“Holy Motors”: il fetore di morte, il barocchismo funereo. Recensione del film di Leos Carax

Giusto perché ci piacciono molto i paradossi e i cortocircuiti antinomici, nel recensire il sublime delirio di Leos Carax, Davide Stanzione ha particolarmente sottolineato certi momenti di Holy Motors anche da un punto di vista inerente la grammatica cinematografica e le sue forme. Perché c’è del metodo nella follia, come sempre. E perché Leos Carax ritorna suoi luoghi (intesi sia come elementi della sua filmografia che come spazi all’interno del film stesso preso in analisi) con spaventoso, annichilente rigore geometrico. E il suo è un teorema indimostrabile di bellezza sconcertante.

Un’odissea furibonda e lunare, un’ode al Cinema come viatico di possibilità infinite, terra di metamorfosi e di esplorazioni incessanti, indagine della frammentazione di un io che si segmenta per perdere se stesso, per abbandonarsi a un flusso di coscienza ormai indecifrabile. Leos Carax, il più maudit dei registi europei dell’ultimo ventennio ed ex enfant prodige del Cinema francese, torna a scuotere l’omologazione delle nostre visioni con un film-mausoleo di poderosa bellezza, un’opera permeata da un senso di morte profondissimo in cui ogni forma di intellettualismo è legittimata, inevitabile, finalmente necessaria, nella quale perfino la carnalità del sesso può essere astratta e imprigionata in dei grotteschi grafici computerizzati.

Monsieur Oscar viaggia in una limousine e bazzica da una vita all’altra, senza alcun limite o soluzione di continuità: vecchietta rattrappita, padre di famiglia, killer spietato, attore in tuta da performance capture e ovviamente Monsieur Merde, il ributtante, bestiale e mostruoso clochard già apparso nel breve film di Carax, Tokyo!. Una negazione continua, il travestimento come rifiuto dell’ identità, come tensione verso ciò che oltre ad essere polimorfo è inevitabilmente anche privo di forma, un adattarsi vigile e geniale all’unica grande forma di Cinema d’arte oggi concepibile, quel postmoderno su cui tanti fiumi d’inchiostro si sprecano e spesso e volentieri troppo furbescamente si specula a livello teorico.

Carax si mette in scena in prima persona, si denuda in modo plateale ma paradossalmente mai autoindulgente verso stesso. Nel bellissimo e luttuoso prologo del film, il regista mostra se stesso in una fosca camera da letto e, grazie alla profondità di campo, evoca il primo abbagliante esempio dei tanti fascinosi misteri presenti nell’opera: un aereo si scorge in lontananza, la primissima luce di un mezzo meccanico, il preludio a quei motori sacrosanti che tanta importanza avranno nel corso del film e in particolar modo in quel finale folle, provocatorio, quasi sghignazzato. I primi fuochi di una regia maestosa oltre che mortifera, le prime nostalgie evocate: lo zoom all’indietro da una finestra, cui la figlioletta di Monsieur Oscar è affacciata, in un’indecifrabile espressione di vaga tristezza, rimanda a un precoce senso di perdita che in altri, successivi punti del film si tramuterà in lacerante dolore.

Ma Holy Motors, nei suoi sviluppi iniziali, è ancora un’opera smorta, quasi ingrigita: prevalgono i piani medi di Oscar dentro la sua limousine, con la sua giacca anonima e il suo taglio di capelli ordinario, prima delle varie deflagrazioni cui la sua giornata particolare di lavoro lo indirizzerà, risultandone essa stessa scandita. All’interno di questa narrazione episodica e frammentaria si distinguono dapprima le zoomate velocissime e violente, mentre Oscar versione vecchietta se ne sta incurvato sul marciapiede e si odono soltanto i lamenti pensierosi della sua voce fuori campo, e a seguire la prima, orripilante sessione di trucco in cui Oscar si tramuta in Monsieur Merde: dal particolare dell’occhio privato dell’iride, l’inquadratura si allarga fino a coincidere con un ancor più inquietante primissimo piano del terrificante ibrido umano appena apparso sullo schermo, che di lì a poco andrà a razziare un cimitero nel quale Carax c’immerge con una sontuosa panoramica dall’alto, accompagnata da una musica martellante e furiosa, quasi espressionista. Una panoramica che si restringe fino a confluire nel dettaglio del tombino da cui vediamo emergere proprio Monsieur Merde, incarnato come solo lui sarebbe capace dal protagonista Denis Lavant, feticcio di Carax e attore unico, corpo funambolico, proteiforme e col volto strapieno di cicatrici che ben si prestano al successivo invecchiamento di Oscar, fondamentale nell’economia della storia e nella simbologia che le è sottesa. Holy Motors, proprio come il suo personaggio principale, il più oscuro e disturbante mattatore che il Cinema contemporaneo abbia mai visto, è un film che vive di lampi, di accensioni repentine, di scatti e di sequenze memorabili, che vanno a tatuarsi nella memoria dello spettatore per sedimentarvisi: la scena in cui Merde rapisce la supermodella interpretata da Eva Mendes, filmata in un ralenti dalla tensione purissima, il trascinante piano sequenza musicale dei suonatori di fisarmonica capitanati proprio da Oscar, direttore d’orchestra dinamico e luciferino e non ultimo l’incredibile campo-controcampo del fondamentale dialogo tra Oscar e un Michel Piccoli simile a un’ombrosa apparizione, in cui le inquadrature sui solo volti si fanno sempre più asfittiche tanto che è su un primissimo piano del proprio volto tumefatto e macchiato di sangue rappreso che Piccoli pronuncia quella è probabilmente la frase chiave di tutto il film: “Dicono che la bellezza sia nell’occhio di chi guarda. Ma se è l’uomo a non aver più voglia di guardare?”. A tale interrogativo Oscar e lo stesso Carax rispondono con la mera e meravigliosamente autoreferenziale beauty of the act, la bellezza dell’arte come atto puro e in sé compiuto.

Un incanto che in Holy Motors ritroviamo in una sequenza in particolare, così bella da mozzare il fiato: quella in cui Kylie Minogue canta la splendida canzone “Who Were We” vestendo i panni di una Jean che somiglia paurosamente alla Jean Seberg del godardiano Fino all’ultimo respiro. Tutto il Cinema francese e tutta la poetica di Carax condensati in una scena insomma, preceduta da una carrellata laterale che ricorda moltissimo quella analoga di un altro film del regista di Pola X, il bellissimo Rosso sangue. Una storia d’amore riecheggiata con sommo dolore e che mai più tornerà, condannato all’oblio del non-senso e della perdita di se stessi, si dice nel film, e la notizia per cui gioire è che il nebbioso e indicibile Leos Carax c’è ancora a illuminarci col suo Cinema scapestrato e fuori dagli schemi, artificioso e nefasto, una risposta contemporanea all’”Ulisse” di James Joyce che, come nel maledetto e strabordante Gli amanti del Pont-Neuf, al di là della decostruzione del racconto cinematografico, sa anche come scaldare il cuore col suo fascino ipnotico e le sue visioni estreme e spettrali, simili ad autodistruttivi viaggi al termine della notte, mai concilianti ma sempre straordinari.
(Davide Stanzione)

 

 

 

 

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