No tweets to display


True Detective – The Secret Fate of All Life

True Detective Harrelson

di Stefano Falotico

 

Come un cerchio, il male si riverbera, again and again, ancora senza sosta, interminabilmente abrasivo, corrosivo come un demone nella tua anima che ti tormenta.

I nostri due giungono nella palude più stagnante ove alloggia, “comodo”, il mostro Ledoux. L’hanno individuato ma la “dimora” fatiscente in cui abita è recintata da mine anti-intrusi. I nostri sono scafati, eludono il “sistema di sicurezza” con estrema cautela e puntuale aggirar ogni ostacolo. Marty, coperto da Rust, entra di soppiatto, a passi felpati, nella casa di Ledoux, Ledoux dopo un po’ arriva e Marty, come di “rito”, gli punta la pistola alle tempie, poi lo getta fuori ove ad aspettarlo c’è Rust, che a sua volta tiene in scacco un grasso suo braccio destro. Marty, nel frattempo, scende nello scantinato, sblocca un lucchetto e scopre l’abominevole, che intuiamo in fuori scena. Ritorna fuori e, in preda alla rabbia, spara un colpo secco alla nuca di Ledoux, facendogli esplodere il cranio. Il suo amico scappa, Rust prova a sparargli ma son le stesse trappole, che servivano a tener lontani gli “estranei” indesiderati, a scoppiargli addosso. Crepa così di lor stesso essersi “protetti”. Neanche un proiettile nel suo panzone, le mine l’hanno trivellato d’inganno ritortogli contro. Tenevano segregati dei bambini. Ritornano a casa coperti di gloria, Marty viene promosso di grado, Rust si accontenta degli elogi e della medaglia.

Marty, grazie anche al suo gesto, si riconcilia con la moglie Maggie, anzi è lei a vederlo sotto occhi diversi e accetta la conciliazione.

È come se in questo universo elaborassimo il tempo in avanti ma fuori dal nostro spazio-tempo, da quella che dovrebbe essere una prospettiva quadridimensionale, il tempo non esisterebbe, e da questo vantaggio potremmo raggiungerlo… vedremmo… il nostro spazio-tempo come se fosse piatto, come un’unica scultura di materia, in una sovrapposizione di tutti i posti che ha occupato, il nostro essere senziente che gira intorno alle nostre vite come i carri su un binario… ogni cosa fuori dalla nostra dimensione è l’eternità, l’eternità che ci guarda. Per noi è una sfera ma per loro è un cerchio.

Nell’eternità, dove non esiste un tempo, nulla può crescere o diventare qualcosa. Nulla cambia. Così la morte ha creato il tempo per far crescere tutto ciò che avrebbe ucciso. E tu rinasci. Ma nella stessa vita, in cui sei già vissuto… questa è la sorte segreta e terribile dell’intera vita. Sei intrappolato in quell’incubo in cui continui a svegliarti.

Ledoux non è il mostro?
E chi è davvero Rust Cohle?

O meglio cosa è successo nel 2002?

 

True Detective – Who Goes There

True Detective Who Goes there

di Stefano Falotico

Reginald Ledoux, indiziato numero uno. Il volto del mostro “assume” un nome? Sì, è già stato accusato di stupro a una dodicenne, non incarcerato per mancanza d’indizi, ma gli agenti federali l’hanno registrato, i suoi lineamenti sono archiviati nel promemoria che rispunta di suo viso dagli zigomi secchi, grosso di corporatura, un bestione tatuato… l’ex marito di Dora Lange, adesso in prigione, viene interrogato dai nostri, lo conosceva benissimo ma, negli ultimi tempi, aveva deciso di non frequentarlo più, perché ne provava paura. I suoi discorsi strani lo spaventavano, al solo ricordare le follie che gli sputava nelle orecchie, all’epoca della loro balorda frequentazione, il suo corpo s’intirizzisce e urla sconvolto, come volesse cancellare dalla sua “vista” un qualcosa che inevitabilmente, profondamente l’ha segnato. Le indagini intanto “affondano”… nel torbido, fra locali di spogliarelliste ammanicate a qualche testimone che potrebbe svelare alcune verità seminali per la risoluzione del caso.

Marty è ai ferri corti con sua moglie, l’amante l’ha ricattato e ha spifferato di come Marty la tradiva con lei. Di suo, Rust riprende a bere, si spacca le meningi nel tener ferme le ferite di “guerra” alla sua anima combattente e sempre confusa, o troppo vedente la realtà nuda, cruda, verissima. Come fitte allo stomaco che, sbudellandolo, gli fan eriger la mente a chiarire tutto, poi a scomporsi ancora, a raggrumare i pezzi andati a(l) male…

Matthew McConaughey Rust Cohle

Amicizia. Siamo amici, io Rust e tu Marty. Io ti aiuto e chiarisco con tua moglie, vedrai che si ammorbidirà dalla sua dura, intransigente posizione e tornerete assieme. Ma, per beccare Ledoux, mi servi proprio tu.
Dobbiamo infiltrarci in un covo di motociclisti e, con la scusa di una retata, farci dire dal capo della banda ove sta Ledoux.
Ce la possiamo fare?

Sì. Il filo della tensione.

True Detective Who Goes There band

 

True Detective – The Locked Room

True Detective Locked Room

di Stefano Falotico

Il mondo è come un velo… e la faccia che indossate non è vostra, così declama il preacher della chiesa, da poco “smantellata”, che si chiamava “Il Ministero della Rinascita”, seguita passion… almente da dei “dementi”, dei fedeli, gli “Amici di Cristo”, che Rust ha già filtrato secondo la sua ottica nichilista, da annusatore dell’idiozia abbindolabile che governa gli animi fragili e suggestionati di chi, in questo circo(lo) d’orrori “antropomorfo”, si lascia “corrompere” dalla religione perché appartiene a quel tipo facile di persone… quella di Rust non è semplice deduzione snobbante chi si dà, con tanta ingenua parsimonia, ai culti fanatici della devozione verso “nostro” Signore, è lo sguardo (s)oggettivo di uno che non crede a nulla, tantomeno appunto a questa categoria di “casi”… umani, dei deformi uniformati e creduloni inneggianti, come ipnotizzati da stolti e lobotomizzati, al “Credo” più sciocco, tanto ridicolo, dunque da lasciar agghiacciati in maschera tua, Rust, compassata e serissima, ché questi pazzi “normalissimi” han perduto il senno dalla lor nascita sbagliata, son quelli che sbadigliano dinanzi alla vita vera, che hanno bisogno appunto di credere a un Dio fatto a immagine e somiglianza delle loro limitatezze (s)confinate perché, altrimenti, dinanzi a Satana, che non vogliono vedere ma combattono nella trincea degli alibi e delle vigliaccherie recidive e testardissime, crollerebbero a pezzi, in bagni di sangue… distrutti dalla cieca, unica vi(t)a proprio reale, cioè che il mondo è osceno e the man is the cruelest animal. Una verità per loro inaccettabile, da proteggere nel rifugio delle “bugie” da confessare perché così si senton tranquilli, sanno che un dio li accudisce, sanno in realtà che sono tonti, sì, lo sanno benissimo, e che cambiare li costringerebbe a un mondo migliore. Sì, l’orrore di questi è il non guardarla per quello che è, nella sua nudità atterrente, guardandola… si potrebbe evolvere, invece no, preferiscono l’animismo del primitivo rimanere scimmie “credenti”, così Satana vincerà sempre, ed è terrificante perché loro lo (o)sann(an)o nel “mentirlo”, nel rinnegarsi… uomini, che si bevon tutto il (di)vino fatto carne ammorbidente di battesimi ipocriti, che digeriscono da bigotti l’ostia sapendo che (non) li salverà dal mucchio di ossa, da loro stessa “tracannata”, vivisezionata nel far sì che tutto venga sepolto sotto la coltre dell’omertà “sana”.

Questa gente… con una tendenza all’obesità, alla povertà (perché, se no, si sentirebbe s-porca in quanto “ricca”), alla passione per le favole (così, pensano di essere “puri” ed “elevati”).

Mettono i pochi soldi che hanno in una cesta che fa il giro… “vizioso”, è “chiaro” che gente così non farà nulla di “buono” nella vita.

Rust n’è certo, secondo lui, chi si aspetta una ricompensa divina, poiché illuso(si) di avere un comportamento decoroso, è soltanto un pezzo di merda.

Questa è gente che invero si nasconde e lo fa con (in)coscienza, questo è il primo crimine, il nullaosta a lasciar che Satana agisca indisturbato alla luce del Sole… il vilissimo, esecrabile dargli, così facendo, da ammutoliti e sordi, proprio manforte nel reggergli i giochetti impuniti. Loro pregano un dio creato a loro debolezze, schierato con la loro imbecillità da folli, essi idolatrano Satana. Sì, perché immolandosi al dio dei ciechi, issano in gloria proprio colui che potrà ammazzare, stuprare “beato”, tanto staranno sempre zitti, con gli occhi supplicanti il patetico autocommiserare le sciagure, l’uragano…, il “non si può far nulla se non pregare per le anime dei poveretti”… ché son, sonnolenti, loro stessi sull’altare del mai aprir bocca, del mai condannare, del perdonare ma non accusar sé stessi, del male loro stesso perpetrato proprio dietro i sorrisi di facciata.

Trasferimento della paura e del disgusto di sé in un recipiente autoritario… è la catarsi.

Rust di ciò n’è sicuro, ma Marty no, lo ascolta perplesso, turbato, e lapidariamente gli fa notare, scuotendolo un po’, che se fosse davvero così “assolutista” nel credere che l’esistenza sia insensata, allora non sarebbe così agitato. Secondo Marty, Rust è solo in preda al panico ma, come tutti…, non vuole darlo a vedere. Forse è il più predictable, il primo peccatore verso sé stesso.

Ora, chi ha dipinto il murales sul parete della chiesa? Il “parroco” risponde che son stati i “bambini” della congregazione… I bambini, sì…

L’arte muraria, grezza o sofisticata che sia, è una pratica istintiva che avevano le scimmie sapiens prima di (non) evolversi. In questo modo, “lanciavano” sulle mura delle caverne le loro paure inconsce, si scaricavano…, gettando sulla pietra il pozzo nero dei loro desideri e del sentore, umanissimo, di morte. Non è la mente a renderci uomini, ma la coscienza della morte. E la morte può venire anche da un tuo simile. Gli animali della stessa razza non si uccidono mai fra loro. Questa è la regola basica della loro sopravvivenza. Il leone mangia la gazzella, lo squalo il pesce piccolo. L’uomo ammazza invece l’altro (suo) uomo. Piccolo (det)taglio. Nel nuovo millennio, i bambini ancora dipingono, poi diverranno “uomini”.

Il predicatore…

La falsità ontologica nell’aspettarsi una luce alla fine del tunnel… ecco ciò che vende il predicatore. Come uno strizzacervelli. Il predicatore incoraggia la vostra capacità d’illusione, poi vi dice che è una fottuta virtù.

 

True Detective Harrelson McConaughey

 

True Detective Woody Harrelson

Rust, interrogato, le spara su far delirante. E “apre gli occhi” alla visione completa, eppure è sciupato in viso, coi capelli sfibrati, lunghi, color fieno, beve come una spugna, fuma come un turco, insomma non assomiglia per niente a un Buddha né a un pensatore in pace con sé stesso. No, (non) la racconta giusta?

No, qualcosa di letale, profondissimo, lo turba. Un dolore invisibile a macellargli l’anima(le). E purtroppo si nota a viso proprio aperto, è tanto trasparente che è un fantasma così evidente da farsi e far(ci) soffrire. L’incarnazione del parto malato. L’adattamento alla (non) vita.

Anche Rust ci deve convivere, come tutti dovrà “condividere”. E socializzare significa perdere la propria autenticità, il proprio credere alla propria morale. Forse, un investigatore in gamba è proprio questo, il primo naso lungo… perché, dietro un distintivo, (non) puoi fare tutto. E nessuno sa(p)rà se proprio chi dovrebbe garantire l’ordine “entropico” del mondo è il primo “disturbato”, il primo a (non) voler calmare il caos che da sempre regna sovrano.

Rust è sempre più confuso dinanzi al “processo” del suo interrogatorio, biascica, “strizzando” le lattine di birra ed è irrimediabilmente ferito, “infermo”. Eppur l’ascoltano in silenzio… religioso, non si pronunciano, la sua voce stentorea passa in rassegna il campionario delle difettose vittime del sistema, lui che controllava ogni scartoffia per depurarla dal male o in tal maniera debellarsene… egli stes(s)o.

Ognuno è convinto di essere speciale, di valere la sua unicità e invece quasi nessuno, tranne Rust, si accorge che in questa società siamo solo burattini di carne, che penzoliamo da un’emozione all’altra, tracimando la speranza, imperterrita, insistente e quindi logorante, di sforzarci di cambiare la nostra natura umana, per suo stesso innatismo destinata a far male e propagarlo, poi a “educarlo”, sfinirsi ancora e non finire più, era dopo era, cere dopo altre maschere, il cannibalismo alla base della catena alimentare del dura chi mangia con più “acutezza” e più fiato, ops, fiuto. Quello che ti spezza i polmoni e non ti fa prender sonno, ché non dormi sapendo che, là fuori, il lupo potrebbe far di nuovo da spietata mietitrice alle anime “buone”, alle innocenze che forse mai lo sono state, da quando “crebbero”, giocando alla guerra…, accettando il parto (il)legittimo del “dovere” essere “uomini”.

Una volta tagliati i fili, si cade… ed è notte.

O forse è il contrario della “rotazione”. Il Sole è finalmente sorto e tutti possono vedere il buio spettrale, tormentante, uccidente lentamente, che domina le fenditure del cuoio “pellaio” dell’uomo. Del suo esser carne e animale.

 

Parli del diavolo… e spunta Rust, uno che non è timido, forse neppure introverso, quando deve dire la sua ci sa fare eccome, ha i suoi modi ieratici, dritti per la propria strada “sbandata”, nervosa, secca, di poche parole, un detective “semifreddo”. Ché non lo scalfisci con qualche risatina goliardica. Dopo averlo conosciuto un po’, nemmeno riesci ad azzardare una smorfia amichevole. Se ne vuol stare da solo, con la “Croce”. Come se, a permearlo, fosse un fantasma… ancora lui, lo stesso che brami, cacci, ti fa dolere d’insonnia. Mai dondolante però Rust, nonostante le cattive… notti. E butti giù un altro sorso di birra fra una sigaretta stretta fra le labbra “aride” e un cogitabondo metterti a nudo, inevitabilmente. Straziante la coscienza ti ha illuminato tanto da renderti di car(bo)ne. Incenerito, divoratoti, slabbrato, appunto. Feroce asma polmonare che, nonostante il marcio, sospira laconicamente quasi soddisfatto… un comune mortale, come tutti, anche tu trasformato, incarnato e dunque svaporato, scomparso come il mondo ché non lo puoi fermare. L’alba sveglia i cittadini delle cittadine “pacate”, s’alza il mezzogiorno e poi il tramonto… dopo un’altra giornata rugginosa, di acredini, rancori (mai) assopiti e litigi coniugali a ripetersi eguali e monotoni, scandenti perenni la “perfezione” del cronometro piantato nel tuo cuore di “pietra”. Così, così è per tutti…

Rust sa con certezza che il mondo ha bisogno di uomini cattivi perché i cattivi tengono a bada gli altri cattivi.

 

E, dalle foto dei cadaveri maciullati, attraverso i loro occhi, percepisce che i morti, chi “abita” quelle iridi, forse ancora “pulsanti”, hanno visto all’ultimo momento, prima di essere massacrati, hanno assaggiato il peso “futile” della vita. Tutta la giostra di presunzioni e stupide voglie… sono soltanto un sogno della camera blindata… un’illusione della mente.

 

E, come in molti sogni, c’è sempre un mostro, alla fine…

And like a lot of dreams, there's a monster at the end of it

And like a lot of dreams, there’s a monster at the end of it

 

 

 

True Detective – Seeing Things

True Detective

di Stefano Falotico

Un episodio corroborato di senso qui davvero malsano. Le spruzzate del primo si riverberano nel secondo, che da subito prende una piega allucinata, come da titolo, che si riferisce agli effetti collaterali post-trauma di Rust. Apprendiamo che è stato quattro mesi in un ospedale psichiatrico e soffre di sinestesia. Al che, l’asfalto della sua lost highway gli si squama fra gli occhi già di loro ieratici, (sovra)impressi a un misticismo metafisico a caratterizzarlo maggiormente. Lui che par ripudi il sesso, o meglio lo schivi, legato a un antico codice guerriero della concezione dell’amore, perduto e mai più d’amare quindi? A differenza di Marty, poco “martire”, che se la spassa, per “salvare” il matrimonio, con un’amante quasi minorenne. E il nudo ti rapisce, la violenza, che sottende il crimine letalissimo da loro indagato, si fa carne di anime, fra un bordello piazzato in un altro bosco nero, ove una matrona, sciupata in viso, troneggia da strega delle “fate”, cioè le prostitute bambine e già svezzate. Le tracce portano a una chiesa abbandonata, forse sconsacrata da Satana. E un graffito “marchiato a pelle” di Dora Lange… rivela un pezzo in più o serve a far impazzire?

daddario 4 daddario 3 daddario 2

 

True Detective Rust daddario

 

True Detective – The Long Bright Dark

Cor(o)na

Cor(o)na

di Stefano Falotico

Livida come una cera che si squaglia, una serie che incalza nichilista sin dalla prima inquadratura nerissima, opacizzata in rosa solfeggiare allucinatorio su Woody Harrelson/Marty Hart, tipo normale, come tutti distrutto già nell’anima dall’aver indagato nel torbido più marcio, che gracchia di mandibola sorseggiante l’amarezza d’un caffè americano bollente rabbia. E ricorda il suo collega, nell’interrogatorio più abrasivo alla sua anima già contraffatta da un demonio latente interiore che gli ha rubato l’innocenza nel dio remoto dell’incancellabile carneficina a cui il suo lavoro, semmai all’inizio speranzoso di cambiar il mondo, assistette. Calmo, sì, certo, oramai divorato da quella calma acquisita per troppo orrore visto in iridi oramai squartate d’ogni illusione. Biascica la sua lenta confessione, a riferire imperturbabile, scandito in sopracciglia spelacchiate, chi era il suo compagno, Rust, Rust Cohle, tipo strano a dir poco, macilento, sempre nervoso, forse un predestinato al massacro, alle ossa rotte d’altrettanti occhi già corrosisi. Deturpati dai mostri là fuori, ché i mostri ci sono sempre, aspettano guardinghi e serafici per abbrancar la loro accerchiata, designata preda, per mangiarla viva con la stessa metodica pacatezza bastarda di chi li combatterà, il più delle volte perdendo il duello, perché Satana non ha regole, non ragiona con le armi dell’anima, è imprevedibile, spunta dal buio, ti raschia i polmoni lentamente, ti attira nella sua cadenzante trappola a danza soffusa e oscurissima di morte, poi voracemente ti strangola, architettando un omicidio coi fiocchi. Satana è un esattore, che aveva già scelto la pura Dora Lange per tumefarle il cranio e conficcarle abbiglianti corna da cervo, spaccandole il viso contro un arbusto arido, di sangue secco, d’escoriazioni sul corpo da rasoiate accoltellanti prima la sua dolce, bianchissima pelle, marchiandola del suo “taste” osceno, quindi, uccidendola di rituale satanico e nudo pasto, appunto, ad averne posseduto la non verginità diafana, bellissima, averla rapita con l’inganno estorcente il cuore suo giovane e battente. Un mostro, e i mostri purtroppo ci sono. Ripetiamolo, non scordiamolo. Sempre di più, i pazzi impazzano in America, fra stagni limacciosi ove riposano i lor cadaveri putrefatti, ch’ermergon a galla quando chi ha perpetrato l’aberrante, esecrabile, maciullante crimine crudele, a carne ora crudissima, dura e quasi intoccabile come un fantasma angelico deglutito in sua evanescenza svanita e ingurgitata nella bocca di Satana, quando chi ha compiuto il misfatto più “divino” e prodigo alla sua folle megalomania del credersi onnipotente, quando costui, innominato e chissà dov’è scappato, forse alloggia silente e solitario nella tua anima già fottuta, quando il mostro ridacchia e non puoi fargli nulla in ogni caso… anche se lo risolverai, a lui non frega nulla, altrimenti non avrebbe giocato, non si sarebbe divertito come un matto, non avrebbe neppur lanciato il “sasso”, divellendo la trasparenza della tua morale bella che frantumata. Bello mio, stai cacciando un fantasma a cui non importa di (non) essere visto o agguantato, anzi, ti sbava sopra l’identikit contorto per avvelenarti di schizzo fraudolento, da macellaio persino delle tue scartoffie, della tua stilografica e del tuo cervello giusto. Se lo prenderai, farai felice solo il suo delitto (im)perfetto. Stupendo apice della sua atrocità.

Dinanzi al mostro, a Satana, devi solo berci su… non puoi fare altro. Ogni altra tua mossa è farlo vincere, sia che lo vinci e sia che così, inevitabilmente, (non) vincerà lui. Questo lo capisci? Il mostro non la smetterà mai se lo affronti ad armi “pari”, è quello che vuole… sfiancarti, farti star male, non farti dormire, terrorizzarti proprio col delirio del suo fantasma.

Rust sostiene che la gente è solo un gran mucchio di spazzatura vagante, potrebbe vivere sulla fottuta Luna e “sapere” che il mondo, quello vero, quello di cui v’ho narrato, non esiste. Invece sa ma preferisce non vedere. Ecco perché esiste il true detective, che invece (non) c’è. Deve sopportare la verità devastante, sempre guardarla in faccia, riposarsi di palpebre stanche ma perennemente sveglie, conoscere a menadito che il lupo, il mostro, colpirà più forte e nascerà ancora, lo ammazzerai, lo stanerai, tu stesso lo trivellerai di colpi e dopo lo getterai nello stesso stagno delle sue vittime, appunto, ma il male, originatosi sin dall’inizio dell’era (dis)umana, aleggerà più carnivoro, anzi, rafforzato dall’averlo ucciso e dunque solo che ricreato in altre forme, rispu(n)terà. Ti distruggerà ma non si può tornare indietro. L’hai annusato, scovato, e soprattutto visto, viso a viso, occhi per sempre tuoi lesi, assassinati di fragore urlante la bestemmia della sua potente bestia! Nooo! Dio aiutami! Dio cos’hai fatto? Dio dove sei? Dio dammi la forza di essere un maiale come te per aver avuto il coraggio di generare tutto questo… orrore!

Ecco, forse, perché Rust non è cristiano eppur ha un crocifisso nella sua stanza spoglissima, come la sua nudità lancinante nell’animo oramai non credente più a un cazzo di niente… è il simbolo che incarna-“scanna” la sua meditazione. Cristo, sulla croce, lo rappresenta, gli ricorda che Satana esiste. Che sta affisso sopra di lui e lo tormenterà sempre di risposte senza logica anche quando risolverai il puzzle di Satana “in persona”. Forse l’altra faccia della medaglia fra bene e male, forse ciò che il nostro Rust (non) vuole vedere ma volerne essere protetto. Che scherzo della natura che è il mondo. Dio buttò i dadi e lasciò a Rust la coscienza della disfatta.

Infatti, a differenza di Satana, Rust non sa proprio divertirsi. Fa schifo alle feste e, a dirla secondo il suo collega, fa schifo anche al di fuori delle feste. Insomma, (non) c’è… proprio. Rust è l’incarnazione dell’aver perso Dio, è Nietzsche che s’è pure rotto le palle di vantarsi del suo pessimismo.

Rust ha un brutto sapore in bocca, sa di alluminio e cenere come se potesse sentire la psicosfera.

Rust, in questo, è uguale a Satana… ma manca un “dettaglio” a differenziarlo, a farlo schierare dall’altra parte… non è un maniaco.

Infatti, lavora alla Criminal Investigation Division… il (re)parto sempre aperto…

Rust è smart, è sveglio, riservato sì, ma (non) dorme mai. Ci sa fare.

Credi nei fantasmi?

Lone Star, stella solitaria

Lone Star, stella solitaria

 

Paul Verhoeven e Conan

I am Legend

I am Legend

 

The Legend of Conan, il comeback definitivo di Schwarzy e del grande Paul Verhoeven: lode immane al Cinema di Paul, in alto la brandente scimitarra del superomismo…

A sancire l’inizio di una nuova era ché, vituperati d’ammorbanti nani di questa società ludica da strapazzo, noi brindiamo con Odino e con gli dei del tuono, sorvolanti le stagioni algide del nostro fervente calore polare.
Io, Conan, qui a vessillifero guerriero, dormiente nel mio dolore melanconico, al risveglio spaccherò l’oceano, divellendolo a lunare calotta lunare dei crani da me fracassati. Nel frastuono di tal mesta, ah ah, vendetta alata, erigerete, miei fedeli della congrega di mia virente messa, una lapide con su inciso il nome della mia leggenda, ché perì travolta dai biechi cannibali non prima d’averli tutti sterminati. D’una razzia esasperante, a dissanguarmi per un ideale mastodontico, imponderabile, di furia mai ponderata, a perdonarli, neppur per un infinitesimo istante. Qui, dissotterrando l’ascia della mia anima, brilla essa in congiunzione col mio licantropo e ogni invasato sarà ferocemente invaso a mio tedesco teschio, corazzato in muscoli oliati, nell’amputarli dei lor van(es)i, pii, ah ah, respiri da mentecatti. Troneggio in mia solitudine sferrante calci all’aldilà perché sono io iddio di megalomania mia amata e sconfinata, rettore del mio castello da voi vili macerato d’unzioni peccaminose, da laidi porci sarete macellati a parimenti mia follia enorme. Perché ledeste la mia calma e a giudici insindacabili, coi processi meschini, prodighi all’asservimento falso del manicheismo più bigotto e abietto, bruciaste il mio amore per incendiarvi di risate che mi fan solo orrore e viva, suadente, repulsione squillante. Ancor più esplodendo d’ira e dunque immensamente rafforzarmi.
Io adoro scavalcar le scogliere della mia (in)finitezza ed arder vivo anche se morirò umiliato e da voi vinto, giammai, ah ah.
Blindatevi in casa e osannate il vostro microscopico Dio. Io, qui, vi dico che m’avete solo reso più grande, perché io sono figlio di Nietzsche e rompo culi e teste nell’esagerar di rinomanze mirabolanti.
Le odalische più puttane balleranno per me ma io le tratterò da streghe, sputando lor in faccia, dopo avervi giaciuto di crassa ferocità mai doma e dominante.
Io dormo nella mia dimora e, ora dopo aure mie roboanti, la vita mi si fa più altezzosa in quanto nobiliare cavaliere del ripudiar le vostre (in)esistenti esistenze già morte.

  1. Atto di forza (1990)
    La vita è mia e i miei ricordi non si toccano, evviva la (non) vita!
  2. Robocop (1987)
    Lo ammazzano ma lo rendono (ri)Creato.
  3. Basic Instinct (1992)
    E Paul creò Sharon Stone, divinizzandola di solo vedo-non vedo profetizzante!
  4. Starship Troopers. Fanteria dello spazio (1997)
    Umanità ribaltata, sana inversione del gusto. I mostri sono gli uomini, i vermi se li mangiano perché son schifosi palestrati (non) tanto “belli(ci)”.
    Uno stuolo di cavallette bibliche ad annunciare la morte per la rinascita del Pianeta.
  5. Black Book (2006)
    Nazismo è un’amante ambigua, sul filo pericolante della libertà.

 

 

The Bag Man, recensione

The Bag Man Da Costa

 

 

 

The Bag Man John cusack

 

Un languido motel rosseggia in una notte misteriosa…

Un cadavere dagli occhi inquietanti, il brusio di cicale aleggia di mortifera premonizione, il neo(n) di luci vive sulla pelle di una esorbitante femme fatale, rossastra abrasione a circuirti ingannevole come il diavolo, fascino blu ad ammantata pantera della cupidigia pura che fruscia fra ombre nella foschia di un piccolo intrigo dal letale abbaglio intonato alle vertiginose, chilometriche gambe d’una donna dai capelli cangianti. Non c’è trucco nel suo viso giovane, inviolabile, dalle stordenti labbra viola come un bacio frastornante, peccaminosa dea sporca a rubarti l’anima e il sonno, svelta rapitrice della tua semplice, complicata missione. Recarti in un luogo sperduto, in mezzo a fangose paludi, ove stazionano reminiscenti gli incubi di storie macabre dal “rossetto” sbavato nello squamarti d’ansia color suspense. Che monta lenta, terrorizza di eventi strambi, si permea lampeggiante in un’atmosfera voodoo da limitrofa New Orleans, la città esot(er)ica per antonomasia, il co(r)vo dei gaglioffi neri con troppo sudore da tori, di freak nani provenienti dall’Est delle regioni sanguigne, veloci di omicidio e grilletto… facile come una prostituta dalle origini indistricabili… le sue cosce t’aggrovigliano nel desiderarla sin dal primo fulgido attimo dell’averla incrociata, un gioco sottile, annusante, assatanante di sguardi… e pensi di svignartela e “far(te)la” franca, nel silenzio, tintinnante proibiti sospiri, fra il buio asmatico d’una “ronzante” foresta da cacciatore o vittima? Il miraggio di un sogno… E da lontano Dragna ti guarda, il suo carisma serafico da monster dai capelli cotonati ti strazia di minaccia. Dragna è il De Niro che non ti aspetteresti, calmo, elegante, in giacca e cravatta, montatura di occhiali su iridi da gattone vecchiotto, grinzoso e scandente battute algide d’inappuntabile aplomb pronto a deflagrare in violenti colpi secchi scaglianti il suo padrone demoniaco a comandar il gioco, a manovrarti come un burattino, un demiurgo mellifluo e blandente che dall’aereo tranquillamente… scende nel (tuo) fango. E la notte si tinge d’altra stranezza, di buffa eccentricità iscritta ai tuoi lineamenti nervosi, perennemente “accerchiati”, respiranti la paura più densa di voglia di fuga e sempre capricciosi per Rebecca Da Costa, esordiente gran figa infinita. D’altronde, si chiama Rivka… senti come tira… la gattina.

Questo è un ignobile filmetto, un passatempo ammorbante, un pasticciaccio soporifero e senza mordente, privo di grinta se non ad abbagliarti, per pochissimo, con picchi della svettante regina della scena, appunto, Rebecca, stratosferica presenza imbellettante, sgambata, dal seno vorace stretto in un corpetto rosso da far invidia e gola.

 

Sba(n)da(n)ti dialoghi, noiosi sin all’osso, quasi quanto le costole sempre di Rebecca, tendente però all’anoressia, bolsi come un Cusack bollito. Un film che si pavoneggia del nulla, perfettamente allineato a un De Niro (non) protagonista nell’apparire-sparire-vanesio sparante… non solo cazzate da fanatico di “Full House”. Ba(n)gman. Ma non centra nessun bersaglio, insegue mille traiettorie, sta per imb(r)occarne una e subito perde la “ruota”… del motore, s’ingolfa, s’inceppa, fa acqua dappertutto, tutto è prevedibile sin all’inverosimile di una storia assurda ché chi l’ha scritta è un Grovic “sconosciuto” in età già pensionabile, fuori tempo massimo quindi, al posto sbagliato come il suo ridicolo, patetico cameo nel prefinale, altra botta di grottesco pazzesco, incredibile, di una incomprensibilità da farti rabbrividire per l’oscena bruttezza quanto l’esagerazione di un plot che fa proprio plof. Fa schifo. Un film tremendo come questo cazzuto Bob imparruccato, stronzone, pacchiano, ché perché sta qui come in tanti recenti altri “suoi” film senza capo né coda… te lo domandi sin dalla primissima sua occhiata nell’incipit, buttato lì per far due soldi on straight to video. Un De Niro Cyphre che demanda il film stesso di demand. Che cita Hermann Hesse per quale ragione? Perché Grovic ha letto tutto di tal filosofo pensatore e ora, producendosi questa roba, vuol far sfoggio di citazioni appunto senza diegetica alcuna, ficcate tanto per riscaldar la minestra riscaldata già di suo e farci a fette, arrosto di mandarlo a fanculo o per farci arrossire d’incredulità dinanzi a tale scapestrata burla ch’è il film stesso?

 

Cosa c’è nella borsa? La donna che visse due volte? Che razza di guazzabuglio è mai questo? Poi, quando mai un flashback, per spiegarci che quel che abbiamo visto, non è altro che una registrazione, proveniente chissà da dove, custodita da un avvocato “hitchcockiano”, appunto “in veste” di regista vanitoso e figlio di puttana del non saper che sta combinando orridamente, quando mai diventa un “filmino” nel filmare il filmaccio con telefonato finale che più banale e scontato non si poteva?

Ecco, dinanzi a tale obbrobrio, a tale lungometraggio “tanto per campare” qualche noleggio e me, che l’ho visto in streaming, rimango allucinato, perplesso. Non so ancora se ho sognato o è un capolavoro.

Sì, perché quando non c’è ritegno alcuno per lo spettatore e per la sua paziente intelligenza, quando si osa di tanto fregargli circa due ore della sua vita, in modo così furbo, studiato e davvero spiazzante, be’, cazzo, significa che un valore, anche alto, quest’oper(ett)a ce l’ha.

Gli assegno 4 stellette piene anche se dovrei seppellirlo sotto zero.

Ma, ripensandoci, invece credo fermamente che questo film potrebbe assurgere a piccolo cult immediato. Le ragioni son presto dette. Innanzitutto, non è mainstream, anzi tutt’altro. Naviga fra paludi stagnanti, quasi imprigionato marmoreamente e graffiante, sleeper a non scordartelo, in una desueta ambientazione fosca e viscerale, asincrona rispetto al Cinema contemporaneo frenetico e non inducente al fermarsi e, anticamente, memore dei vari fuori orario e di Velluto blu, si prende pause lynchianamente parossistiche, quasi ectoplasmatiche perché vive del fantasma, ricordato nella locandina originale, della scrittrice da cui s’è originata l’idea filmica, The Cat: A Tale of Feminine Redemption di Marie-Louise von Franz.

Allora, il mefistofelico De Niro è qui chiamato in causa dall’uscire da Angel Heart, da rivelatore beffardo su celeberrima risatina sferzante, da Kevin Spacey di Seven…, da monologhista saccente del nichilismo sfrenato. Abbagliandoci negli ultimi venti minuti con tanto di omaggio ai quadri del padre, rimembrato nella già citata sequenza “sbagliata”, fuori tono e tonalità dell’8 mm a capsula del significante del film.

Un film che, scavando(ci) torbidamente, non solo di ambientazione magica, si nutre della nostra anima e l’impossessa minuto dopo ore dalla visione, sfregando le nostre vene a inturgidirle di un aromatico senso cinematografico che da tempo non percepivo. Che m’ha raschiato, m’ha lasciato tutt’ora singhiozzante, annaspando a carpirne il senso. Che va oltre l’apparenza del filmetto.

Particolarità importante, iconica: John Cusack, dopo Identity di Mangold e lo strepitosoThe Ice Harvest del nostro grande Harold Ramis già rimpianto, ancora una volta si trova a battagliare col suo destino “incastrato” nelle stanze comunicanti d’uno squallido, americanissimo motel…

 

Firmato Stefano Falotico

The Bag Man De Niro

 

The Godfather: Part II, recensione

Padrino 2

di Stefano Falotico

À la recherche du temps perdu

 
Ebbene, il più grande “sequel” della Storia.

Francis Ford Coppola e qualcosa di vertiginoso, da straziarti le “viscere” delle iridi, ustionarle con la “nottambula”, allucinante, cupa fotografia satura di Gordon Willis, virante al crepuscolo d’ogni epoca estaticamente divorata.

Qui, il maestro Francis realizza il capolavoro più sperimentale della sua folle megalomania immensa. Fa del suo già immane Padrino un “alibi” per attorcigliare il tempo nelle sue traspiranti, ignote, buie e luminescenti spirali, per avvolgerci d’ipnotica rinomanza ammaliante a ogni fotogramma lapidario, che cela a sua volta, come scatole cinesi, liquidi misteri onirici a (sovra)impressione dell’imperscrutabile uman(istic)o nostro.
Compie un’operazione sconvolgente che, “datata” 1974, esattamente trent’anni fa, fa gridarci, ancor più sempiterni d’infinita ammirazione, al miracoloso assoluto, preveggente, perché questo non è solo un film capitale, un monumento della Settima Arte, è l’innovazione del concetto stesso di Cinema, cioè una dilatazione spazio-temporale, alle origini e oltre, della cabala… Jung che incontra Mario Puzo. Un prodigio stordente è questo The Godfather: Part II.

La Paramount, dopo gli Oscar e il grande successo del primo, infatti, propone a Coppola il seguito. Francis è molto titubante. Certo, come tutti, sa che il seguito potrebbe fruttargli molti soldi, essere la definitiva consacrazione per imporsi non solo come cineasta ma proprio assurgere egli stesso a tycoon di una nuova avanguardistica era hollywoodiana. Dopo molte resistenze, notti sofferte, riflessioni sfinenti, accetta… e adatta la proposta lucrosa a volontà superomistica.

Inutile spendervi troppe parole, ce ne “intrappoleremmo” di pleonastico superfluo. D’inutile decantare ciò che è, per sua stessa natura orgasmica del piacere della visione purissima, una strepitosa vetta del rivoluzionare le coordinate filmiche. Perché Coppola non si limita alla trama, usa quasi a pretesto il “materiale” per girare ancora, e poi verranno propaggini variabili, la sua Ricerca…

Ecco allora che Brando trasmuta in De Niro, giovanissimo, magro, pallido e macilento, Corleone Vito ereditato a sua volta nel “vampiro” Pacino, sovrapposizione di volti, di stili recitativi, diluiti in analessi combaciante, tortuosa, cambiante forma quasi del già anticipato morphing. Visi scolpiti di primi piani abbacinanti, DNA nel sacro sangue dell’essere e non being icona.
Un viaggio profondissimo, sepolcrale, evolutivo nella memoria, a radice della mafia, a chirurgia venosa dell’ondoso flusso mesmerico conficcato a nascita stessa dell’America, a vituperio dell’orrore… ancora Apocalypse torna, s’evoca in ancor prima del compiersi, del mutare di nuovo. Un Cinema (ri)nato. Dai mille specchi camaleontici, fratturanti e a ricoagulare, pezzi del delirio, inafferrabili, manifesto labirintico e (ri)tornante, che dilania, che ci strangola di bellezza (im)mortale.

Divinatoria essenza, elevazione dell’evoluzione magmatica del Tempo, captato, scalfito, lucente e nero, inghiottente a rapirci da rapace predatore nel dolore e nello splendore incantatorio… del cigno a scultura eterea dell’immensità. Quella insondabile, da dilaniarti gli occhi in concupiscenza di te e noi stessi messi a fuoco.
Adamantino.

 
credit