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Bad Lieutenant: Port of Call New Orleans, recensione

 

Very bad” guy e Tenente… Gun!

C’è una peculiarità ammirabile nel corpo attoriale di Nic Cage, la totale strafottenza mimica e gestuale, l’incontrollabile “amministrazione emotiva” che scatta fluviale in stato cardiaco recitativo d’una nevrosi come un teschio, sovreccitato in defibrillazione “giallo magma”, a non inibire, anzi ad accelerare, fin al parossismo “screanzato” e sporco, i “dettagli tecnici” del suo “spararsi” in vena, adirata e imbizzarrita, quei sacrileghi dolori che serba dentro, sino a “ucciderli” in schiamazzi e urla “spermicide”.
Werner Herzog, per finanziarsi altri progetti più “autorevoli” e “autoriali”, accetta la proposta della Millennium Films e del suo guru Avi Lerner…, per una commissione che possa, in qualche modo, coincidere con la sua poetica flagellata di superomismo (auto)distruttivo.

E riesuma Abel Ferrara per un remake aggiornato ai suoi cari temi: il doppio, il credersi onnipotenti, al di sopra della legge morale, legale e soprattutto “divina”. Ma un diverso, insanabile conflitto alberga in te. Piangerai e urlerai, non puoi cambiare.
“Inalando” in Cage il cadavere “scomposto” del Kinski allucinato e matto.

Operazione riuscita a metà.

Non starò a citarvi tutti i ruoli in cui Mister Cage è stato simbiosi coi suoi nervi poco saldi.

In tanti, hanno visto in Nicolas una “macchina” adatta al desiderio registico d’“impressionargli” addosso il teorema “schizzato” del delirio, del complesso di colpa, della rabbia alla radice del suo istintivo, chemical “partire in folle” e contorcersi (av)volto(io) in smanioso, iperanimato, incontenibile “estro” (in)sopportabile.

Lynch lo tatuò in un selvaggio heart, Figgis lo strapazzò e “conciò per le feste”, aspirandogli il sangue nell’azzardo già postumo (non solo di sbronze…, ma proprio funerario, un morto che cammina per un destino irreversibile…) della Las Vegas “concubina” ed Escort al “pompino” scacciapensieri di un illusorio romanticismo già terminato in “bocca di rosa”, strangolata, recisa, sfiorita e dal troppo amore, “sdolcinato” ed eroticamente profluvio nel Sesso “ai margini”, singhiozzante dentro il loculo.

Brian De Palma aveva avvistato un potenziale Al Pacino scatenato. Non a caso, nel casting iniziale di Omicidio in diretta, il suo “amico” rivale doveva essere proprio il grande Al.

Lo stesso De Palma stava progettando il suo Howard Hughes con Nic, prima che la sua sceneggiatura, “improponibile” per l’ottusa Hollywood, fosse bloccata in “rampa di lancio”.

Il sogno aviator riuscirà algidamente a Scorsese, con un magnifico DiCaprio cristologico, film però “tarpato in volo” da Harvey Weinstein nel ri(n)toccarlo di mainstream oscarizzabile, dunque un Icaro smorzato, rimpicciolito nel suo gigantismo reminiscente Orson Welles.

Prima di questo capolavoro mancato, Nic incrocia proprio Scorsese.

Si chiama metacinema purissimo.

Invero, la Paramonut ha obbligato zio Marty a scritturare il nostro. Scorsese aveva già preso accordi col nuovo De Niro, Edward Norton. Perché Al di là della vita è lo specchio “maturo” di Travis Bickle ancora più schraderiano d’incubi maledetti.

Cage non è De Niro, traballa e non è convincente fino in fondo. M’alcune inquadrature sui suoi occhi azzurri vitrei, spalmati in una New York nera e livida, sono sad eyes di acro g(i)usto after hours.

 

Poi, le manie matchstick d’un Ridley Scott “sincronizzato” alla Natura Cage della “compulsione”. Da panico!

Il migliore Nic che mi ricordi da più d’un decennio. Riesce a essere appunto over ma con una sordina improvvisamente commovente nel vivace eppur trattenuto donare Cuore al suo stile “fuori dalle righe”.

Un “fallito” geniale. D’applauso e quasi da statuetta.
Nic non sarà adaptation alla cosiddetta “intensità” e, appena s’impegna ad apparire “sofferente”, un barlume di lucida faccia da stronzo emerge sempre. E Nic lo sa. Serpeggia!

 

Anche Herzog che, prima di consegnargli quest’erede di Harvey Keitel, deve aver studiato attentissimamente la sua filmografia “sgrammaticata”.

In Ferrara vibrava la vetta dell’addiction più doloroso, un lieutenant affliction e mal di vivere atroce, blasfemo.

Un Gesù “satanico” che (non) perdona, inginocchiato in abside a sue sedi marce senza speranza di redimersi e “ascendere” al bene. Il gesto finale è uno sberleffo a se stesso. Altro fottersi, spacciato!

 

Werner compie comunque un’operazione personale, sganciata da Ferrara, da cui prende in prestito solo l’intuizione del personaggio per imbastir una trama vicina al culto herzoghiano.

 

Il tenente di Cage è il Gary Sinise di Forrest Gump, spaccato nelle vertebre, paraplegico d’una frattura innanzitutto non cucita al non darsi pace per il tragico “ridicolo” ch’è. Tenente Dan! Che brutto scherzaccio!

Slanci di passioni, Eva Mendes (non) cura le ferite, uno squalo orrendo che picchia, scopa le ragazzine e si droga con dosi da cavallo.
Quindi, è insospettabilmente capace d’essere “pateticamente” poetico e (in)credibile.

Il film cazzeggia come il suo Cage, è lisergico ma ha paura di contaminarsi, non è Ferrara neanche a guardarlo “di striscio”.

Le lucertole appaiono, fanno male, pungono, dissanguano il “vampiro” Nic, lo rinsecchiscono, lo violentano, con “calma” strisciano.

E lo mandano in quel posto.

Ove (non) merita. La cucina del suo “Inferno”.
Una presa in giro.
(Stefano Falotico)

 

 

Escape to Victory, review

Escape for liberté, egalité, fraternité

 

John Huston nel suo spaccar le tempie con una deflagrazione di lancinantissimo grido.

Un dramma “intimista” anche questo, nelle vertebre scolpite di antieroi per un sogno libertario da incidere nella memoria, per non dimenticare le ingiustizie, un sofisticato colpo al Cuore di massima, istoriata virtù a mirabolante “celarlo” dietro un’avventura “per ragazzi”, forti, vibranti, intrepidi e liberi nel librato sgranchir le ossa, arcuare i muscoli e feroce dilapidare il nazismo e ogni coercizione alle anime con l’alato magic touch, leggerissimo, folgorantissimo, di un cineasta in stato di grazia.

Come dirigere un capolavoro per tutte le età, “infantile” nelle sue “grida del silenzio”, scatenato, irresistibile, abbacinante e maestoso in squarci di grande Cinema. Il Cinema cos’è se non una proiezione della condizione umana in ogni sua sfaccettatura monumentale al nostro respirare le emozioni, aspirarle con sognanti voli e anch’illusorio donarcene in salvifiche armonie?

L’impossibilità della victory per chi è nato “perdente”. “Plagiato” a ogni sciovinismo contro la fratellanza ch’è alla base antirazzista d’ogni forza gravitazionale antropocentrica.

Una storia “scarna”, ginnasta di vecchie glorie “martoriate” fra le sbarre e ancora una volta Sly Stallone, emblema rilucente del popolo ribelle, a icona decisiva.

Sarà lui a parare il rigore che vale tutta una vita, il riscatto, l’impulso distruttivo, rabbiosissimo di un ralenti “smorzato” nelle sue labbra “storte”, in posa plastica “sbilenca” a paralizzare e gelare il sangue per l’estatico tifo finale, sprigionato come tutto il marcio divelto in un attimo sospirato.
Il genio di John Huston svia apparentemente dal suo Cinema drammatico, invero è una prosecuzione già avanguardistica di magniloquenza fenomenale.

Un’altra pellicola corale, imbastita sui volti indimenticabili anche, e soprattutto, di grandi calciatori, fra cui proprio il più grande, il leggendario Pelé.

Michael Caine dirige le facce di cuoio, i “miserabili” (ogni citazione a Victor Hugo non è affatto casuale…), per un’improbabile partita “a scacchi” su un campo di calcio, verde e illuminato dalle avvolgenti prodezze dei suoi prodigi balistici.

A tramortirci di grandezza epica, basterebbe la “giravolta” di Ardiles e la sforbiciata “aeroplano”, innalzante, strepitosa, arpionante, strappa-applausi proprio di Pelé.

Il grande Cinema non ha bisogno di sofismi, oggi di moda, qui c’è vera ruggine, il resto “odierno” tanto incensato, a confronto di tale schietta, tagliente “strategia” registica, è un orpello di cui volentieri faccio a meno.

Che gli altri spendano “agghindate” parole retoriche per il Cinema di Soderbergh, mi tengo cara l’austera action di roventissima, romantica destrezza di John Huston.

John dimostra che la parola “Retorica”, appunto, non esiste quando la si doma, la si glorifica con “giocate” ingegnose di dosaggio sapiente e poderosa leggiadria.

 

(Stefano Falotico)

 

 

 

 

L’ultimo dei Mohicani

Tu conosci l’avventura dell’ultimo sopravvissuto della tribù coraggiosa dei veri pellerossa?

Michael Mann, innovatore e memore “imprigionato” nei 70 per accelerarli di futurismo, anche sviando, estemporaneamente con una picaresca “dipartita” dai suoi soliti temi di Natura thriller.

Attinge a Fenimore Cooper e lo incide nella secchezza atletica d’un Daniel Day-Lewis condottiero e d0una sensualità liscia come capelli sciolti tra gli intrecci sopraffini di lotta divorante.

Inversione della tendenza, nessun bianco contro l’indigena selvaticheria.

Indiani… gli uni contro gli altri, ai margini delle guerre colonizzatrici, “aristocratici” selvaggi contro brutali d’efferatezza primitiva.

Sopravvivenza delle dinastie e dei valori impressi a scalpo, a nitrito d’attriti “consanguinei”.

Trama innestata su un “rapimento”, come nelle storie di suspense moderna. Ma d’intelaiato classicismo da far impallidire ogni viso “nostro” pallido. Tatuandoci di draghi virenti a emozioni epidermiche, fluide nella musica martellante d’un Trevor Jones ispirato dalla movenza “pifferaia” di afflato ed epicità libera come aquile nell’alba del vivido detonarle raggianti.

Una sfida, già heat, un mostro nero come gli orchi delle favole.

Ruba e “stupra” l’innocenza e le verginità, e il suicidio annuncia la vendetta deflagrante di un urlo nella foresta.

Day-Lewis lascia il mezzogiorno di fuoco al padre putativo e gli consegna tutta la potenza della sua giovinezza.

Il padre impugna un’ascia sanguinaria, lesto accerchia il mostro, lo agguanta nel respiro già annichilito e lo sgozza vivo.

Poi, il tramonto di un’epoca.

Madeleine Stowe, capolavoro di Donna nelle luci a planare d’un commovente “Io sono l’ultimo, l’ultimo dei Mohicani”.

(Stefano Falotico)

 

Last-of-the-Mohicans-Blu-ray-4

 

Requiescat: Indagine sulle morti di Cajkovskij

Sono di parte ma recensisco ugualmente.

 

Ipnotico, “breve” capolavoro che racchiude, in lirismo d’immagini fuori d’ogni epoca, l’assoluta anima di un genio “vergato” nei patibolari ultimi suoi giorni prima dell’addio definitivo ma immortale per l’umanità. Magnetiche presenze s’intersecano a gravitar di congiura e testimonianze discordanti, diluite in plumbei nitori fra inquadrature accorate, soffuse, “al liquore”, avvinghiate all’enigma per sempre misterioso, aura di fascino “arsenico”, dolce-amara visione del Tempo scandito nelle lucenti, incantevoli note della sua impareggiabile colonna sonora colore Bellezza.

Spettralmente, appare dalle nebbie L’Inquisitore, figura “mascherata” flamboyant, voce gotica che s’incarna (in)visibile dalla penombra, si sviscera dalle e dentro le tenebre profonde di quest’indagine maestosa. Quindi, sfilano i suoi amici, i suoi conoscenti, i suoi “assassini”. Il rimpianto dell’amore e di una vita sacrificata per un bene altissimo, estremo. Poi, il Cielo lievissimo s’increspa nella Notte.

Complimenti a tutti gli interpreti, con particolare menzione per il protagonista, nel cui “vegliardo” volto brilla la saggezza vivida di un grande Uomo, per Valerio Vannini, perfetto, stupendo sentire ad aderenza del dolore così elegantemente espresso, e a Ottavio, “fantasma” inquietante da “lugubre” cerimoniere.

 

(Stefano Falotico)

 

 

 

 

 

Michael Mann, il liturgico fascino dinamico della Notte

 Il Cinema di Michael Mann, sempre di sguardi “retrovisori”, proiettati in quel che scorgeremo, annusiamo fra le Lune dei nostri umori, destini incrociati, rovesci della medaglia, analogie, specchi e simbiosi di somiglianze agli antipodi.

 Una calma mattutina albeggiante, poi detonazione improvvisa di messa in scena velocissima.

Questo è Michael Mann, giusto un assaggio da lasciar “secchi”.

 

 

 

Clip esoteriche dell’allucinazione cinefila negli occhi “neri” di Johnny Depp

Paura e delirio a Las Vegas, il Johnny Depp più maledizione della prima Luna ancor prima che s’allunasse nei tic di maniera del Cinema Disney. Qui, è favola davvero d’una follia geniale. Alle “maestranze” del visionario Terry Gilliam.

 

 

Un Depp romantico, quasi “Harmony”, nel capolavoro più sottovalutato di Michael Mann.

I rob banks, dichiara sfacciato, falciato dalla società, ad amore perduto della voglia di fuggire dalle regole stantie d’un Mondo che spezzò i suoi sogni prima che (ri)nascesse. Intrecci metacinematografici del Paradise alla Brian “Carlito’s Way” De Palma.

 

 Rodriguez più Sergio Leone ma decisamente meno fascinoso e coinvolgente. Un giochetto ambientato in Messico, ove il Sole è accecante come la Bellezza angelica di un Diavolo, diafano, magnifico Depp.

La sua interpretazione, diciamo scherzosamente, meno vista di buon occhio, perché “secondaria”. Invece, centralissima di Sguardo alla sua icona maledetta che fu.

 

(Stefano Falotico)

 

 

 
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