MILLENNIUM – Uomini che odiano le donne, recensione
Ebbene, ivi sganciato da vincoli editoriali limitanti, cari fratelli della congrega appartenenti agli uomini disossati da tale vita spolpante le nostre pie anime prodigantesi per la beltà totale in un mondo sempre più carnale, sessualmente aberrante da catalogo Instagram di Postalmarket e annessa esposizione fiera, vanagloriosa di fiere da Manzotin, ovvero di uomini e donne prosciutti, no, prostituitisi al mercimonio globale, svilendosi alla strega, no, alla stregua di prodotti commerciali da mercerie, no, macellerie online, in attesa febbricitante di assistere al nuovo opus di David Fincher, cioè The Killer, recensirò il film del titolo di questa recensione, coming soon, ovverosia prossimamente, disaminato, forse vivisezionato in modo sia goliardico che poetico. Inoltre, cari smemorati e poco di dio timorati, sebbene io sia convinto ateo irredimibile oramai in modo irreversibile, posso però intellettualmente asserire, forse soltanto pontificare moralisticamente con tanto di sovrabbondante retorica a tamburo battente, che vidi lo svedese The Girl with the Dragon Tattoo nel 2009, sì, or mi riferisco all’adattamento del primo capitolo letterario ad opera del compianto (da chi?) Stieg Larsson per registica mano di Niels Arden Oplev con Noomi Rapace, scusate, dicevo, perdonate se sono massimalista come il parimenti deceduto, forse più geniale, David Foster Wallace, riprend(iam)o il discorso… quando la mia coetanea Noomi Rapace, invero leggerissimamente più giovane di me di qualche mese, non suscitava in me alcun turbamento poiché fui considerato asociale, sì, poco socievole, anzi, “socialmente pericoloso” come Lisbeth Salander, eh eh, in quanto poco consono a una società di “adulti” che canta Sara di Pino Daniele a tutto volume nella notte di San Silvestro ma è affetta da una malinconia, no, mascolinità più tossica di un liceale italiano che, ad Amsterdam, durante le vacanze, natalizie e/o estive, pratica turismo sessuale, tifando per la migliore Coca-Cola à la Vasco Rossi e per la più cazzuta “eroina”, e all’unisono “sniffa”, forse snobba, probabilmente, perfino ubriaco fradicio, intona barcollante La mia signorina di Neffa. Dicevo, (non) mi sono fatto… una alla Rapace… pur confessandovi che adoro le donne tatuate come Karma (Palmer) Rx & Katrina Jade, al contempo disdegnando i finti, non molto fini, machi che reputano Natalie Portman di Léon una bambina ma se la farebbero… nelle mutande dinanzi ad Anne Parillaud di Nikita, sparandosi poi il cosiddetto trip, sì, viaggio nella capitale suddetta dell’Olanda eppur non conoscendo Autopsia di un sogno. Ah ah. Ora, se andate da un uomo medio italiano e gli chiedete qual è invece la capitale della Svezia, vi risponderà Helsinki che è della Finlandia, quindi non giustamente Stoccolma. Comunque, esiste sempre l’eccezione che conferma la regola. Se agli uomini medi come me piacciono i tatuaggi sui corpi femminili, a Vittorio Sgarbi piace da morire la Venere di Botticelli ma, tanti anni fa, Elenoire Casalegno lo lasciò perché Vittorio la offese, dandole, come sua consuetissima abitudine, la patente di “troia” dopo che lei si tatuò una caviglia. Vittorio, veramente un esteta della venustà, anche del suo coglione sto(r)ico, forse solo quello di Destra? Vittorio, un uomo che celebra i grandi pittori dei santi e sa castrarsi al fine di non usare, per molto tempo, il suo “pennello”. Lo stesso Sgarbi che, a Porta a Porta, insultò Gabriel Garko, definendolo una bellezza per gay prim’ancora che Garko facesse coming out sebbene Eva Grimaldi e Manuela Arcuri non avessero mai sospettato sui gusti sessuali dell’interprete d’un celeberrimo film di Tinto Brass. Ma che c’entra?
Dicevo… che mi crediate o meno, andai a vedere la pellicola eccitante (mica tanto) con Garko, no, quella dapprima succitata con la Rapace assieme a dei felsinei tizi eterosessuali che sognavano di girare un porno alla Marc Dorcel, malgrado, per dirla in bolognese, non funzionasse molto il lor ucc… ll’ perché assumevano droghe? No, drugs. È la stessa cosa? No, intendo gli psicofarmaci… In tal caso, gli psichiatri ebbero ragione a reputarli pazzi. Erano e sono dei casi umani senza speranza. Nel caso, invece, del sottoscritto, molte persone credettero che io fossi misogino, sì, che odiassi il gentil sesso, così che costoro, dei malfattori, vollero troppo ingentilirmi. Ah ah, avete capito la freddura? Sì, credo che questi qua, in vita loro, siano stati fortunati, a differenza dei poveri, appena dettivi, poveri cristi sfortunati… Se avessero incontrato uno psichiatra, anche della mutua, sarebbero stati ritenuti matti? No, solamente Bruno di Sacha Baron Cohen, eh eh.
Ora, facciamo i seri. Perché prima non lo fumo, no, fummo, se volessi usare il plurale maiestatico? Dunque, non fate i furbi, come si suol dire, della “min… hia”.
Ecco, il film svedese sopra citato non mi piacque molto e non vidi gli altri due. Fino a ieri, invece, non avevo visto per intero questo film di Fincher. Il quale, ai tempi della sua uscita, dichiarò che la sua trilogia sarebbe stata, non solo migliore di quella svedese, bensì fra le più belle della storia del Cinema. A tutt’oggi, non c’è nessuna trilogia, come ben sap(r)ete, neppure il sequel. Fincher fu tra gli inventori della serie tv Netflix, anch’essa interrottasi, Mindhunter, ça va sans dire. Che, se per esigenze logistiche e di sintesi dovessi(mo) riassumervela in pochissime righe, potrei e potremmo delinearla da profiler, no, entro questa seguente e assai concisa sinossi esigua: l’FBI, per catturare i maniaci a piede libero, studia le menti dei maniaci in carcere e/o ospedali psichiatrici.
Aggiungo io, spiritosamente, altresì comprendendo che Fincher stesso ha una mente più contorta di quella di Charles Manson.
A parte gli scherzi e le esagerazioni, in Italia tradussero il libro e i capostipiti di tale trilogia, però non fincheriana, eh eh, con tale (sotto)titolo… Uomini che odiano le donne. Ovviamente. In quanto, mi scoccia ripetermi, l’italiano medio, in effetti, odia le donne ma passa la maggior parte del tempo libero a desiderare perfino quelle degli altri. Se a uno di questi gli si dice la verità, vale a dire che è un puttaniere, no, soltanto un guardone, lui ti dà del maniaco, urlandoti “vi(ri)lmente” in faccia che lui è un credente della Sacra Bibbia. Anche del Nono Comandamento? Ah ah. È lo stesso che asserisce, orgogliosamente, di adorare i film sui maniaci perché lo eccitano a dismisura e stimolano mentalmente ma, forse, pensa che Zodiac sia un film di merda perché alla fine il cattivo non viene inculato e fottuto.
Morale della fav(ol)a: in effetti, c’è molta coerenza negli italiani, non c’è che dire. Se, nel Belpaese, per modo di dire, ti piace qualche canzone di Elton John, se va fatta bene, non ti prendi del “frocio” ma sicuramente la patente di femminuccia. Se invece sei disposto a pagare 500 Euro per andare a vedere, insieme alla tua compagna molto fedele, Chris Martin dei Coldplay perché la tua ragazza si bagna mentre lui, cioè Cristo, no, Chris, canta, sei un uomo vero e che della vita hai capito tutto. Potresti anche aver capito molto, suvvia, soprattutto che sputtanasti 1000 Euro, essendo andato, per l’appunto, al concerto con la tua topa, no, tipa. In particolar modo, dopo il concerto, lei, ancora sovreccitata, financo impasticcata, ti sbranò a letto e tu ne venisti piacevolmente divorato. Il mattino seguente, però, capisti che lei scopò, col pensiero, Chris Martin.
Ma ora devi portare i figli a scuola e non hai tempo per entrare in paranoia a mo’ di Tom Cruise di Eyes Wide Shut. Anche perché, dopo averli accompagnati, al lavoro, fra una pausa e l’altra, guardi su Instagram le ex di Chris Martin. Sei “in vena”, cosicché compri i “prodotti” di Gwyneth Paltrow da regalare a tua moglie per alimentare la serata hot. Infatti, i figli sono, questa sera, dalla nonna. La quale, stanchissima, si addormenta e non li porta a letto. Alla tv, ripassa Halloween di Carpenter. I figli crescono troppo in fretta come la Salander. A una certa età, i genitori li porteranno dal dr. Loomis, no, da qualche psicologo perché non credono ai “valori”, sono stati scoperti a fumare erba e, anziché ascoltare Elton John, no, solo canzoni d’amore buoniste delle più dolciastre, mettono su la musica dei Nine Inch Nails. Adesso, Trent Reznor, però, non è figo ma è “sol” il compositore preferito di Fincher, e la vostra la figlia femmina gli preferisce il contemporaneo Damiano David, mentre quello vostro maschio va matto per Victoria De Angelis. Tutto ok, fin qui. Il problema è che, il frontman e la chitarrista dei Måneskin piacciono rispettivamente pur a questi genitori, sì, alla madre e al padre di tali figli che non amano più la buona musica di una volta, il vero rock alla Led Zeppelin e il metal tosto alla Bauhaus e Joy Division, c… o! Allora, tutti insieme appassionatamente, si sparano… un altro concerto dei Coldplay. Semmai, al padre piacciono, adesso, Whitney Houston e Aretha Franklin. All’epoca, per non sfigurare coi suoi amichetti razzisti, sosteneva che gli facevano schifo. Ma sia lui che i suoi amici sbrodolavano per Alicia Keys.
Secondo la telegrafica trama riportataci da IMDb: Il giornalista Mikael Blomkvist è assistito dalla giovane hacker Lisbeth Salander nella sua ricerca di una donna che è scomparsa da quarant’anni.
Vietato ai minori di quattordici anni per via di alcune scene violente e scabrose, adattato ed è un televisivo sceneggiato, no, sceneggiato per la trasposizione cinematografica dal grande Steven Zaillian (The Irishman, regista di The Night Of, etc. etc.), assai stereotipato però in molti punti nella caratterizzazione dei personaggi, specialmente secondari (vedasi, per esempio, Nils Bjurman, alias il tutor(e) assistente sociale marpione e porcone incarnato dall’attore Yorick van Wageningen, peraltro molto in carne), nella prima mezz’ora assomiglia a Cena con delitto – Knives Out, ah ah. Pardon, naturalmente il film appena menzionatovi di Rian Johnson è venuto dopo. Johnson, autore anche dello script, fu candidato all’Oscar per la miglior sceneggiatura originale. Originale? Praticamente copiata e mutuata da Fincher/Zaillian. Poiché Benoit Blanc/Daniel Craig e Harlan Trombley/Christopher Plummer sono ricalcati sulla falsa riga di Mikael Blomkvist ed Henrik Vanger. Inoltre, ad essere sinceri di mente investigativa e meta-cinematografica, dopo lo “scandalo” Kevin Spacey, Ridley Scott, per Tutti i soldi del mondo, chiamò Plummer forse dopo aver visto Millennium. Con le importanti e dovute differenze, infatti, Vanger e J. Paul Getty sono molto simili…
Rooney Mara/Salander scopre che Blomkvist pratica il cunnilinguo ad Erika Berger/Robin Wright e poi viene costretta dall’eccitato, no, succitato Bjurman ad effettuargli una fellatio.
La fotografia di Jeff Cronenweth è magnifica e impeccabile, il film, onestamente, meno. È un buon film ma non eccezionale, forse troppo lungo. Infatti, a mio avviso, due ore e trentotto minuti è un minutaggio eccessivo per un thriller così costruito, sebbene quello svedese durasse pressappoco uguale.
Lo svedese ha inoltre una media recensoria, su metacritic.com, un pelino, come si suol dire, superiore ma non troppo. E, nel suo essere più autentico, meno artefatto ed elegante, è forse addirittura migliore di questo di Fincher. Tale film di Fincher ottenne, va però sinceramente ammesso, ottime critiche ma inferiori, per l’appunto, al film con la Rapace. E, sebbene la Mara sia brava, la Rapace funzionava di più.
È per questo che Fincher decise di lasciar perdere con gli altri due, originariamente concepiti, seguiti? Mi seguite?
Nel cast, Julian Sands. Come sappiamo, trovato morto recentissimamente dopo essere scomparso a lungo. Qui è sconvolto per colpa della tragedia avvenuta.
Invece, nella parte di Martin Vanger, Stellan Skarsgård. Per finire, Joely Richardson è Harriet o Anita Vanger? Eh eh. Secondo me è bona.
In conclusione: moralistico e terribile nella scena del tatuaggio I am a rapist pig.
di Stefano Falotico
ZODIAC, recensione
Ebbene, ancora libero ivi da costrittivi vincoli editoriali, in attesa di assistere al nuovo opus di David Fincher, ovverosia The Killer, che debutterà in laguna, al Festival di Venezia a venire, compiendo veloce promemoria, conti celeri alla mano, credo di aver visto tutte le opere di Fincher. Compresa la sua creazione Mindhunter, serie tv di sopraffino stile, ahinoi, interrottasi, pare in forma definitiva alla seconda stagione, in cui rifulse la beltà magnetica della stupenda Anna Torv. Serie ideata dal regista di Fight Club, quest’ultimo, probabilmente, il suo film più controverso e probabilmente il “peggiore” assieme a Panic Room, diretta da lui stesso in alcuni episodi chiave. Fincher, il quale ancora spacca la Critica per The Game, un regista ostracizzato, no, molto amato, oscarizzato per il suo film all’apparenza meno fincheriano, vale a dire The Social Network, uno con la testa “matta” che adora le storie pazzesche soventemente, per l’appunto, incentrate su torbide e contorte, dedaliche indagini in forma di detection nerissima e spettrale, inerenti la ricerca e relativa scoperta di uomini lombrosiani o soltanto ombrosi, acquattati al buio, lupi solitari che par languiscano nel silenzio mortifero e, all’improvviso, estraggono dal cilindro, semmai, un romanzo pindarico, financo esoterico, bislacco, sia ironico e goliardico che citazionistico, autistico, no, artistico e figlio d’un uomo lucido, altresì allucinato, forse solamente à la Falotico più pregiato, eh eh: https://www.ibs.it/commissario-falo-vol-2-libro-stefano-falotico/e/9791221487848
Io son uno che non effettua promozione occulta? Può darsi oppure evidentemente, stando ai fatti probatori, in senso metaforico, del link sopra immessovi, nulla occulta pur dandosi, talvolta, al nullismo e al feroce, cinico, probabilmente sol romantico nichilismo più sanamente cristallino. Ecco, a vedervi chiaro, non terminai mai la visione di Millennium – Uomini che odiano le donne. Ma provvederò quanto prima. Chissà mai, inoltre, se Fincher completerà tal trilogia finita appena iniziata, giammai finita, e dunque non tale. Ma torniamo a noi, ritorniamo in noi, non smarriamoci nella fosca notte dei miei deliri recensori e pubblicitari, eh eh. Potrei essere, in fondo, lo Stieg Larsson italiano e, un domani, qualche regista, forse me stesso, trasporrà in saga per il grande schermo il “franchise” letterario del commissario Falò. Infatti, dopo i primi due capitoli, attualmente per l’appunto disponibili alla vendita sulle maggiori catene librarie online, prossimamente, non tradendo il detto non c’è due senza tre, vi sarà un’altra avventura imperdibile di proporzioni titaniche, ciclopiche o tragicomiche. Se la trasposizione dovesse accadere, la protagonista non sarà Noomi Rapace, neppure Rooney Mara. Al massimo, le due appena menzionate ex signorinelle adesso signore a tutti gli effetti e inevitabile, reciproco invecchiamento, potranno apparire in ruoli secondari se accetteranno di prenderne parte, eh eh. In quanto, il commissario verte su qualcosa di molto autoreferenziale, probabilmente neanche troppo. Michael Fassbender, dopo il flop immenso ma immeritato di Snowman, tratto dall’omonima novella di Jo Nesbø, oltre a essere in The Killer, se il sottoscritto non se la sentisse d’incarnare sé stesso, potrebbe rimpiazzarmi. Se trovassi i soldi, lo pagherei a peso d’oro e, nella clausola contrattuale concernente il suo accordo, con tanto di firma in calce, apporrò un “bonus” riguardante me, ovvero il seguente:
«Lì (data ovviamente da stabilire), il sig. Fassbender s’impegna con tale atto firmato a interpretare il film Il commissario Falò per la cifra milionaria pattuita. Se il film dovesse superare i 100 milioni di dollari d’incasso a livello globale, Fassbender promette di consegnare sua moglie, alias Alicia Vikander, al signor Falotico per una notte di sesso selvaggio. Di contraltare, il Falotico, non essendo un maniaco come Zodiac, qui dichiara fedelmente a Fassbender che tratterà benissimo la sua compagna anche se non può giurargli che, dopo la notte avuta con lui, Alicia non voglia chiedere a Fassbender il divorzio. Il sig. Fassbender, dunque, spera naturalmente che il film vada bene ma non troppo, altrimenti, se non volesse divorziare, Alicia potrebbe “confiscargli” la casa a Beverly Hills, intestata peraltro a lei, quindi sostanzialmente sol prenderlo a pedate affinché lui ne smammi, casa per di più in cui Michael e lei convivono or felicemente, e intestarla al suo nuovo compagno.
Se il sig. Fassbender dovesse tradire gli accordi ivi presi e tale serio impegno, pagherà la penale e non vi sarà motivo oltremodo d’indagare a mo’ dei “commissari” giornalistici di Zodiac. Infatti, in caso di defecazione, no, defezione, al sig. Fassbender penderà il potente gravame d’un durissimo capo d’imputazione».
A parte gli scherzi, credo che Fassbender e la Vikander (non) stiano assieme, no, non so se hanno una casa in quel di Los Angeles ma, a distanza di molti anni da quando lo vidi per la prima volta in dvd su una specie di tablet, cioè quando fui “internato” in “manicomio”, poche ore fa, ora ho sonno, no, poche or or sono (piaciuto il gioco di parole?) rividi la pellicola in questione e presa in esame.
Zodiac è del 2007, io del ‘79 e tale omicida seriale dello Zodiaco non si sa bene, a tutt’oggi, quando nacque. Se fosse, così come quasi certamente fu, Arthur Leigh Allen (incarnato da John Carroll Lynch), l’anno di nascita lo sapremmo? Controllate su Wikipedia, anche in merito alla fin troppo particolareggiata però, tutto sommato, “indiziaria” trama inseritavi. Poiché, per chi non lo sapesse, con l’immediato mio spoiler, immantinente saprete che lo Zodiac(o) non fu mai catturato. Sebbene forse fu individuato e perfettamente identificato, atrocemente sospettato, giammai incriminato, processato, arrestato e alla pena capitale condannato. In California, informatevene, c’è la pena di morte? Tutto inizia infatti, macabramente, a Vallejo, durante la triste serata agghiacciante del 4 luglio del 1969, nel dì notturno della festa del giorno dell’Indipendenza quando una giovanissima coppietta (lei è spostata, no, sposata, ma tradisce il marito con un “bimbo”, è pedofila?) decide di non sostare a un drive–in ma, per sbaciucchiarsi, limonare, eroicamente ed eroticamente, sinceramente trombare fottutamente, si apparta in una zona lontana, per modo di dire, da sguardi indiscreti di possibili guardoni frustrati. Viene vilmente e tragicamente aggredita da un uomo che noi spettatori non vediamo in viso. Lo stesso uomo che, sempre in California, nell’apparentemente tranquillo pomeriggio del 27 settembre dello stesso anno suddetto, in quel del placido lago Berryessa, nella contea di Napa, assalta mostruosamente altri due ragazzi isolatisi per amoreggiare in santa pace e per viversi serenamente una giornata di baci e coccole spensierati. Lo stesso uomo, per di più, che comincia a recapitare al San Francisco Chronicle delle missive preoccupanti, allarmando il giornale, chiunque e scotendo l’opinione pubblica. Ad occuparsi di lui, nel tentativo di stanarlo pian piano, l’eccellente e scafato, sebbene ubriaco debosciato, Paul Avery (Robert Downey Jr.) che, nel frattempo, stringe amicizia col “ritardato” (così viene testualmente, poco simpaticamente appellato) vignettista e puro Robert Graysmith (Jake Gyllenhaal). Presto, interverrà, in merito alle indagini sullo Zodiaco, anche il risoluto, chissà se poi arrendevole, investigatore della Squadra Omicidi di nome Dave Toschi (Mark Ruffalo). In un intrecciarsi spasmodico e inquietante di colpi di scena a raffica, di battute taglienti e investigazioni al cardiopalma, in un crescendo rossiniano e palpitante d’emozioni instillateci e distillate da un Fincher assai ispirato, elegantissimo e capace di forgiare un impressionante ritmo mozzafiato a un film di due ore e mezza nel quale, dopo la prima mezz’ora, non assistiamo paradossalmente a nessun altro spargimento di sangue (fra l’altro, le scene di violenza iniziali son già sparute, volutamente edulcorate e trattenute, quasi stilizzate e ben asciugate), Zodiac arriva alla fine e avvince grandiosamente. Zodiac è un capolavoro e non si discute. Rimane dentro a distanza di parecchio tempo dalla sua visione ultimata, strazia le viscere e colpisce duro. Eccezionale fotografia di Harris Savides che, dopo The Game, rincontra qui Fincher per poi non incontrarlo più, chissà perché.
Il cast fa più paura dello Zodiaco. In quanto, oltre ai tre pezzi da novanta succitati e a un Brian Cox mellifluo e incisivo malgrado i pochi minuti in scena, sfilano Elias Koteas, Philip Baker Hall, Anthony Edwards, Dermot Mulroney, Jimmi Simpson alla fine prima che diventasse famoso, Charles Fleischer e una magnifica, dolcissima Chloë Sevigny.
Fincher va a nozze coi profiler che sempre vi prendono ma non sempre lo stronzo acciuffano. Vedasi, il succitato Mindhunter. In Zodiac, nei panni del realmente esistito Melvin Belli, v’è il sopra dettovi Brian Cox, alias Hannibal Lecter di Manhunter. Il ruolo, inizialmente, fu però proposto a Gary Oldman. Che prima firmò e poi lasciò. Chissà, forse intimorito da qualche clausola pericolosa a mo’ di quella sopra da me scrittavi. Ah ah.
Se The Killer sarà presentato, in Concorso ufficiale, all’80.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Zodiac concorse per la Palma d’oro al 60º Festival di Cannes.
Specificato ciò, fu accolto molto favorevolmente dall’intellighenzia critica planetaria e ne concordo appieno, così come già suggeritovi. In quanto, ribadisco, è il miglior film di Fincher in assoluto, parimenti il più ostico e meno spettacolare. Ed è basato su un soggetto di Robert Graysmith (il personaggio di Gyllenhaal), autore di molti libri sullo Zodiaco, sceneggiato da James Vanderbilt e, mi par ovvio, filmato e adattato dal regista de L’amore bugiardo – Gone Girl.
Nota di merito, per concludere, da dedicare proprio a Gyllenhaal. Che, nel 2007, sembrava ancora un po’ “stordito” come in Donnie Darko per cui nessuno avrebbe onestamente immaginato che, a prescindere da Jarhead, venuto prima di Zodiac, sarebbe diventato un palestrato sempre più bravo, peraltro, a livello prettamente attoriale.
All’epoca, infatti, assomigliava addirittura a Tobey Maguire di Wonder Boys, a proposito di Robert Downey Jr…
Tobey Maguire di Wonder Boys era quasi uguale a me. Che, nel 2017, invece assomigliò al Gyllenhall di Stronger. Poiché, dopo essere stato denunciato, anni prima, da imbecilli che non volevano uno scrittore, bensì un maschione da caserma militare alla The Covenant, finii quasi disabile e in terapia riabilitativa per essere omologato alla comune massa di tonti. Oggi come oggi, rimango buono di cuore come Gyllenhaal di The Covenant e fedelissimo al modus operandi dello Zodiaco, no, della scrittura creativa del Michael Douglas di Wonder Boys. Michael Douglas è stato strepitoso ne Il metodo Kominsky e, detta fra noi, a Charles Bukowski e al suo alter ego Henry Chinaski, preferisco (il) Basic Instinct. Se apro le gambe come Sharon Stone, la gente capisce che non sono una donna, neppure un trans e, verso i coglioni che mi bramano eppur contro di me tramano, adotto lo stesso stile dello Zodiaco, no, di Catherine Tramell. Cioè, lascio che vogliano fottermi come il detective Nick Curran/Douglas per poi ribaltare la posizione e metterli sotto.
Buonanotte.
di Stefano Falotico
AMERICAN GANGSTER, recensione
Ebbene, nuovamente ivi dissociato da vincoli editoriali, libero, creativamente, di scrivere remoto da ammorbanti regole SEO, libero di redigere il tutto, diciamo, in modo non canonico, scriverò una recensione alla Falotico (invero, già scritta, sotto immessa, eh eh), riguardante questo bel film, però non eccezionale, firmato da Ridley Scott nel 2007. Da me già visto, credo, se non ricordo male, l’anno dopo. Oppure nel 2009? A voi certamente non importa questo trascurabilissimo dettaglio mio temporale-mnemonico, quasi da smemorato o (im)perfettamente memore dei miei trascorsi cinefili. Questi, sì, non affatto dimenticati. Spero invece che possa interessarvi la mia disamina peculiare e, ribadisco, fermamente sottolineo immantinente, tal review finalmente non propriamente classica, pedante e noiosa. Con qualche inevitabile svolazzo pindarico.
Orsù, American Gangster, film della durata interminabile di 170 minuti abbondanti, nella sua versione rimontata ed estesa, forse solo netti, miei inetti, film sopravvalutato, soprattutto da Paolo Mereghetti che, all’epoca, gli assegnò 3 stellette e mezza sicuramente esagerate e figlie d’un entusiasmo non ponderato ma circostanziato alla sua visione affrettata e troppo magnificante l’opus di Scott? Il film presenta nel cast, oltre ai due attori protagonisti, tre ottime figliuole che poi enunceremo singolarmente, lodandone le beltà sensuali. Donne peccaminose? No, scatenanti voglie libidinose. I due interpreti principali sono Denzel Washington & Russell Crowe, che marcantoni, entrambi premi Oscar e due maschi alfa, tutti e due or ovviamente invecchiati e perfino ingrassati, irrecuperabilmente il secondo, aggiungo e preciso, io. I quali, anni or sono, furono rispettivamente rappresentanti della virilità fatta persona e sex symbol(s) in carne e ossa, no, incarnanti la mascolinità razzisticamente agli antipodi. No, non ho scritto una cosa razzista. Appartengono infatti e oggettivamente a due palle, no, allo stesso sesso ma hanno pelli diverse, cromaticamente parlando a riguardo del loro colore epidermico. Washington, attualmente, sta girando Il gladiatore 2 (nella parte di Nerone?, ah ah) mentre, che ve lo specifico a fare, Russell ottenne l’Academy Award come Best Actor per Gladiator, prima sua collaborazione con Scott. Per Washington, American Gangster, dopo tanti film girati col fratello compianto di Ridley, ovverosia Tony Scott, fu la prima sua esperienza col regista di Alien. Mentre per Crowe fu la terzultima sua collaborazione col director’s cut, no, director e basta, di Blade Runner che, come sapete, presenta varie versioni. Quasi tutte approntate da Scott stesso? No, solo una è stata approvata dal regista di molti film che doveva invece cancellare dal primo all’ultimo minuto, in quanto inutili e filmati, come si suol dire, con la mano sinistra. A cui andrebbero inclusi Nessuna verità e Robin Hood, le ultime due pellicole, per l’appunto, della coppia Scott-Crowe? Sceneggiato egregiamente da Steven Zaillian (regista di The Night Of, writer di The Irishman e Schindler’s List), malgrado qualche dialogo didascalico e scontato, diretto con buon piglio da uno Scott inedito (poche volte, infatti, si cimentò con un gangster movie vero e proprio, tralasciando le incursioni in ambienti malfamati, vedasi, per esempio, Black Rain), American Gangster è prolisso, spesso troppo manicheo, ripieno di superflue digressioni messe un po’ a casaccio per allungare il brodo, con un impresentabile Cuba Gooding Jr. nei panni del realmente esistito Leroy Barnes e un assurdo cammeo inspiegabile assolutamente da parte di Norman Reedus in quelli del detective di nome (ma guarda un po’ che fantasia ad assoldare lui) Norman, e un Washington che cita e mostra una foto di Martin Luther King per ricordarci Malcolm X, gigioneggia a tutto spiano oltre il legalmente cinematografico accettabile, rendendosi sovente insopportabile e antipatico alla pari del character da lui interpretato, alias Frank Lucas. Inizialmente, all’apparenza, un normale “manovale” della criminalità più bieca del New Jersey. Autista inseparabile del suo boss Bumpy Johnson che gli muore, nell’incipit, tetro e suggestivo, quasi fra le braccia, malgrado la chiamata tardiva dell’ambulanza. Paragonabile a Scarface di De Palma, probabilmente ricalcatone nel canovaccio, il film segue l’ascesa al potere da narcotrafficante del Lucas/Washington suddetto. Contrastato dal coriaceo poliziotto Richie Roberts (un Russell Crowe sorprendentemente con la sordina ma, con una pettinatura perfettina che poco si confà al suo fisico taurino da picchiatore indomabile e già, d’innata costituzione fisica, poco tendente al magrino).
Lucas, in men che non si dica, in virtù d’un coraggioso intrallazzo con un mammasantissima del Triangolo d’oro thailandese, importando da quest’ultimo eroina purissima, diviene un temuto uomo di potere glaciale.
Un iceman che si vendicherà brutalmente anche dello stronzo mr. Tango (Idris Elba) e sposerà una giovane fanciulla prelibata, bella ma forse illibata e molto ambita, Eva (Lymari Nadal).
Di mezzo c’è financo l’ambiguo ma fascinoso, forse facilmente corruttibile, investigatore Trupo (Josh Brolin). Richie, intanto, durante le sue indagini, oltre a lottare contro Lucas, tentando di acciuffarlo, più che altro inchiodarlo, deve combattere in tribunale con l’ex moglie Laurie (Carla Gugino) perché lei vuole proibirgli di vedere suo figlio. Nel frattempo, Richie, in apprensione eppur al contempo sbattendosene legalmente, no, leggermente, si sbatte tranquillamente la sua fottuta avvocatessa del c… zo (KaDee Strickland, la quale assomiglia alla pornostar Pristine Edge).
Ecco, ho appena eccitato, no, succitato le tre sexy women che dapprima citai. Nessuna di esse però mostra nudamente le sue grazie. Solamente l’ultima eccitata, no, da me poc’anzi citata, cioè la Strickland, esibisce a malapena le sue gambe mentre Richie/Crowe “le dà dentro” e se l’ingroppa bellamente. Che ottima monta(ta), no, che supremo e sincronizzato montaggio di Pietro Scalia.
La fotografia, eccellente e chiaroscurale, atmosfericamente plumbea e demodé, di Harris Savides, è di certo la cosa migliore d’un film piacevole, sebbene dispersivo e affetto da una tediosa lungaggine non necessaria. Sì, American Gangster è, evidenzio ancora, un buon film, altresì nulla di che. Allineato, abbastanza banalmente, ai triti e ritriti stilemi consunti della classicità hollywoodiana più prevedibile e frequentemente monocorde. Con molte scene telefonate, stupidamente violente in forma gratuita e ingiustificata. Con un Washington, come di consueto, sì, bravo eppur spesso e volentieri sopra le righe fastidiosamente, rimarco. Che forse faceva le prove generali per Equalizer. E che, da Man on Fire in poi, specialmente, pare divertirsi un mondo (noi, onestamente meno, lo preferiamo nel suo Barriere) a indossare il ruolo del duro e del figo cazzuto figlio o di troia o machiavellico contro i figli di puttana più bastardi e irredenti.
L’ex di Mara Venier, il villain di Sylvester Stallone in Dredd – La legge sono io, sua brutta copia senza muscoli, (in)dimenticabile in Gotti, incarna un personaggio à la Lorenzo il Magnifico dei poveri e dei narcos. Brolin, inoltre, prima di Sicario di Denis Villeneuve e del sequel del nostro Stefano Sollima, Soldado, imita il Benicio Del Toro di quasi tutta la filmografia di quest’ultimo. In quanto, il grande Benicio è oramai tristemente chiamato quasi esclusivamente, da Traffic in poi, a essere o uno che combatte i cartelli di droga, messicani e non, oppure il dottor Gonzo drogato di Paura e delirio a Las Vegas, arrivando quindi a essere il re degli spacciatori come in Escobar di Andrea Di Stefano. Ridley Scott, a ottanta primavere, ancora ce la fa a scopar’ Gian(n)ina Facio? A volte, forse pensa, fra sé e sé… non più gliela faccio. Allora mi faccio, no, giro un altro film e bevo una cioccolata calda della Ciobar. Il suo Napoleon sarà forse più brutto del lifting della Facio? Impossibile. E Il gladiatore 2? Francamente, con tutta la stima possibile per Paul Mescal e Washington, un gladiatore senza Russell Crowe e Joaquin Phoenix, sarà come Harrison Ford in Blade Runner 2049. Guardabile ma anche no. Ora, scusatemi, non amo la mescalina e non conosco benissimo tale Mescal. Vado a fumare una sigaretta Philip Morris Blu e lascio stare la droga di Lucas/Washington, qui denominata Magic Blue. Amai di più il fu Magic Johnson e, detta fra noi, a Denzel Washington, preferisco il Tartufone Motta. Alle donne, Denzel, invece, piace molto. Avrà un ucc… ne? Non è dato saperlo. Nel film, Ricochet, non glielo vediamo fra le cosc’ ma ha una scena di sesso interrazziale, dopo essere stato narcotizzato, con una bionda whore a mo’ di Isiah Maxwell. Quest’ultimo ce l’avrà anche lungo ma, quando scopa, pare che non goda molto, sarà per colpa del fallo, no, fatto che, per girare “tremila” (iperbolizzo) film per adulti al mese, con ogni probabilità, assume(rà) sostanze stupefacenti che lo fanno venire, inoltre, poco. Ma che c’entra ciò con il resto?
Alle “donne” di Maxwell, soventemente, non c’entra…
Ah, dimenticavo, perdonate per lo “spogliarello”, no, lo spoiler seguentemente dettovi: Richie/Crowe, alla fine, incula Lucas/Washington. Sì, Russell lo fotte. Allo stesso modo, parzialmente lo salva e il culo gli para. Quindi, non è razzismo, le cos(c)e andarono così.
Per finire, He Got Game di Spike Lee fa alquanto schifo. Malgrado Jill Kelly & Chasey Lain si esibirono in una quasi R Rated scene… con un neretto, vezzeggiativo di Nerone. Ah ah. Infatti, costui interpretò il pargoletto di Denzel.
E ho detto tutto…
di Stefano Falotico
IL TRADITORE, recensione
Ebbene, siete pronti per la nuova kermesse veneziana e festivaliera? Poiché, come i ben informati sanno, in extremis, no, all’ultimo minuto, Guadagnino, per ragioni diramateci e assai note, è stato sostituito con Edoardo De Angelis che, all’80.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, presenterà, ovviamente, in world premiere, cioè anteprima mondiale, il suo opus intitolato Comandante con l’oramai onnipresente ma indiscutibilmente eccellente Pierfrancesco Favino. Forse il miglior attore italiano in circolazione, attualmente. Specializzatosi, infatti, vertiginosamente in performance via via in crescendo esponenzialmente perennemente, lavorando, sempre meglio, con registi d’alto profilo, insindacabilmente, Favino è, checché ne dicano i suoi odiatori, ahinoi, questi sì, tremendi e deficienti, un attore che, apportando, chirurgicamente e pian piano, migliorie significative al suo stile recitativo, soventemente ma soprattutto inizialmente con la sordina e con una voce “così così”, malgrado ne L’ultima notte di amore qua e là tentenni, nella “dizione” adattata forzatamente nella calabrese cadenza, specialmente, in tal Il detrattore, eh eh, no, Il traditore, sfodera e sfoggia una prova mastodontica, brillando di fulgida luce propria, cementandosi, con esiti da applausi a scena aperta, come si suol dire e, diciamo, in gergo, con un personaggio difficile sotto ogni punto di vista, con molte ombre, ovverosia nientepopodimeno che Tommaso Buscetta, detto Masino.
Film del 2019 di Marco Bellocchio, cineasta che, naturalmente, non necessita d’ulteriori presentazioni superflue, reduce peraltro, assai recentemente, dall’imperfetto ma decisamente ammaliante, perturbante, in gran parte estasiante, Rapito. Pellicola da me recensita appena in sala uscì che, perlomeno nella prima ora e mezza, totalmente mi rapì, deludendomi soltanto, parzialmente, aggiungo e puntualizzo precisamente ivi, verso la fine, in quanto, a mio avviso, si smarrì troppo didascalicamente in digressioni prolisse e irrilevanti ai fini dell’intreccio da Bellocchio illustratoci. Recuperato ora, tramite Netflix Italia, per l’appunto su tale piattaforma per cui, alla faccia dei romantici, più che altro anacronistici fautori della visione esclusivamente sul grande schermo, pago regolarmente e mensilmente l’abbonamento, Il traditore è un signor film da disaminare finemente e per niente da snobbare facilmente. Se non l’avete mai visto e vole(s)te conoscerne la trama in molti dettagli, recatevi qui su Wikipedia ma, ugualmente, ne ricaverete informazioni approssimative e verrete a conoscenza d’alcuni spoiler sgraditi: https://it.wikipedia.org/wiki/Il_traditore_(film_2019).
Romantico in senso lato o prettamente letterale, romanza parecchio, certamente. Eppur, parimenti, affascina grandemente nella sua sottile amalgama fra il documentaristico e il neorealistico più bellocchiano. Poiché Bellocchio, al solito e ottimamente, permea la sua materia filmica di pathos raffinato, narrandoci i fatti “realmente avvenuti” attraverso i suoi immancabili topos a base d’incubi in piena notte e scene sia allucinanti che allucinatorie, improvvisamente inquietanti. Su tutte la raccapricciante e inaspettata scena, da pelle d’oca, dell’arrivo della prostituta bona e super mignotta in carcere col “fedele”, giammai veramente pentito Masino/ Buscetta/Favino che, fra le sbarre da poco ma ospitato in una camera confortevole, forse non propriamente in una suite d’albergo a 5 stelle, però allo stesso tempo corredata di buon televisore e “accessoriata” dignitosamente a misura d’uomo e non di mafioso moralmente sia onorevole che misero, dopo la telefonata registrata ma erotica con la moglie (la sexy Maria Fernanda Cândido, invero poco candida nel suo torbido character da caliente bastarda, la quale, sbattendosene di essere dai poliziotti ascoltata, si tocca totalmente ignuda e sudata, con la f… ga accaldata e, chissà, profumata), non resiste più all’astinenza della carne e il suo matrimonio presto profana, sì, lo manda a puttane, è il caso di dirlo, con la bagascia eccitata, no, succitata. E, indisturbato, barbaramente e burberamente le chiede imperiosamente di spogliarsi, scopandosela nel bel mezzo della prigione più stronza di Palermo.
Insomma, schizzandovi, no, scherzandovi sopra, appena dopo l’estradizione e l’incarcerazione, non vediamo la sua fottuta erezione (non siamo in Diavolo in corpo con annessa fellatio storica) ma assistiamo, comunque, a una serena, mostruosa trombata da “motherfucker” di “Cosa Nostra”.
Attenzione, dirimpetto a Giovanni Falcone, in una delle sue prime confessioni della sua istruttoria, Buscetta vi tiene a specificare che l’organizzazione criminale in questione si deve chiamare esattamente con la sua giustizia, no, giusta espressione. Giustappunto, Cosa Nostra, e non mafia. Per dovere di cronaca giornalistica e/o mafiosa, sulla giustezza del termine esatto, sarebbe da domandare a Francis Ford Coppola con la sua “famiglia” de Il padrino, a Martin Scorsese di Quei bravi ragazzi e perfino a Luc Besson di The Family, altresì conosciuto, anzi, da noi distribuito col titolo Cose nostre – Malavita. Con un boss di nome Don Lucchese che non è lucano, non è basilisco, forse è siculo, eh eh, è semi-analfabeta ma legge La Repubblica (incredibile!), ah ah, e De Niro che si chiama improbabilmente Giovanni Manzoni (la colpa non è di Besson, attenutosi fedelmente al libro dello scrittore Alessandro de I promessi sposi, no, di Tonino di Pietro, no, di Benacquista) e, al cineclub, riguarda sé stesso nell’appena scrittovi, poc’anzi, Goodfellas.
Non è morbosità… la mia… ma la scopata con la zoccola, prima descrittavi, è una scena fra le più emblematiche e disturbanti dell’intera opera presa in anale, no, Analyze This, no, analisi. Che riassume al meglio lo spirito ambiguo di questo film porco, no, volutamente equivoco che rivela i panni sporchi delle merde e li smerda, sputtanandoli in toto. Contemporaneamente, accusando lo Stato “impunito” e magnaccia, anzi, costituito da magna magna. Poiché Bellocchio non magnifica Buscetta ma neppur lo condanna… Lo riduce quasi a santino e dunque lo santifica, lo perdona per le sue “marachelle?”. Buscetta di tutto se ne fotté, persino del maiale Totò Riina. Qui interpretato da Nicola Calì. Da non confondere con Pippo Calò/Fabrizio Ferracane. E ne pagò le conseguenze. Morendo da solo come un cane o per colpa d’un impietoso Cancro?
Mentre il suddetto Falcone è lo stesso attore che interpreta, anzi, poi avrebbe rivestito i panni del padre disperato di Edgardo Mortara in Rapito, alias Fausto Russo Alesi. Luigi Lo Cascio, invece, qui siculo d.o.c., memore de I cento passi, è Salvatore Contorno. Sopra, ho menzionato Terapia e pallottole. Lo Cascio/Contorno, dopo essere stato momentaneamente liberato, trova un lavoro da venditore d’auto costose a mo’ del Paul Vitti/De Niro di Analyze That, vale a dire Un boss sotto stress.
Giulio Andreotti è Pippo Di Marca. Parafrasando Paolo Bonacelli in Johnny Stecchino, per cui la più grande calamità vergognosa della Sicilia è o sarebbe la siccità, ah ah, no, lo stesso suo autore-attore Roberto Benigni, Di Marca non c’assomiglia pe’ niente! E sembra più una macchietta del Bagaglino à la Pippo Franco. Scritto dallo stesso Bellocchio, su soggetto originale, con suo figlio Pier Giorgio nel piccolo ruolo di Cesare, e l’incursione nel pre-finale di Bebo Stori as avvocato Franco Coppi, Il traditore è molto didascalico, si adagia su toni melodrammatici da fiction (essendo prodotto, non a caso giuridico-penalistico, no, in modo televisivo, da Rai Cinema), in alcuni momenti e attinge, cronachisticamente, processualmente metaforicamente, a programmi appartenenti pressappoco alla collocazione temporale delle varie vicende snocciolateci, come per esempio Un giorno in pretura. Vi è anche un cammeo della bella Miriam Previati.
Il traditore è prolisso, Favino è superlativo, ha tantissimi difetti, comprese alcune sequenze girate ingiustificatamente in digitale (Bellocchio non è Michael Mann di Nemico pubblico), fotografate però superbamente da Vladan Radovic, è stato musicato egregiamente da Nicola Piovani (La vita è bella, ah, sempre Benigni di mezzo, oh oh), andava scorciato e meno retoricamente filmato. Nel suo insieme fatto di andirivieni soprattutto emozionali, inchioda dal primo all’ultimo minuto, esagera sovente e carica eccessivamente d’enfasi ma, alla fin fine, sostanzialmente, è un film importante. Forse non memorabile ma giustamente angosciante.
di Stefano Falotico
SOLO DIO PERDONA (Only God Forgives), recensione
Ebbene, anzi, orsù! Ivi sganciato da costrittivi, forsanche pedanti legami editoriali, in attesa, la settimana prossima, di vedere About My Father (poi recensendolo, mi auguro, di testata attestata con nome e cognome miei firmati), scelleratamente intitolato Papà scatenato con De Niro, memore io di essere, malgrado tutto e dopo tanta acqua, come si suol dire, sotto i ponti trascorsa, sì, passata, l’incarnazione, in passato e, ribadisco, a tutt’oggi di Hugh Grant di About a Boy, prodotto da De Niro stesso, ravvisando lo spopolare di meme e foto di Ryan Gosling di Barbie, su Facebook e altrove, decisi, in codesto oramai terminato pomeriggio del 19 luglio (leggerete questo pezzo nel dì seguente, ovvero quello presente e in corso attualmente, eh eh, di ribaltamento lessicale delle parole o solo spazio-temporale), di assistere alla visione, finalmente completata(ta), del film seguentemente da me disaminato. Anzi, scusate, prontamente rettifico per dovere di mnemoniche cronache mie da Blade Runner 2023 e non 2049, di tal Only God Forgives comprai, un paio d’anni or sono, perfino il Blu-ray ma non ne completai, giustappunto, giammai la visione. Solamente, precisamente, appena l’iniziai. Non so perché. Non ricordo bene…
Che io mi ricordi invece perfettamente, dopo il clamore succitato, no, suscitato dalla coppia artistica Nicolas Winding Refn + Gosling dell’acclamato (non da Paolo Mereghetti, però) Drive, la “combo” tornò a lavorare assieme quasi istantaneamente, ripresentandosi al Festival di Cannes, in Concorso…
A differenza di Drive (2011) che, alla kermesse cannense appena sopra nominatavi, piacque molto a pubblico e Critica, aggiudicandosi meritatamente il Prix de la mise en scène, addirittura scontentando i più che avrebbero voluto vincesse nientepopodimeno che la Palma d’oro, Solo Dio perdona (2013) fu bombardato di sonori fischi e pesantissimamente ingiuriato. Ancora adesso, il sito aggregatore di medie recensorie, metacritic.com, ne riporta un’assai insufficiente media molto grave e oso dire “gravosa”, ovverosia equivalente all’ingiusto 37% di pareri nettamente negativi. Sì, una media non congrua al valore del film che meritava e merita ampiamente una “votazione” maggiore ma intendiamoci, al contempo, su un altro aspetto imprescindibile… A me Refn piace abbastanza ma non appartengo alla lista di suoi estimatori incalliti e miopi che hanno il prosciutto davanti agli occhi e si lasciano troppo accecare dalle sue celebri luci stroboscopiche. Perdendo visivamente le sue immagini, no, smarrendo la loro stessa “vista” obiettiva. Solo Dio perdona dura poco, cioè a malapena un’ora e mezza, ciò non è affatto un male ma ha evidenti difetti e, specie all’inizio, è soporifero in maniera indigeribile. La prima mezz’ora, sì, “allunga” il minutaggio di questa pellicola in modo indicibile. Non è dunque un capolavoro, neppure un bel film. Eppur non è brutto come riportatovi e riportatoci. Riportandovi invece sottostante la sinossi rilasciataci da IMDb:
Julian, uno spacciatore di droga che prospera nel mondo della malavita di Bangkok, vede la sua vita complicarsi ancora di più quando la madre lo obbliga a cercare e uccidere il responsabile della recente morte del fratello.
A proposito di Mereghetti, ostinato e ottuso detrattore di Refn, in merito, ai tempi della presentazione di Only God Forgives a Cannes, nell’editoriale del Corriere della Sera, tronfiamente asserì quanto segue: «Una scelta, quella di voler ribadire a tutti i costi il proprio “messaggio”, che invece Nicolas Winding Refn cavalca con testarda protervia. Se Drive era costruito sul tentativo di ridurre il film noir ai minimi denominatori, depurandolo di ogni elemento superfluo per mostrarne solo le caratteristiche fondative, questo Only God Forgives (Solo Dio perdona) si sforza di andare oltre: lunghi primi piani muti, improvvise esplosioni di violenza e una catena di vendette incrociate a partire da una ragazzina stuprata e uccisa. Ma per vendicare l’uccisione dello stupratore, non della vittima! Così vuole la madre di due fratelli (l’assassino senza un perché e un catatonico Ryan Gosling) interpretata da una Kristin Scott Thomas agghindata come Donatella Versace (regista dixit), mentre tutti si muovono come in un acquario. Il risultato è molto più che irritante, fintamente cinefilo e naturalmente misogino. Ma soprattutto sprovvisto di senso. Oscar Wilde amava ricordare che gli armadi chiusi possono anche non nascondere niente. Winding Refn ci conferma che quell’osservazione vale anche per i film. Soprattutto per il suo».
Parafrasando il citato Wilde, il “citazionista” Mereghetti ci conferma che l’affermazione di Wilde potrebbe rispecchiare la vacuità e stolta vanità di molte sue sterili uscite fuori luogo e senza senso logico.
Ora, chiarito questo, diciamo anche che Only God Forgives vale più di quello che si dice e meno di quello che i fanatici di Refn dicono ma questo l’avevo già detto.
Ci presenta un Gosling edipico, stordito, nei panni di un personaggio coglione sin in fondo, un fratello “Tetsuo”, interpretato per pochi minuti, nell’incipit, da Tom Burke, sì, molto sessualmente dotato anche se non glielo vediamo, uno con un c… zo enorme, stando alle parole della “madre”-amante di entrambi, una Kristin Scott Thomas probabilmente incestuosa di tutti e due i figli stronzi, una Scott Thomas mai così “troia” e bella, e un villain imbattibile e impagabile che non sarà ucciso da nessuno, sarà lui a uccidere tutti perché è giusto così, gli hanno barbaramente stuprato la figlia e macellata. Allora, lui diventa un macellaio per mano di “dio”. È Chang, incarnato da un magnetico e insospettabilmente atletico Vithaya Pansringarm.
La fotografia, a cura di Larry Smith, mette i brividi, la Scott Thomas, ancora evidenziamolo, è una grande attrice e una donna maliarda dal fascino irresistibile (anche se son passati esattamente dieci anni da allora e non è più come a quei tempi), le musiche di Cliff Martinez (pre-Stranger Things e sapete perché) parimenti ipnotiche.
Refn pecca di compiacimento per la violenza, come sempre. È un suo violento orpello, metaforicamente parlando e perdonatemi per il voluto gioco di parole, più fastidioso della sua messa in scena ripiena di violence.
Cosicché, dopo la prima visione, a caldo o a freddo, fate voi, può sembrare che Refn ci abbia preso platealmente per i fondelli. Per non dire altro. E che sia stato più triviale, in alcune battute, del solito e disgustoso di un lato messo lì, “alla culo”, del peggior Tinto Brass.
Ma Solo Dio perdona rimane stranamente dentro, angoscia ed è uno sleeper spaventoso, agghiaccia, scuote, perturba, non assomiglia a niente visto prima sebbene scopiazzi mezzo Cinema orientale mischiato a quello scandinavo e statunitense, perfino nostrano ed europeo, così peraltro come molti sostengono, non del tutto a torto.
di Stefano Falotico
INDIANA JONES & il Quadrante del Destino, recensione
Ivi, sganciato da vincoli editoriali, libero come un delfino, inseguo la creatività recensoria più libera. Giocando, nel finale, di voluta demenzialità, per modo di dire, innocua. Scrivendo quindi una review tipicamente mia.
Ebbene, il sig. Harrison Ford, autodefinitosi sboccio ritardato, classe ‘42, il quale dunque compirà ottantatré primavere nell’immediato, ovvero la prossima settimana, più precisamente nel dì del 12 luglio assai venturo, qui è catapultato in una nuova avventura del professor Jones. Uno dei suoi maggiori personaggi iconici, il più rappresentativo della sua vasta, eppur a ben vedere nemmeno così prolifica, filmografica carriera attoriale. Forse, perfino il più importante a livello d’immaginario collettivo suscitato non solo nella generazione appartenente alla collocazione temporale de I predatori dell’arca perduta. In ordine cronologico, no, storico, no, per l’appunto iconico, Indiana Jones primeggia infatti, a mio discutibile avviso, al primo posto del podio fordiano, svettando fra Han Solo (Ian, nella versione italiana della saga di Guerre stellari) e il suo “androide” umanissimo, detective privato avveniristico di Blade Runner. Capolavoro immarcescibile di Ridley Scott che non fu sviluppato in un franchise ma originò l’impensato, qualche anno fa finalmente realizzato, interessante, anche se probabilmente irrisolto, di certo non irrisorio, sequel denominato… 2049, da Denis Villeneuve firmato e, ovviamente, dallo stesso director del capostipite e di Alien… patrocinato. Tornando invece a questo quinto capitolo dedicato alle peripezie del dr. Jones, dopo la tetralogia a cura di Steven Spielberg, quest’ultimo, sempre immancabilmente produttore (che furbone), consegna a James Mangold tale proseguo. Mangold, un nome che, ahinoi, a distanza oramai di quasi quattro decadi da Dolly’s Restaurant, malgrado il notevole, all’epoca sottovalutato però, Cop Land, e tante pellicole più o meno pregevoli, quali per esempio il biopic su Johnny Cash, intitolato Quando l’amore brucia l’anima – Walk the Line con Joaquin Phoenix, i suoi due movies dedicati a Logan, alias Wolverine con Hugh Jackman, oppure Le Mans ‘66, è inspiegabilmente un nome che non dice quasi nulla ai cosiddetti cinefili. Soprattutto dell’ultima ora. Ma cinefili di che? Se non conoscete Mangold, peraltro autore del bel remake Quel treno per Yuma, lasciate stare la settima arte e prendete una foto di Liv Tyler degli anni novanta e dell’esordio mangoldiano succitato per eccitarvi, strabuzzare gli occhi e muoverli come Pruitt Taylor Vince, ah ah.
Indiana Jones and the Dial of Destiny dura la bellezza di 154 minuti netti, abbastanza scorrevoli e godibilissimi, checché ne dicano le malelingue e, per l’appunto, gli improvvisati, pseudo-critici di oggi. Che Carmelo Bene, se fosse ancor in vita, definirebbe così come già definì quelli di allora, cioè dei becchini-monatti senz’arte né parte, eletti a giornalisti forse della loro mortuaria vita fac-simile rispetto a un’esistenza vera e propria. Il critico di ieri e di oggi, infatti, è uno zombi vivente, una specie di uomo non senziente, quindi demente. Le ridicole considerazioni di questa falange di esseri putrefatti, perciò, in merito a questo film, sono inesistenti, oso dire inconsistenti. Fragilissime ed evaporanti come neve al sole. Per quanto mi concerne, mi par invece irrilevante starvi a specificare i dettagli di tal Indiana… Sarei pleonastico e immotivatamente, giustappunto, banalmente giornalistico…
Per saperne la trama, guardate il film, altresì, per conoscere i writers della sua sceneggiatura e per venire a conoscenza di qualche curiosità e/o dettaglio tecnico, affidatevi a Wikipedia. Ne ricaverete una sommaria infarinatura da Matusalemme mausolei qual siete, cari uomini e donne privi di fantasia e soprattutto, ripeto, morti dentro da tempo immemorabile e irrecuperabile più del Graal…
https://it.wikipedia.org/wiki/Indiana_Jones_e_il_quadrante_del_destino
Allora, avete letto tutto, analfabeti e archeologi del vostro essere delle mummie imbalsamate da Carbonio-14? Partiamo dagli attori, innanzitutto tenendo Harrison quasi per ultimo…
Phoebe Waller-Bridge è sexy? Macché, è insipida e financo poco simpatica. Comunque, se si spogliasse interamente ignuda dinanzi a me, mi darei a un’ispezione da “speleologo”. Mads Mikkelsen è un bravo attore ma non mi piace molto. Piace invece alle donne. Ca… li loro, anzi, il suo se glielo darà, no, sempre che glielo dia, se dio o lui vuole, ah ah. All’appello ci mancava solo Antonio Banderas, oramai mister prezzemolino ma, specialmente, sempre più bruttino e vecchiettino. Mentre Harrison invecchia come il buon vino? Purtroppo, no. Sembra più stagionato d’un pessimo Chianti da Hannibal versione Mikkelsen o in quella insuperabile, originale, a prescindere da Brian Cox di Manhunter, di Anthony Hopkins? Poi, diciamoci la verità, per quanto Julianne sia e fosse bella, non poté e non può competere con Jodie Foster, mentre sir Anthony girò Hannibal del già menzionato Ridley Scott soltanto per ubriacarsi, da ottimo ex alcolista redentosi (?), scolandosi, in quel di Firenze e appenino toscano limitrofo, eh eh, non solo i vini migliori, bensì anche le donne da osteria più adatte alla sua “signorilità” da Balanzone ubriacone. Ma che sto dicendo? Non perdiamoci… Il film si perde nella parte centrale ove Mangold, memore degli impresentabili inseguimenti stradali di Innocenti bugie con Tom Cruise, in tali strade, no, in questa circostanza rocambolesca e non poco grottesca, non si dimostra all’altezza dei vari Mission: Impossible… Per Harrison pare impresa improba, diciamo pure inverosimile, essere credibile nelle scene d’azione senza ringiovanimento facciale ma l’incipit di tale pellicola è superbo. Sì, non scherzo. Potrete e possiamo assistere, infatti, al “nano” Toby Jones (sì, ha lo stesso cognome di Indiana) che corre su e giù per un treno, anche sopra esso, con destrezza da controfigura di Harrison Ford del tempio maledetto… Prodigioso, oso dire, una stronzata clamorosa! Boyd Holbrook… non è quello del Predator non ca… to da nessuno e il “figlio” del personaggio di Ed Harris in Run All Night con Liam Neeson? Sì, in quest’ultima pellicola, veniva quasi subito fatto fuori. Ca… o, pensavo fosse morto! Ancora lo chiamano per “recitare?”. Non era stato invece assunto, da redivivo, alla gelateria del quartiere Lame, Belli Freschi? Naturalmente, hanno anche richiamato Karen Allen. La quale giammai si riprese dopo aver perso il suo “doppio” Jeff Bridges di Starman. Da allora, infatti, vagò e vaga da sola in casa, impazzita totalmente e vedendo, in modo allucinatorio, soprammobili volanti a mo’ di UFO di Incontri ravvicinati del terzo tipo, inoltre riguardando Poltergeist di Tobe Hooper. Ma quale Hooper! È di Spielberg con la firma del regista di Non aprite quella porta. Sì, meglio non aprire la porta di casa di Karen Allen. Oggigiorno, la sua faccia fa più paura di quella di Leatherface. The Texas Chainsaw Massacre! No, non voglio massacrare… il Quadrante del Destino, è completamente salvabile, non va stroncato o segato ma, ribadisco, con tutta onestà, dovete credermi, è molto amabile. Ah, scusate, mi son dimenticato di John Rhys-Davies. Aveva già la faccia del vecchio in… The Last Crusade, adesso riappare, no, appare più giovane, senza CGI, di quando era, fisicamente, più rimbambito del Ford odierno.
In conclusione: ne vogliamo parlare perché mai Banderas decise di parteciparvi per 10 min. scarsi? Voto 7 e, bando alle ciance e alle ipocrisie, la sgallettante Waller-Bridge se non avesse, come me, il naso lungo e non sfoderasse spesso espressioni da S. Chiumenti, ovverosia una mia ex compagna delle scuole elementari secchiona e, francamente, rimasta racchiona, sarebbe un’incontestabile figona e sensuale guagliona arrapante. Il corpo c’è tutto, il corpus recitativo assai meno e il viso fa schifo al c… o. No problem, basta un cuscino sopra. Anzi, per me il problema non sussiste. Non ho i soldi per invitarla a cena, se mai eventualmente un giorno la incontrassi al Festival di Venezia. Credo, infine, che Calista Flockhart sia stata gelosa di Phoebe durante le riprese di questo film. Perché Harrison è ancora un bell’uomo? No, perché Phoebe, pur di sistemarsi definitivamente a Hollywood, un servizietto al Matusa da sarcofago… probabilmente glielo avrebbe fatto e, chissà, glielo fece perbene…
Da cui il “filmino”, ricercato più di …The Lost Ark e del “vaso di Pandora” d’Archimede, vale a dire Indiana Jones & l’ultima trombata... in ogni senso, anche quello b. Ah ah. Il film non merita un hip–hip–urrà ma sicuramente un Eureka?
di Stefano Falotico