Il racconto dei racconti, recensione

Taleoftales

TALE OF TALES, di Matteo Garrone by Anton Giulio Onofri

Incanto e stupefazione permanenti per tutte le due ore e passa di durata del nuovo capolavoro (non ha mai fatto altro fin dai suoi primi corti) di Matteo Garrone, immediato candidato serissimo alla massima Palma. Capace di rinnovarsi ad ogni titolo, e in fondo senza mai somigliare al se stesso dei precedenti, quantomeno in superficie, dopo la “novella morale” di Reality, eccolo, il creatore de L’imbalsamatore e Gomorra, affrontare il mondo petroso, muschiato, elementale delle fiabe italiane, ricreandolo in paesaggi pittoricamente bagnati di un’inquietudine straniante e tutt’altro che infrequente, percorrendo strade e campagne, al centro e al sud della nostra penisola nelle violette ore crepuscolari che precedono il buio notturno, o appena prima delle umide albe estive. I costumi rievocano un immaginario e fittizio barocco da fiaba infantile, e distanti dall’edulcorazione disneyana (come le torri merlate di Sermoneta, o la nuda e cruda leggerezza di Castel del Monte), inanellano intorno a re e regine, principini e principesse, sudditi, saltimbanchi, orchi, streghe e tutte le altre creature dell’universo fatato de “Lo Cunto de li cunti” di Basile, un’aura di primigenio mistero, di consapevolezza ineluttabile che il destino è un equilibrista a spasso su una corda di fuoco, e che al tempo nostro, regolato dal pendolo di una Madre Natura capricciosa e suscettibile, non riusciremo mai a sfuggire. La riscoperta, più che un recupero, di un’italianità perduta, ricreata attraverso una lingua straniera (l’inglese), e volti più e meno celebri altrettanto stranieri, come se, col passaggio da un secolo all’altro, la lingua e l’antropologia italica avessero perso, sotto il rullo compressore dell’incultura massificata della televisione, segni e caratteristiche riconoscibili. Un meraviglioso film d’autore che aspira a sedurre un pubblico vasto e disponibile non tanto a tornare bambino, quanto a risondare dentro di sé quello che con la crescita e la maturità fingiamo di aver messo da parte, illudendoci di averlo dimenticato per sempre.

 

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