AMERICAN PSYCHO, recensione

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Ebbene oggi andiamo a ripescare un film forse misconosciuto per le nuove generazioni di Instagram, ovvero American Psycho.

Una pellicola corrosiva, un cult movie assai tutt’ora controverso ma, al di là delle sterili e superflue polemiche contingenti al periodo in cui uscì e in cui, anzi per cui severamente fu osteggiato e ampiamente criticato, oltreché boicottato dai perbenisti che mal tollerarono il massiccio uso di violenza (spesso però mantenuta fuori scena o soltanto stilizzata) in esso presente e mostrataci senza troppe parsimonie, American Psycho con Christian Bale, rivisto col senno di poi, soprattutto decontestualizzandolo, per l’appunto, dall’anno 2000 millenaristico in cui fu distribuito in sala, è certamente l’opus migliore in assoluto di un’ispiratissima Mary Harron (Ho sparato a Andy Warhol, prossimamente attesa col suo biopic su Salvador Dalí, interpretato da Ben Kingsley). Mai più così perfetta, filmicamente sgargiante, registicamente equilibratissima e perfino illuminante nell’aver ricreato magistralmente lo scandaloso ed epocale libro di Bret Easton Ellis, vivificandolo di creatività propria totalmente geniale, inebriandolo e corroborandolo di pungente autorialità che, fulgida e pulsante, a distanza di tanti anni vive e s’illumina ancora della sua bilanciata ed infusale essenza brillante e lucida.

Sebbene, come accennatovi, ai tempi della sua release ufficiale, American Psycho spaccò il pubblico, lasciando inoltre perplessi e insoddisfatti molti critici snob con la puzza sotto il naso. I quali, in effetti, prendendolo sotto gamba, lo sottostimarono non poco. Giudicandolo frettolosamente e accogliendolo con troppa tiepidezza. Invece, attualmente, molta intellighenzia critica s’è giustamente ravveduta, le sue posizioni rivedendo notevolmente, tant’è che sul sito aggregatore di medie recensorie che va per la maggiore mondialmente, cioè metacritic.com, riscontra un più che lusinghiero 64% di pareri estremamente positivi, per l’appunto, riottenuti a ragion veduta. Persino il critico Paolo Mereghetti, pur continuando a mantenere ferma la sua posizione e la sua valutazione di due stellette (su una scala da 1 a 4) nella nuovissima edizione del suo celeberrimo Dizionario dei Film, vi spende ed elargisce, seppur moderatamente e fra le righe, parole di elogio. Dal suo tomo dizionaristico, estrapoliamo quindi l’esaustiva eppur concisa trama da lui scritta, inserendovi, anzi apponendovi inoltre le sue brevi ma incisive, pungenti e acute ma, tutto sommato, complimentose considerazioni a riguardo, secche e lapidarie ma al contempo pertinenti e ben oculate:

Manhattan, 1987, il giovane e rampante broker Patrick Bateman (Bale) ha una fidanzata (Reese Witherspoon), un’amante (Samantha Mathis), spende capitali in droga e prostitute. Ed è anche un serial killer, che prima uccide un collega (Jared Leto) e poi prende di mira la segretaria (Chloë Sevigny). Dopo anni di progetti abortiti (per la regia si era parlato in un primo momento di David Cronenberg, Leonardo DiCaprio aveva rifiutato il ruolo del protagonista), l’adattamento del romanzo di Bret Easton Ellis patisce il ritardo con cui arriva sugli schermi. Non che la regista (sceneggiatrice con Guinevere Turner, che interpreta Elizabeth) non abbia fatto un buon lavoro, restando fedele allo spirito senza indulgere negli eccessi splatter e misogini del romanzo; ma lo yuppie omicida che forse sta immaginando tutto, degno prodotto di una società vuota, è una metafora che sfonda porte aperte (tant’è che, per cercare di modernizzarla, la regista alla fine guarda alla schizofrenia di Fight Club). All’attivo, il cast e il connubio di sociologia, satira e umorismo nero in sequenze come quelle sui Genesis e Huey Lewis.

Una critica precisa, netta e puntuale che però non ci trova d’accordo su alcuni punti basilari e salienti.

Mary Harron, come sopra spiegatovi, adattando il romanzo di Ellis personalmente assieme alla Turner, addirittura rifiutando la versione dell’adattamento curatole dallo stesso Ellis, optando dunque per una sua rilettura sganciata dalla penna di Ellis pur attenendosi quasi in tutto alla medesima novella da cui ha tratto il suo American Psycho, memore del grande Cinema degli anni settanta, sa finemente evocare atmosfere non inutilmente e sterilmente emulative, anonimamente ricalcate in modo ruffiano o anodino e furbescamente debitrici dei grandi capolavori dei seventies e dei primissimi anni ottanta (nel suo film, infatti, si respirano atmosfere lugubri e notturne chiaramente omaggianti Taxi Driver o Cruising), bensì, attingendo dai migliori stilemi di maestri come Martin Scorsese (nel pre-finale vi abbiamo scorto anche evidenti ed espliciti, citazionistici rimandi a Fuori orario) e William Friedkin, plasma un film ipnotico, anti-mainstream, quasi underground e warholiano, sperimentale, pieno di primissimi piani inquietanti che si concentrano su ogni morboso, morbido e rugoso singolo dettaglio delle apparentemente impercettibili eppur cangevoli espressioni dei suoi singoli interpreti meravigliosi, dimostrandosi una sapiente conoscitrice e ricreatrice perfino del nostro amatissimo Dario Argento dei tempi d’oro, generando un film progenitore, in chiave macabramente pregna di dark humor tagliente, di The Wolf of Wall Street e di tanti epigoni figli del disastroso e mai terminato edonismo reeganiano (lo stesso ex Presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, compare in tv). Dunque, anticipatore forse casualmente o in maniera involontariamente lungimirante, dello stesso Scorsese da lei, nella sua pellicola, amato e omaggiato.

Mary Harron, inoltre, riscopre quel bambino ed enfant prodige straordinario de L’impero del sole di Steven Spileberg, vale a dire Christian Bale. Cucendogli addosso, come direbbero gli americani, the role of a lifetime, cioè un indimenticabile e strepitoso ruolo mostruoso sotto ogni punto di vista, innanzitutto recitativo, che non solo, in tal caso, è iconico e magnetico, bensì è quello che ha segnato finalmente la svolta decisiva e cruciale dello stesso grandioso Bale. Il quale per anni stava stagnando in produzioni mediocri che non valorizzavano affatto il suo immane talento e il suo oramai conclamato e assai acclamato fregolismo impari.

Immedesimatosi, come sempre, nella carne e nell’anima di Pat Bateman in modo impressionante.

American Pyscho ha toni anche tarantiniani (fotografia infatti di Andrzej Sekuła, cinematographer de Le iene e Pulp Fiction) e cronenberghiani.

Fra gli altri membri del cast, da annoverare la presenza di Justin Theroux (un anno prima di Mulholland Drive), di Josh Lucas, di Cara Seymour nei panni della disgraziata e maltrattata, a essere eufemistici, puttana Christie, di Matt Ross e naturalmente di un granguignolesco Willem Dafoe bravissimo. Il quale incarna il detective Donald Kimball, al solito, da par suo. Vale a dire da indiscutibile titano dalla classe attoriale pregiatissima.

In sintesi:

Il film della Harron per eccellenza. Un Bale eccellente, una disamina spettrale, folle e visionaria, sanguinaria e memorabile da incorniciare negli annali della Settima Arte più eccezionale.

 

di Stefano Falotico

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