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Totò, buon compleanno

C’è chi può e chi non può: io può.

C’è chi può e chi non può: io può.

 

di Stefano Falotico

Oggi è il compleanno dell’immortale Principe Totò, al quale dedicherò un libro, incarnandomene, nella speranza di decantarne il sagace genio profetico…

Al mio funerale sarà bello assai perché ci saranno parole, paroloni, elogi, mi scopriranno un grande attore: perché questo è un bellissimo paese, in cui però, per venire riconosciuti qualcosa, bisogna morire.

Totò (15 febbraio 1898 – 15 aprile 1967)

Signori si nasce, e noi modestamente lo nascemmo…, parafrasando il nostro prediletto partenopeo, ché tanto ebbe i natali nel mio “Vesuvio”, in quanto entrambi “gemelli” lavici di eccentrica, dadaistica creatività su espressioni talvolta picassiane come una sinfonia di Beethoven nei suoi momenti alla Milos Forman, fra il genio, l’infantilismo incurabile, la follia musicale dei giochi di parole e delle note a nostro Cuore maiuscolo canzonatorio, che è motivetto “gastrico” di tanti tormenti. Ma, patendo, resuscitiamo sempre brillanti, stupefacendo. In mezzo a un’umanità permeata solo da pazze rincorse alla “palla” della Cirus, noi abbiam orgogliosi il nasone alla Cyrano e nessun ci prende per il popò. Noi siam fanatici delle “turchine” Pampanini e mai pian pianino sfottiamo la “bella” società con a lor sgradevoli palpatine in mezzo al nostro sganasciarcene di Totò di tutto punto e anche la virgola, adbondantis in adbontantum.

Sfotti e da noi riceverai altro conte, ma che dico, parlo come bado, uomini liberi da caporali untori e a ungervi, care malafemmine. Di cui ne siete, pur nascosti in maschere “inappuntabili”, sempre d’occhi strabuzzanti, ma poi corteggiate castranti d’auto inganni alla Don Abbondio.

Io a Totò dedico questa mia “a dirvi”…

Chi sono? Uno che dalla nascita lo prende in culo per troppa onestà (im)morale. Io sono colui che dà, che ridondante dondola ma presto, dopo tanto resistente barcollare, oscillerà da una trave, pendendo su mie labbra di spaghetti. Ah ah. Sì, evviva la pastasciutta, cioè me stesso reso al sugo dalla vostra appetitosa fame. E fui. Ora, fumo. Ciao. Sarà uno smog umorale. Voglio del (di)vino. Il frigorifero conserverà il mio cadavere cristologico da urna di San Gennaro tra la frutta? Chissà. Lecchiamo il gelato, baciatevi le mani, son sporche di cioccolato. Tutta glassa che cola, cari grassi. Fidatevi, non morirò. Son osso duro, giusto quello, fra i vostri cazzi grossi. Mancano anche i grissini.

Adesso, se permettete, aggiungo: ove l’ignorante urla, il Principe rimane…

 

City of Joy (La città della gioia)

Il ruolo più (in)credibile della mia vita, quello che mi ha rovinato la faccia da playboy

Il ruolo più (in)credibile della mia vita, quello che mi ha rovinato la faccia da playboy

 

di Stefano Falotico

Don’t cry for me…, riscopriremo la gioiosa alba


M’illusi… sì, quando noleggiai il VHS, all’epoca del “datato” 1992, che Patrick Swayze fosse una star sulla rampa di lancio. Fu lui, infatti, assieme a Jodie Foster a presentare il Golden Globe ad Al Pacino per Scent of a Woman. Lui, ballerino torero di Dirty Dancing, inumidente di bacino sudato da duro del Road House ogni acerba Demi Moore nell’osannarlo di sogni erotici alla Ghost.

Ma il tempo gli fu letale e, prim’ancora d’esser divorato dal Cancro mortale nel nostro compiangerlo, Hollywood lo deturpò brutalmente, relegandolo all’anonimato meno sensuale.

Questo film doveva essere la sua consacrazione perché diretto da Roland Joffé, un altro su cui si nutrivan grandi speranze ma qui al primo, grande bluff d’una carriera filmografica dal cammino regressivo.

Tanto la retorica di Mission dosò di suggestivo emozionarci nel calibrarla con classe vigorosa ed elegante delicatezza, quanto qui affogò nella melma, non solo delle bidonville.

Questo Swayze mi ricordava me. Figlio sexy ma inquieto di una madre biologa, la mia biblioteca già traboccava di libri in esubero “polveroso” della mia genitrice, da “Guida Medica” ai prontuari curativi “alla penicillina”, da manifesti cheguevariani alle avventure taumaturgiche, soprattutto per sé stesso, di Marco Polo.

Quindi, sperai in un processo d’identificazione su prima adolescenza nobile, da ragazzo ambizioso di lenire i mali del mondo.

Questa è invece la storia… tediosa, farraginosa, insopportabile e senza pathos d’un medico melodrammatico ma, sebben energico, coriaceo e stoico nel suo sogno utopico, simpatico e credibile quanto mia nonna nelle vesti di una geisha.

Un medico che, sconvolto dal suo “bringing out the dead”, vorrà curarsi innanzitutto dal complesso di colpa, espatriando dall’America all’India, in cerca d’orientale “pacifismo” alla sua anima tormentata. Dostoesvkij nelle vesti “mache” di Swayze serio?

No, il regista rende ancora più ridicolo l’improponibile assunto e vorrebbe che la sua “operetta” assurgesse a totem “impegnato”.

Ne uscì un pasticciaccio, un guazzabuglio di tanta carne arrosto da “infuocarmi” di delusione glaciale.

Distrutto dalle mie “urla del silenzio”, mi sveglio, mi affaccio alla finestra e scorgo la vicina dirimpettaia che fa l’amore con tre civette sul comò…

Sono sempre più malato d’“amore” per l’umanità.

 

Wild at Heart

Love me tender, Love me sweet, Never let me go. You have made my life complete, And I love you so

Love me tender,
Love me sweet,
Never let me go.
You have made my life complete,
And I love you so

 

di Stefano Falotico

 

Cuore selvaggio

Livida e crespa è l’avventura intrepida di due amanti senza tempo…

Una storia di perdizione e rinascita, “ingranata” nel David Lynch furente, scardinante già le “ottiche” percettive con fiammeggianti fotogrammi adamantini a dissolverli, temprarli, arroventarli nella possanza d’un Nic Cage, qui Nicholas, come da poster, risonante l’eccentrico “musicista jazz” della sua arte attoriale bizzarra, vereconda e rabbiosa, fulminea d’imprevisti scatti violenti, a turbine livoroso dei suoi occhi color verde smeraldo fuoco, ardenti il candelabro della maliarda quant’ambigua sua figura da scellerato, eroico, romanticissimo gaglioffo. Tiepido d’occhi cangianti, pronti irresistibilmente ad accendersi in schizzi detonanti a fusione impetuosa della sua morfologia cranica, che si “sgranocchia” in avida consunzione d’atletiche, feline movenze e corporatura robusta quanto rinsecchita dalle imperterrite, ondose sigarette, marce di fervidezza, che sfila e “singhiozza” fra umide, sensuali labbra alla Elvis Presley…

Messo in gabbia perché, per legittima “difesa”, ha ucciso un uomo. Esce e, ad aspettarlo, la sua bella, ululante Lula, una Laura Dern dalle curve mozzafiato, vogliosa, matta da legare, capricciosa come Cappuccetto Rosso col suo lupo Nic, Sailor Ripley, violante ogni pudore, a corroborante sguinzagliar l’inesausto, pericoloso volante lungo la strada dell’immaginazione frenetica, allucinatoria d’un Lynch favolistico quanto rude, quasi rusticano, evocante ere in cui la vita non era uno scherzo e l’amore incarnava il vero, americano Dream lib(e)rante.

Un capolavoro che profuma di libertà angosciante, come il suo folle, titanico Nic Cage, che va a cacciarsi sempre nei guai per impeto auto-distruttivo irruento, da farsi male per schiacciare il pedale del rischio accelerante, cieco di passione sfrenata.

Dicevamo… esce di prigione e, con la sua amata eterna e immortale, spericolatamente inseguono la via luccicante del sogno d’una vita migliore. Ma il tragitto sarà sgambettato da martellanti ostacoli, dalla madre di lei, più psicopatica di tutti, a metter alle lor calcagna un investigatore privato per far saltar in aria il loro piano di fuga e anche di costante ricerca, quasi carnivora, spossante, della redenzione epica.

Poi, compare davvero l’uomo nero, il bruttissimo guercio dai denti cariati e il sorriso di Satana, Willem Dafoe, alias Bobby Peru.

Bobby è l’emblema del “peggio del maschio”, e coinvolge il “puro” Sailor in una rapina col “morto”.

Sailor rimane vivo, ma ritorna in gabbia, beccato in flagrante dalla durissima polizia di confine…

Lula lo ama da morire e l’aspetterà ancora, con il figlio che ha avuto da Sailor.

Sailor, stavolta, però ci ripensa ed è lui a fuggire, con la sua “valigetta” di sogni andati a farsi fottere.

Viene aggredito da una gang locale ma viene “illuminato” addirittura dalla Fata Turchina di nome Glinda, “in carne e ossa” su fattezze dell’abbagliante, irreale Sheryl Lee, la nostra ex Laura “Twin Peaks” Palmer.

Stordito, “ammaccato”, ancora più innamorato, inseguirà la sua Lula, dedicandole l’immane Love Me Tender…

 

 

Windtalkers, eyes on war

Windtalkers

 

di Stefano Falotico

“Auscultando” il vento sibillino d’un serafico dolore a cuori di tenebra nella tempesta della guerra…

Pomeriggio assolato, poi assopito rimembrante in vaghe mestizie mie di rinnegato in casa solitaria. Nel selciato dei miei ormoni guerriglieri, eppur svaniti nelle dormienti braccia melliflue del felino Morfeo, ingordo d’ansimo, sbiadente il sonno delle eterne notti, risaltai sella al mio glorioso onore che fu, nella via peritura della prossima mia “cassa” funebre, che stava morendomi in buio dell’aldilà e poi mai più.

Al che, riaprendo velocemente e violentemente gli occhi, travolto dai sensi ridestatisi, anziché vestirmi, essendomi coricato di nudo petto glabro, sentii fischiettar nella mia anima un film che stetti per dimenticare, Windtalkers.

Storia di indiani al fronte a baciarsi d’amicizia virile coi “cacciatori” bianchi di “taglie” e proteggersi dalla tragedia bellica, ascoltandosi nei mormorii dei venti cantanti l’atroce bellezza della Monument Valley.

Un John Woo tornato a onda d’urto laddove all’epoca mi sfuggì e, non stordito, lo placai nel sonnecchiarlo.

Da rivedere, senza sonnifero agli occhi invece da bruciare di corse scroscianti l’aerobica, planante macchina da presa d’un Woo strano ma non commerciale, come prima visione potrebbe indurre erroneamente, cari eroi, a pensare. Così, infatti, mi indusse ma sbaglia.

Meno retorico di quanto credetti.

 

DiCaprio ha già vinto il nostro Oscar!

Ti fotto, coglione! Me ne strafotto! Fuck fuck fuck, piglialo nel culo e fai lo schiavo negro!

Ti fotto, coglione! Me ne strafotto! Fuck fuck fuck, piglialo nel culo e fai lo schiavo negro!

 

Tutte le ragioni della mia “Academy”, di scommessa alla SNAI, per le quali Leo DiCaprio deve vincere l’Oscar vs il pur grande, incomparabile McConaughey

Sale vertiginosamente la febbre degli Oscar che io, con meticolosità prodiga da birbante figliol (non) prodigo dei riti mondani in quel di Hollywood, seguirò d’imperterrita nottata su mio divano in banchettar cenante oltre la mezzanotte abbondante e di lì a inoltrarmene, sdraiato in “smoking” con pantofole inappuntabili dal marchio Champion, per l’uomo topo(s) a vigoria del suo tifare nell’ultrà inneggiante a Leonardo, Re del Mondo e del monte della collinetta di Los Angeles, ove Angelina Jolie vien montata da quel caprone montato di Pitt Brad, il bel giulivo di sue pasciute “olive” al motto di “Sono un bastardo inglorious e, da biondo ariano, nell’an(n)o fortunato t’inculo su muscolo spaccante la svastica di te, Angelina, gran mignottona concubina”.

Ma il mio (s)fregio sfrenato va a Leo “Belfort” Jordan, che mi salverà dalla mia “miserabilità” da mai redento e benedetto nel fiume Giordano, ove Cristo d’abluzione camminò sulle “acque” di Maddalena, come la scorsesiana tentazione alla Departed, fra il bene e il “mare” ficca la meretrice malvagia con grand guignol (s)fottente di volto carnale, scarnificato alla Willem Dafoe dannato!

Questa sarà la mia annata, la mia messa nell’a novanta mettervelo rovente d’immolato altar della “patta”.

Sì, perché ho scommesso anche il culo su Leo, cari fascisti, puntando infatti l’enorme, impressionante cifra di 5 Euro sulla sua vittoria nella categoria Miglior Attore.

Le sue quotazioni salgono quanto il mio ascendente “uccello” da The Aviator.

Sì, mio (I)caro, bruciali tutti dopo il nastro di partenza, anche se vieni… dato per sfavorito, rimonterai nel fotofinish quando McConaughey Matthew se lo piglierà “omosessualmente” in modo Dallas Buyers Club, dimagrendo altri 40 chili per la delusione “ardente” il suo fegato incazzato a morte e spappolante in diretta. Ah ah!

Tu, Leo, salirai le scale del Kodak Theatre, sculettando di gran classe, emanando bacini che fanno un baffo a tal vetusto, chiesastico San Valentino per piccioncini cazzoni degli amori frivoletti. Volteggerai nell’aver rigirato la frittata degli allibratori su tuo ciuffo smagliante da metteur en scène le loro urla bestemmianti.

Sì, sarai un pavone a ribaltare tutte le previsioni, alzando lo scettro da fantasma del palcoscenico e sbeffeggiando gli altri “rivali” con un tuo “discorso” di “ringraziamento”, sintetizzabile alle loro bili in tal concisa, da “circoncisione”, frase senza mezzi termini: “State ben seduti in poltroncina, coglioncini, osservate con qual morbidezza carezzo lo statuina alla faccia delle vostre faccine”.

Eppur non scherzo. Leo, prima dato a 20, ora “gravita” alla cifra 7, scavalcando il più “competitivo” concorrente Chiwetel Ejiofor, un negro che patirà altri 12 an(n)i di schiavismo atroce prima di poter nuovamente solo ambire a entrar in competizione.

Lì lo devi prendere e devi anche pulire il pavimento finché potrai specchiarti e riconoscere il tuo “Obama” fottuto al “detersivo”.

Via questo perfetto “sconosciuto”, pianga il suo colore viola e nessuno Spielberg lo consolerà con Amistad e risarcimenti da Schindler’s List, nessun Lincoln lo renderà “liberale”. A mio avviso, “costui” deve essere inculato in maniera pulp fiction come Ving Rhames.

Ah ah! Vai Leo, dai dai. E Christian Bale, il bellino, si spaccherà il fegatuccio più del suo banfianano cicciottello di American Hustle.

Sì, c’è il quarto (in)comodo in platea, quel rincoglionito di Bruce Dern. Tornasse a casa, e ascoltasse il vero Nebraska, quello di Bruce springsteen.

Eppur non scherzo.

Le probabilità di vittoria sono sempre più alte. Silenzio, stronzoni!

Ora, io so come ragiona l’Academy e non posso sbagliarmi. Anche dovessi sbagliare, perderò 5 Euro, “roba” che posso rubare al mezzo pusher di Piazza Verdi di Bologna, al ritmo di “Vu’ cumpra’, poveraccio? Tieni in mano lo straccio e soffia di eroina, quella che dai, vigliacco, sì, all’universitaria stoica, super troia davvero, che si rifornisce da te e poi studia Scienze Pedagogiche… tal cretina di malaffare sarà educata di vera coca alla Wolf of Wall Street”.

Dove cazzo vuole andare McConaughey? Mi par già troppo la sua “rinascita”. Fino a qualche an(n)o fa girava film come Tutti pazzi per l’oro. Rendiamocene conto. E voi dovreste “dorare” tal guitto d’avanspettacolo? No, per lui the show don’t must go on. Solo nel “didietro” con tanto di fellatio al suo pollo simil Killer Joe! Ecco la mia adorazione! Ah ah!

Avete tradito Leo in più di un’occasione e questa è quella giusta per risarcirlo del danno pazzesco, da sbattervi tutti in prima pagina del “New York Times”. Sbatti il giornalista succhiacazzi! Leccaculi siete!

Sì, roba scandalosa che volevate archiviare da J. Edgar.

Vai Leo, vinci e io vincerò 2250 Euro.

Sinceramente, m’importa solo la “bolletta”. Invece, George Clooney, al solito in prima fila con sorrisetto canaglia “in filigrana”, può afferrare la sua fidanzata d’ordinanza e insegnarle il monument man.

 

 

Drive with Ryan Gosling? No, con durezza alla Cage Nicola(s)

Drive

di Stefano Falotico

Quando capirete che il mondo è violento, vivremo tutti in santissima pace, ed è perciò che adoro Nicolas Cage se è cattivo, sbraita e ammazza di (ec)cessi vostri

Sì, adoro il mio “mostro” schierato in fiera e cutanea battaglia all’ardore che custodisco gelosamente fra spoglie (im)memori della vostra “colta”, dunque tonta (im)pudicizia. E smanio per imbruttirmi a clero della mia pelle levigata nel c(l)oro della mia anima da “deturpare” con meticolosa mestizia d’accrescere d’ora in minuti via via più focosi, quando la “adombro” in passeggiate del maneggio di tutta manetta della mia livida mano in macchina cerbiatta fra la vostra melma, abitacolo (s)frenante che sculetta nel traffico cittadino al motto d’un clacson irrequieto che spingo di sfottò inusitato per (r)allentare l’isteria barbosa del chiasso collettivo, per zittire le studentesse mosce da ringalluzzire a scoppietti del mio turbo scatenato in fragor tonante come un peto ozioso e amabile, sbuffante smog lento di carburar burro schizzato in gola a questi culi flaccidi e speranzosi d’una vita migliore, invero ambiziosa sol di soldi truffaldini per facilitarsi il cazzo nelle mutande.

Udite che musica l’accelerazione delle mie selezionate, inculanti parole così feralmente intonate e intersecate. Odiosi siete, da combatter a battente tamburo in mia s(a)etta senza risparmiare in idrocarburo di combustione immolata a inferenti ustioni senza disinfettanti e altri cazzi per la testa vari. Accogliere la “garza” del proprio corpo avvolto in un caldo giubbotto è un fazzoletto triste che vi porgo su miei vellutati pori e guanti sguainanti la mia cucitura di radervi, e tecnologizzarsi nel futurismo anomalo, sguainante l’onore orgoglioso di sé stesso dirimpetto a questi laidi e triviali sessi, sarà sempre una guida terremotante. Siete, oh sì, da macellare con la gentilezza che m’è congenita, cioè stirarvi se non aspettate il rosso e non rispettate le strisce pedonali. E dopo alzar il dito medio nel tergicristallo ridente sapida euforia d’aver fatto pulizia.

Con me, non si scherza. Man mano che la mia (r)esistenza avanza, avverto sempre il necessario (bi)sogno di punirli tutti, soprattutto i viscidi cattivi, di terrificante (in)cubo, incastrando i loro pezzetti di merda in giocoso poliedro della mia area da lor prima interdetta. Schiavizzandoli affinché obbediscano ai patetici lor pianti su mia carrozzeria di lucido amianto, su caffè gorgheggiante seral nitidezza del godibile fotterli fra decumane, incroci e vie maestre. Senza batter ciglio ma sbattendoli oltre.

Se non mi dai retta e scegli un’altra strada, troverai me alla “fermata”.

Ciao, tua sorella è già stata “tamponata”.

E finitela con quell’autistico di Ryan Gosling, recita col pilota automatico, ciucciatevi il Cage Nicola(s).

Quando s’incazza è della strada un fottuto pirata.

E se tu, scema, rompi le ruote, ti strangolo nel tuo urlar che sei una sgommante troia.

Torna alle gommine da masticare. Da me, solo boom!

E dentro di brum brum!

Cage

 
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