decadenza mortifera dell’incarnare la tragedia orrida sua da irredento vinto per l’eternità, Al Pacino diventa già lo specchio disilluso, oltre dell’orrore di Brando…

Nel suo glaciale star zitto, immobile, pensieroso, coi suoi occhi ieratici ma lacrimosamente cangianti, che parlan da soli, reciterà in silenzio un monologo analogo, infinitamente spettrale ma “muto”, da essere-non essere fantasma dalla (mai) nascita.

Tutto Shakespeare in pochi istanti.

L’apogeo malinconico della già qui tutta opera omnia di Francis Ford Coppola.

Tutta l’amarezza, tutta la sua vertiginosa grandezza.

Un titano, Francis, che ha sempre girato film diversi a livello baroccamente sperimentale e visionario ma, che in fondo, nella sua anima gotica, geneticamente scalfita, ferita, inestirpabile, da genio troppo grande per accettarsi, per girare… per il mondo come tutti gli altri, è solo… solissimo la sua rimpianta, mai più… altra giovinezza, il suo primigenio, profetico incarnato Dracula piangente la sconfitta indelebile, ineludibile d’aver “peccato” soltanto di enormità.

 

 

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