Robert De Niro, L’intoccabile

di Stefano Falotico

E De Niro ci divinizzò a suo insegnamento, sol aggrottando la fronte d’asimmetriche rughe incorniciate a virtuosa e funambolica sua unicità mastodontica...

E De Niro ci divinizzò a suo insegnamento, sol aggrottando la fronte d’asimmetriche rughe incorniciate a virtuosa e funambolica sua unicità mastodontica…

Ebbene sì, c’era da aspettarselo, miei aficionados fratelli della congrega o meglio di tal community. Lo so, lo so, dopo tanti miei libri strambi, alcuni esoterici, altri che si “perderan per strada”, dopo anche tanto mio pavoneggiarmi da autarchico, semmai a tarda notte da solo in auto, sostando in un caffè che sfavilla tra rifrangenze lunari d’un plenilunio denso come un caffè pregno di nostalgico amore, ops, scusate aroma, tra sbandare, rifugiarmi “nudo” in solitarie riflessioni, poi semmai, con un colpo di culo (s)bottante con una donna da veri amanti, con lei che mi spaccò il vetro del finestrino perché voleva la mancia, dopo favell(ar)e e nel torbido rimestare, fra il menestrello, la riscaldata minestra, i luoghi comuni da me abbattuti, tra fratture e cittadini frazioni, fra sinistr(oid)i e (ambi)destr(ors)i nel dar la precedenza a un ignorante con “patente” da “figo”, dopo Clint Eastwood e di come m’immalinconì granitico, dopo Cage Nic e la sua recitazione da “passaggio a livello”, ché è ticchettante fra un espress(iv)o e un farti aspettar il treno con faccia annoiata da pesce lesso, tra il perplesso e un clacson, come non potevo parare su Bob De Niro?

Io e costui, da tempo (im)memorabile siam fratelli di sangue. Di come, precocemente già “straniero” di questo mondo, idolatrai immedesimandomi il suo Travis Bickle da scorsesiano colpo geniale su Schrader ispirato al massimo, non solo da Albert Camus. E abbandonai le frivolezze di quell’età acerba per accelerare nella mia indolenza da mohicano, fra il ribelle, lo “schizofrenico” suadente quanto ai papponi nel suonarle, le notti grondanti sangue, dolore a pelle, smagrimenti, pochi rancori, molte altrui apprensioni perché davvero ‘sti stolti credettero che io mi credessi un ne(r)o e invece amo anche la montagna, specie se col Bob dribblo le valanghe degli ottusi e scalo le vette. Non ho ambizioni da imbonitore letterario, lascio ai buonisti coccolar le ragazze al cioccolato coi loro aforismi “dolci” quanto a me disgustanti, bensì al solito privilegio me stesso, imperterrito anche se patirò le pene dell’inferno come un raging bull o, da king of comedy, solleticherò il mio once upon a time da Leone e non da pecorone.

Ed ecco qua il mio “biopic” su Robert.

Son tanto folle da partir proprio in medias res, da Ronin. Procedendo di narrazione avanti e indietro, basta che ci do dentro.

E a voi mostro tutto il primo capito(mbo)lo. Che piaccia o meno, io piaccio. Nessuno è perfetto, tranne io e De Niro. Mi dispiace per gli altri ché sono tristi e non sanno ancora cos’è Casinò. Anche perché la scena nel deserto, fra Bob e Pesci vale tutta una vita. Il resto è un gioco a dadi, io preferisco le dame agli scacchi.

 

 

Robert De Niro,L’intoccabile

 

Negli anni settanta, Hollywood si rinnovò e spuntò, dalle nebbie d’un Cinema retrogrado e oramai consunto, sull’orlo del collasso perché incapace di ammodernarsi, dalle opacità appassenti d’un nitrato d’argento troppo arrugginitosi, sì, spuntò Bob De Niro.

Così, Bob, l’apostrofiamo di primo nome simpatizzante d’empatia nostra amicale.

Bob De Niro e il suo neo distintivo, marchiato a volto inconfondibile che subito s’impresse nella memoria, radendo al suolo i visi impostati d’attori del passato già sorpassati. Li surclassò, beffandoli con la sua risata ambigua, fra l’ammiccante pensieroso a (non) discernersi ma (s)mascherarsi nudamente traspirando una smorfia enigmatica, dallo stupefacente chiaror lunatico nell’arsione levigata di labbra “argute”, peccatrici dell’unica colpa d’esser un Dio della recitazione, erede già designato di Marlon Brando. D’altronde, il destino è firmato di Oscar per lo stesso personaggio che interpretarono, appunto, in epoche diverse, cioè Vito Corleone, ma collocato d’egual carisma altisonante, magnetico, impossibile da scordare.

A scorticarci dentro nei fiammeggianti, sfumati colori d’una sottigliezza altissima d’attori nati divini.

E De Niro ci divinizzò a suo insegnamento, sol aggrottando la fronte d’asimmetriche rughe incorniciate a virtuosa e funambolica sua unicità mastodontica. Anche solo “masticando” la pelle del suo volto in abrasione nostra a congiungerci amanti dei suoi sospiri di diaframma denso, sanguigno, iroso o arrossendoci di tale forza penetrante d’ardore camaleontico da raschiarci e scuoiar le nostre pulsanti vibrazioni interiori.

L’emozionalità della grandezza empatica, il flusso caloroso del transfert attore-spettatore.

 

“Non devi avere affetti o fare entrare nella tua vita niente da cui non possa sganciarti in trenta secondi netti”

(Heat – La sfida, Neil McCauley/De Niro)

 

In adorazione, lo celebrerò…

Perché, dopo averlo visto per la prima volta, ipnotizzato dalla sua portentosa forza ammaliante, irriducibilmente ne son invece perpetuamente invaghito, anzi, che dico, ferocemente, indubitabilmente scalfito nel cuore a lui più permanentemente an(s)imato e avviluppato in bramoso, turgido struggimento, a estatico rapimento rinvigorito sempre più di sua incandescenza carismatica di me inchinato nell’adorazione più soave e ascendente di maggior amarlo imperituramente, di sua aura plasmante il mio passionale, avvinto, posseduto incendiarmene d’iridi sue nere, increspate da sentimenti penetranti, da contrasti poderosi e persino contraddittori d’una sua stessa anima burrascosa, vivida e sanguigna, di suo ne(r)o cangiante e volto espressivamente esplosivo a far sì che me ne deflagri prostrato d’infinita, eterna venerazione giammai lesa, da strenuo fan che, anche dai suoi sbagli, mai infranto rammaricherà d’esserne stato, d’essenza mia intima così fragorosamente toccata d’ebbrezza come un delicatissimo, violento, turbinoso colpo di fulmine a ciel sereno lustrato di luce intensa e fiammeggiante, esserne tuttora e per sempre imprigionato d’occhi squartati in delizia, di suo inarrivabile talento, gioiosamente immerso d’amore immenso.

 

1.

Ronin

De Niro e il noir, o meglio il polar, e voglio iniziare questo lungo excursus, partendo “in medias res”, dal capolavoro di John Frankenheimer, Ronin, appunto.

Ma prima, spero perdonerete questa mia digressione favolistica, voglio narrarvi di un mio sogno. Di come oggi, dopo tanto trambusto, inerpicandomi lungo la via esistenziale dei ricordi, a lor volta riscaturitisi da stagioni mie enigmatiche d’una craterica, ansiogena vitalità congenita, mi trovo qui nel bel mezzo del cammino a rielaborare tanti lutti, le penombre fosche in cui m’adombrai e, da tale stato mentale tetramente assorto nel languido torpore della mia stramba vita navigante nel profondo del magma arcano e mesmerico, o se preferite marasma oscuro eppur rifulgente, asfaltandomi di lustrato crepuscolo argenteo, a libagione d’un rinato, risorgimentale cuore, passeggiando a ritroso di memorie, che credetti per sempre perdute, agganciandole come s’afferrerebbe un toro per le corna, scuoiandolo perché sanguigno, anziché ucciderlo, proprio nel far sì che dall’arpionato morente si ridesti arrabbiato e vigoroso, lo sp(e)roni di rabbiosa ferocia più vivida ed energica affinché urli di possanza guerriera, eccomi a sbranare il mio passato perché m’infonda non tristezza melanconica, giacente nella mesta e sfinente rassegnazione, bensì gioia malinconica risvegliatasi grandiosa.

 

Ed è una sottile, quasi impercettibile sfumatura magnifica qual è, questa sì, la vita nella sua essenza vorace e fervida, euforica e ribalda di rivolersi ancora.

Scalciante e maestosa, come un impero di travolgenti sensi a sbraitar furiosi, dopo tanto averli troppo accuditi di quietezza e morigerate, però ingannevoli saggezze… la vita qui, ribaciante le gioie che mi parsero smarrite, si rianima e sogna ancora, gemente i lamenti e i lividi superati e risorti d’acuminato, rinnovato, stupendo candore strepitoso.

Ed eccomi allora senza un soldo a (re)immaginare la mia vita e a pensare all’ancor incerto destino. C’è da scommetterci che verrà tante volte di nuovo infranto e poi si spaccherà in mille pezzi, così come è l’evoluzione pura, ma non più di nulla impaurita, del perder la strada e imboccar poi la via non più rotta ma respiratoria dell’immenso gaudio respirante aperti, dardeggianti orizzonti.

Perché evolvere significa anche soffrire, il cambiamento costringe a guardarsi dentro. Ad affondar nel buio che ti linciò, in cui guaisti inascoltato, deriso ma, dal ferimento brado, anziché dissanguato morir spellato d’anima, invece più forte come un’armatura qui adesso invincibile che si stritolò di pianti sommessi, anche urlanti nei tuoi agghiaccianti silenzi, quindi guarire di bacio in pace col mondo.

 

Indago fra i miei desideri spentisi e di nuovo riaccesisi furentemente, e lucente scorgo me a gestire una libreria nel quartiere parigino degli artisti, la culla per antonomasia d’ogni (in)nato artista, Mont-Martre. Sì, sono il proprietario di questi sogni racchiusi in pagine di levigati intarsi svenevoli di bellezza, tanto quanto meraviglioso fu l’antico samurai senza padrone di nome Sam, un ipnotico De Niro battagliero, apparentemente morto dentro, invece più vivo e splendente che mai.

 

La magnifica Parigi fredda dell’ultima perla polar di John Frankenheimer

 

Cinque mercenari, appartenenti ognuno ad un’agenzia segreta di spie, che non ci viene rivelata così come rimarranno nascoste le identità dei loro membri.

Tali membri chiamati semplicemente per nome “anonimo”, oggi oseremmo dire nick, vengono convocati in un luogo misterioso ubicato alla periferia di Parigi. Sono stati assoldati per una missione: riunire le forze e la loro esperienza in tecniche di guerriglia urbana per venire in possesso di una misteriosa valigetta, il cui contenuto, però, rimarrà a noi ignoto sino alla fine.

Insomma, il perno dinamico attorno a cui, è proprio il caso di dirlo, convergerà l’action nevralgica della struttura del film è il classico “colpo” da MacGuffin, quello stratagemma narrativo, diciamo espediente “depistante”, coniato da Alfred Hitchcock per il perseguimento del quale si concentra l’intera vicenda ma che, per gli occhi di chi guarda, non ha alcuna rilevanza proprio perché la sua importanza ci viene tenuta nascosta.

A capo dell’organizzazione, l’algida Deirdre (Natasha McElhone), che spiega alle spie, tutte specializzate in uno specifico campo (ad esempio nell’elettronica o nella guida delle auto), come portare a termine la missione attraverso le loro uniche abilità. Una prova d’addestramento, diciamo, con tanto d’ingegnoso piano studiato nei minimi dettagli, per riuscire ad estorcere dalle mani di un boss della mafia la valigetta tanto ambita.

 

Come si suol dire in questi casi, è naturale che qualcuno tradisca, forse perché infiltrato. E l’intreccio si complica. Chi fa il gioco sporco? Chi è il “consigliere fraudolento”?

Il film è come un caffè amaro bevuto in un bistrot raffinato. Diluito nella pregiata miscela d’un Frankenheimer nel suo nostalgico, svettante canto del cigno. Un Frankenheimer che torna alla grande dopo anni di appannamento, ambientando il suo ultimo capolavoro in Francia, fra le viuzze crepuscolari di Nizza, i tramonti languidi di pregna malinconia, inseguimenti automobilistici mozzafiato e “d’antan”, cioè ricreati in modo “artigianale” e “in diretta”, senz’uso della computer graphic o effetti speciali posticci.

Un film antico, quindi, memore di un’altissima scuola cinematografica oramai sbiadita dalla convulsa frenesia del finto luccichio dell’odierna, indigesta Hollywood tutta botti e spari ma, a differenza del grande nostro John, priva di anima.

 

Secondo gli stilemi propri d’un classicismo da far rabbrividire per maestosa maestria registica, puntiglio tecnico, calibrata dosatura delle inquadrature, “ciniche”, secche e veloci come un’appuntita, ficcante, glaciale lama di rasoio, dopo tante peripezie, inganni e robusta adrenalina sontuosa, la missione viene portata a termine.

La valigetta finisce nelle mani dei buoni. Ma sono davvero buoni? Su questa domanda, senza risposta, Frankenheimer ci stordisce d’altro impagabile retrogusto ambiguo da applausi. Un film perfetto, che cresce col tempo. Sottovalutato quando fu presentato fuori concorso al Festival di Venezia, è invece, ribadiamolo, un raro esempio d’impeccabile stile, rinvigorito da un parterre di volti d’attori straordinari, sui quali spiccano un grandioso De Niro “melvilliano” e il bessoniano Jean Reno, fenomenale accoppiata di recitazione sobria, giocata sugli sguardi, i furbi ammiccamenti complici, le “freddure” delle battute scritte dai due sceneggiatori, J.D. Zeik e soprattutto il solito beffardo, inarrivabile David Mamet, qui accreditato sotto il nome di Richard Weisz.

La fotografia nitida e acquosa, “allineata” alle rigide atmosfere decadentiste del film, a firma di Robert Fraisse, e le “sottili” location indimenticabili, contribuiscono a quel tocco di magia nostalgica ed emozionale, da lacrime agli occhi, tanto quanto la romanticissima colonna sonora di Ella Cmiral, ispirata, mesta, “dolorosa” e innervata dentro le coordinate d’una superba vetta melanconica dal profumo grande Cinema.

 

 

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