Paterson di Jim Jarmusch, recensione

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Jarmusch non è solo un regista, è un artista con la a maiuscola, un sopraffino cantore del tempo. E in Paterson questo autore unico e geniale il tempo lo congela, lo dilata, lo accarezza, lo disperde meravigliosamente tra versi in sovrimpressione e dissolvenze incrociate, dando vita a irripetibili, meravigliosi istanti irrilevanti sottratti al fluire della vita quotidiana e trasformati in pura poesia. O meglio, in un’opera d’arte totale, formalmente a dir poco avanguardista eppure intima e minimale esattamente come la poetica di Jarmusch e le sue infinite suggestioni sono da sempre.

Un’elegia delle piccole cose, un film che non ha dentro niente, eppure ha dentro semplicemente tutto. Un capolavoro di incredibile purezza, da mozzare il fiato e da contemplare in estasi silenziosa, specchiandosi e riflettendosi nelle mille pieghe di un vero e proprio film-esperienza. Che della vita (e dell’arte) fa emergere tutta la prosaica, dolorosa bellezza, con degli strumenti che spingono il linguaggio decisamente più in là di dove siamo soliti imbrigliarlo.

Il protagonista, Adam Driver, spezza letteralmente il cuore. Ed è in parte come non mai, in un ruolo per il quale dà l’idea di essere nato apposta, con quel volto che dice sempre più di mille parole, che si sposa a meraviglia col catatonico tappeto sonoro di sottofondo che accompagna le peregrinazioni di questo autista di autobus con la passione per la poesia. Creando letteralmente dal nulla riflessioni, commozione, palpiti del cuore.

Palma d’Oro subito: da non credere ai propri occhi. Un film pazzesco, avanti anni luce, che pare calato direttamente dal futuro. A lezione da Jim Jarmusch, ancora una volta.

di Davide Stanzione

 

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