Il metodo Kominsky, recensione terza stagione

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Ebbene, siamo arrivati finalmente alla stagione n. 3 de Il metodo Kominsky (The Kominsky Method).

Da venerdì 28 Maggio, la terza stagione tanto attesa de Il metodo Kominsky è disponibile su Netflix. Constante, diversamente dalle due stagioni precedenti che duravano otto episodi, stavolta di sei puntate singolarmente abbastanza corte e dinamiche, in quanto il minutaggio di ogni nuovo episodio varia dai 25 ai trentacinque minuti la cui veloce brevità non è sinonimo di scarsa qualità, bensì di esilarante godibilità da gustare tutta d’un fiato. La prima stagione de Il metodo Kominsky esordì sulla succitata piattaforma di streaming nel Novembre del 2018, riscuotendo un buon successo di pubblica e di Critica. Creata dalla fantasia del sempre sorprendente e comicamente irriverente Chuck Lorre (The Big Bang Theory), la serie Il metodo Kominsky è interpretata dall’eccezionale e impagabile duo attoriale formato dal grande Michael Douglas (giustamente premiato col Golden Globe) e dall’irresistibile Alan Arkin (Argo).

Douglas ed Arkin, nelle vicende raccontateci al solito con garbo e leggiadria durante il succedersi esilarante degli episodi propostici, interpretano rispettivamente i ruoli di Kominsky, frustrato e attempato insegnante di recitazione non certo, per l’appunto, di primo pelo anche psicologicamente, in quanto dà segni piuttosto evidenti e imbarazzanti di cedimento, la cui massima ambizione è sempre stata quella di calcare le scene dei palcoscenici più famosi, rimanendo però perlopiù demoralizzato e perciò intrappolato dentro la grottesca spirale della sua complicata quotidianità vanificante quasi sempre la concretizzazione appagante di ogni sua velleità artistica soventemente andata in frantumi malinconicamente, mentre Norman Irving Newlander (Arkin) ricopre la parte del suo dispettoso eppur al contempo inseparabile e affettuoso suo migliore amico. Entrambi, malgrado i numerosi e inevitabili acciacchi tipici della loro età anagrafica, a dispetto del tempo che passa e della malinconia via via più crescente, si reggono il gioco a vicenda, dandosi manforte nei rispettivi momenti loro più bui. Rallegrandosi da fantastici boomer altamente stimabili, oltre che immediatamente piacevoli e dall’arguzia intellettiva fuori dai canoni del grigiore contemporaneo più tristemente ordinario. Sandy Kominsky (Douglas) è inoltre attanagliato dalle continue problematiche, soprattutto di natura sentimentale, dell’insicura e impacciata figlia Mindy (Sarah Baker), fidanzatasi col discutibile ed eccentrico Martin (un fantastico Paul Reiser) e, da tempo immemorabile, viene tormentato dalla sua ex compagna storica con cui era sposato, interpretata da una Kathleen Turner assai invecchiata e notevolmente ingrassata eppur simpatica e, dal punto di vista prettamente recitativo, ancora in forma e pimpantissima.

La terza stagione de Il metodo Kominsky si apre col funerale nientepopodimeno che di Norman. Eh sì, era facilmente intuibile che non avremmo visto veder recitare Alan Arkin in questa terza tranche. Cosicché le sue apparizioni si limitano, per modo di dire, ai flashback e ai frequenti giochi di scene retrospettive che scandiscono le giornate di Sandy. Il quale, tentando malamente di elaborare il lutto derivatogli inevitabilmente dalla morte di Norman, ricorda i momenti trascorsi assieme a quest’ultimo e da noi visualizzati sullo schermo.

Ed ecco che, a eccezion fatta di Lisa/Nancy Travis e di Danny DeVito, qui assenti, più o meno rientrano in scena gli stessi entusiasmanti, ottimi attori delle passate due stagioni, a partire dalla disturbata figlia di Norman, cioè Phoebe/Lisa Edelstein, sin ad arrivare all’affranta ma ancor affascinante ex compagna di Norman stesso, Madelyn/Jane Seymour, per poi approdare al patetico guru di Scientology interpretato da Haley Joel Osment, con l’aggiunta di guest star altisonanti come Morgan Freeman e Barry Levinson.

Il Metodo Kominsky 3 non tradisce le aspettative e colpisce nel segno in virtù della sua sapida, imprendibile mistura di forte malinconia sanamente commovente e strappalacrime, del suo corrosivo e vorace esistenzialismo da applausi a scena aperta e, al contempo, per merito del suo intelligentissimo canovaccio e mood ironico altamente goliardico distillatoci nella sua usuale maniera più congenialmente sofisticata e di gran classe.

In sintesi: Michael Douglas, malgrado il Cancro da lui superato egregiamente, qui citato in modo sdrammatizzante, nonostante sia anagraficamente ingrigito, è pur sempre un marpione in ogni senso. Grande, idolo! Poi, nel primo episodio di tale third stagion, se la fa con una modella per niente stagionata. Ah ah. Evviva Natasha Hall!

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di Stefano Falotico

 

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