AIR – La storia del grande salto, recensione
Ebbene, svincolato ivi da canoni editoriali, un po’ sganciato da tutto, come mia consuetudine, recensirò in modo flamboyant tal assai gustoso movie che vale il prezzo del biglietto, offrendo alle nuove generazioni la mia preziosa e imperdibile chance di ricordare loro chi fu Michael Jordan e cos’ha rappresentato per tutti noi, invece, boys degli eighties a cavallo dei nineties quando la sua stella, già fulgida e sempiterna, fu all’apice del suo magnifico e imbattibile nitore. Dandoci la possibilità di tornare indietro nel tempo e giocare ancora, no, perlomeno di godere appieno, dal vivo e in diretta cinematografica, di quello spettacolo vivente chiamato, ripetiamolo a gran voce, Michael Jordan. Mito giammai battuto, campione imbattuto, con una “battuta” da cestista spacca-canestro veramente insuperato.
Ma che bel film, caro Ben Affleck. Sì, malgrado sia esageratamente retorico, ingenuo, a tratti, un dolciastro e buonista inno speranzoso alla grandezza in senso lato, scambiato però malignamente per un capzioso spot promozionale alle eterne scarpe Nike ascritte indelebilmente al suo marchio leggendario in virtù specialmente di the greatest Basket player of all time, che ve lo ridico, per l’ennesima volta, a fare? Il sig. Jordan.
Saltando come Mike, no, a piè pari su Wikipedia, estraendovene la trama qui riportata e, sottostante, per comodità, copia-incollatavi, con apportate mie correzioni alla punteggiatura…
«1984, Beaverton (Oregon). Nella sede della Nike il manager Sonny Vaccaro, esperto di basket, è alla ricerca di giovani talenti a cui proporre un contratto di sponsorizzazione per rilanciare il marchio che all’epoca era fortemente votato al running e con quota di mercato nel settore del basket nettamente inferiore ai colossi come Converse e Adidas. Sonny decide di investire tutto il budget messogli a disposizione dalla dirigenza per chiudere un contratto con la stella emergente del basket: Michael Jordan. Per riuscire nel suo obiettivo Sonny deve vincere le resistenze del suo CEO Phil Knight, del manager di Jordan e dello stesso Michael, all’epoca molto più attratto dalle sirene dell’Adidas. La strategia di Sonny si rivela azzardata ma vincente quando decide di far breccia nei sentimenti della mamma di Michael, proponendo per il figlio un ruolo in assoluto primo piano nelle strategie commerciali della Nike ed inventando una scarpa ed una linea di abbigliamento, la Air Jordan, appunto, progettata esclusivamente per il campione».
Dinamico, scoppiettante, dal ritmo eccezionale malgrado le sue quasi 2h nette di durata che, invero, ci mostrano solamente qualche brevissimo spezzone delle partite di pallacanestro che coinvolsero il fenomeno suddetto, specialmente concernenti il suo periodo pre-successo, sottolineandone l’inarrestabile ascesa, evidenziata in un colpo storico, quando militava tra le fila del North Carolina, alla sola età di diciotto anni. Poi, sarebbe avvenuta fulminante la detonazione deflagrante del campione vincente dei Chicago Bulls. Ma questa è un’altra storia, anche probabilmente personale.
Poiché, memore della mia adolescenza, peraltro ancora non terminata, essendo infatti il sottoscritto un uomo senz’età, grazie al talentuoso, oramai inutile negarlo, Ben Affleck sia dietro che davanti la macchina da presa, nonostante il suo riccioluto look forzato, ringrazio lui stesso, autore, e questo suo “joint” alla Spike Lee (che si vede nei titoli di coda à la He Got Game), ovverosia un gorgeous, arguto opus di puro entertainment senza stolte velleità pseudo-artistiche da imbonitori cineasti arroganti e inutili… dicevo, ah, mi son perso e, perdendomi tra le scorribande mie mnemoniche alla Falotico, resuscito me medesimo di quei tempi remoti eppur, rimarco, in mente risortimi d’incanto.
Quando, pivot della squadra della mia scuola media, tra i felsinei fortitudini sfigati, tifavo per la Virtus e il suo idolo delle folle, alias Predrag Danilović, detto simpaticamente Sasha.
Cosicché, mentre il figlio della signora Fiorini del settimo piano del mio pazzo, no, palazzo, giocava per l’appunto tra le giovanili della squadra bolognese scudettata e appena nominatavi, molti anni prima della musicale hit “strappa mutande” If You Believe, firmata dal lituano, no, tedesco, Sascha Schmitz, prima d’incantarmi in un’esistenza oggi rinata, però all’epoca suonata, assai rintronata e fottutamente dai miei coetanei bullizzata, derisa, schivata, schiavizzata e perfino schifata, a volte giocavo con le palle nell’ammirare le più sexy tenniste, non solo di Wimbledon e del Roland-Garros, per un onanistico Grande Slam da ottimo slurp…
Pardon, scusatemi per questa parentesi superflua e stupida, forse solo da seg… olo ridicolo, non smarriamoci in balle e cazzate sesquipedali, questo film è una figata assoluta. In alcuni momenti, più eccitante di Maria Sharapova quando fu gran topa al suo top. Ebbene, ragazzi da Topexan e dermo-lavaggio per curarvi dalle asperità del vostro viso butterato, cari brufolosi topi che preferite un topless alle cosce di Camilla Giorgi, Flavia Pennetta, in verità una “pennona” così come dicono qui, in quel di bona, no, Bononia, cioè Bologna, e di un’Anna Kournikova che sprona all’alcova, gatta ci cova quando un critico, semmai anche femminile che ovula, si permette di stroncare un film così gentile e cazzuto come questo. Non è affatto, a differenza di ciò che si legge in giro, un ratto, no, un ritratto a mo’ di biopic su Jordan, nemmeno un’ode al capitalismo, care oche. È Cinema a stelle e strisce di ottimo stile garbato, godibile mainstream nel senso più cool, per nulla spregiativo, della parola. La sceneggiatura di Alex Convery è volutamente, spesso, addirittura infantile e mette in bocca, nel prefinale, alla grande Viola Davis, effettivamente, ciò che risuona più fake di Scottie Pippen. Che voglio dire con questo? Pippen era un falso? No, un grande amico di Michael, altresì era geloso da morire del suo friend. Mentre Matt Damon non nutre alcuna gelosia nei riguardi di Ben. Damon, un attore strepitoso, considerato dalle persone insulse sol un attore insignificante e anonimo. Che atrocità e immonda falsità veramente ingrata e ignobile. Non è bono come Affleck e non vuole esserlo, così come l’eccellente Jason Bateman, nei panni di Rob Strasser, non incarna un personaggio stronzo alla Patrick Bateman…
Chris Tucker non è un champion della recitazione ma è indubbiamente simpatico ed è da sempre conscio che non poteva essere il new Jordan se, alla recitazione, per l’appunto, avesse preferito il basketball. Non è Richard Pryor, neppure la versione black di Bill Murray. Quest’ultimo comparente, nei titoli di testa, in un frame iconico da The Ghostbusters e non da NBA Jam fra uno Sly Stallone che duetta con Dolly Parton e un Hulk Hogan da memories wrestling e non quello di Rocky III. Sebbene si veda poi Mr. T e si citi apertamente Eye of the Tiger dei Survivor… Non scorgiamo e non c’è Martina Navratilova ma, nel cast, v’è Barbara Sukowa. La fotografia di Robert Richardson è semplice ma funzionale, malgrado non c’illumini con pindarici svolazzi da Bringing Out the Dead e da Oliver Stone. Prima che quest’ultimo, per Ogni maledetta domenica, scegliesse Salvatore Totino, lasciando Richardson a Quentin Tarantino.
Air è un filmino? È un filmone o solo un filmetto? È imperfetto ma giammai ampolloso, è diretto come un blockbuster degli anni novanta tipicamente proveniente dagli States, non è forse nulla di che ma intrattiene di brutto. Infine, Damian Young assomiglia a Michael Jordan alla pari di Mike Moh, nei panni di Bruce Lee, in C’era una volta… a Hollywood. Cioè, Young è diversissimo da Michael. Anche perché non viene mai inquadrato, se non di spalle, ah ah.
Ecco, il Falotico, invece, il quale va in giro a dire che era più forte di Marco van Basten e Diego Armando Maradona, essendo stato davvero un calciatore, sebbene non abbia mai giuocato in Serie A, è un pazzo senza contezza di esserlo e va, quanto prima, internato? Può essere oppure potrebbe essere, a proposito di Sylvester Stallone, ancora in forma, come Rocky Balboa nel quinto episodio della sega, no, saga arcinota e non da Circolo Arci. Al che, se qualche stronzetto irriconoscente come Tommy Gunn gli si rivolta contro, urlandogli “lo distruggo quel fallito!”, semmai attaccando la sua famiglia, gli risponde: – Bravo, l’hai messo giù, ora perché non ci provi con me, ragazzo?
No, la sua risposta sarà inaspettata, simile a quella di John Rambo, quando in First Blood, tutti gli idioti, pensano che sia morto… Ora, poveri smemorati…
di Stefano Falotico
THE NICE GUYS, recensione
Ebbene, finalmente, in totale rilassatezza, a distanza di qualche anno dalla sua uscita nei cinema, ho visto en souplesse questo scoppiettante, esilarante e intrigante film che, all’epoca, giustappunto mi sfuggì. Parimenti a molto altro, scivolatomi di mano per via della mia mente, a quei tempi, obnubilata e ottenebrata da foschi pensieri più cupi d’un noir tanto maliardo quanto inquietante. Firmato dall’emerito e assai brillante Shane Black (Hawkins di Predator, l’unico e inimitabile, assolutamente originale, targato John McTiernan, eppur da lui riplasmato nel reboot, forse brutto, del 2018), creatore dei personaggi del franchise Arma letale, sceneggiatore, fra gli altri, de L’ultimo boy scout, di Iron Man 3 & Kiss Kiss Bang Bang, dunque una penna eccentrica e al massimo inventiva, funambolica e sardonica, graffiante e specializzata in battute e dialoghi ficcanti, in freddure micidiali e capace d’imprimere impressionanti cambi di registro dinamici e veloce ritmo positivamente atroce ai suoi script, sovente ineccepibili e congegnati con encomiabile stile, qui ancora una volta, oltre che in cabina di regia, per l’appunto, screen–writer e soggettista in collaborazione fruttuosa con Anthony Bagarozzi. Con The Nice Guys, in modo indubbio, assolutamente incontrovertibile, realizza il suo opus migliore. Tant’è che, a tutt’oggi, si parla d’un sequel che, stando alle ultime news, dovrebbe quanto prima concretizzarsi. E, sinceramente, non ved(iam)o l’ora. Ora, scusate per il voluto gioco di parole, come sopra vi dissi, giammai, sin all’altra sera, questa strepitosa pellicola dapprima vidi. Ma poco male, per l’appunto la visionai, me ne esaltai e nelle seguenti righe, in mood falotico la disaminerò, un po’ fuori da vetusti canoni fintamente istruttivi e standardizzati della barbosa intellighenzia critica, spesso priva di brillantezza e ironia. Senza farvi spoiler, semplicemente appioppandovi sottostante, per convenienza, l’assai concisa eppur pertinente sinossi estratta da IMDb: Nella Los Angeles degli anni 70, due detective privati vanno alla ricerca di una ragazza, la cui scomparsa è legata alla morte misteriosa di una pornostar.
Gli investigatori in pensione, no, in questione, rispondono ai nomi di Jackson Healy & Holland March, rispettivamente incarnati da un Russell Crowe molto in carne e da un Ryan Gosling sorprendente e dal simpatico, fascinoso carisma, come consuetudine, atipico, entrambi, per la prima volta faccia a faccia, anzi, da classica strana coppia, uno a fianco dell’altro in un film. Tutti e due, peraltro, in uno dei loro primissimi ruoli anomali. Sì, perché in questa bislacca e rutilante vicenda torbida altamente investigativa ed affascinante, in questa losca storia da giallo quasi hitchcockiano, specialmente “colorato” (splendida fotografia di Philippe Rousselot), soprattutto mascherato da commedia leggera, si disimpegnano istrionicamente, vicendevolmente e contemporaneamente, alternando una recitazione briosa e svagata a un modus attoriale da Philip Marlowe à la Humphrey Bogart, seppur con le dovute differenze e aggiornamenti in senso tout–court. The Nice Guys ricalca dichiaratamente le atmosfere, perfino sensualmente evocative, d’un thrilling con sotto-testo scabroso, reinventato da L.A. Confidential (non a caso, la presenza di Kim Basinger in un ruolo chiave, antitetico rispetto alla sua prostituta Lynn Bracken del film di Curtis Hanson per cui fu oscarizzata). Cosicché Crowe, riprendendo in forma ante litteram, il suo character Bud White, ivi ne diviene una prosecuzione ideale e fantasiosa in geniale variazione tematica. È altrettanto manesco, burbero ma di buon cuore. Mentre Gosling, perfettamente calzante per la parte assegnatagli, è un private eye molto sui generis che anticipa il suo mr. K di Blade Runner 2049. L’ottima media recensoria, riscontrata sul sito aggregatore metacritic.com, equivalente esattamente al 70% molto lusinghiero di critiche favorevoli, a nostro avviso, è perfino scarsa. In quanto, The Nice Guys è un capolavoro. Dura, per l’esattezza, un’ora e cinquantasei minuti, praticamente 2h ma avvince, diverte e non annoia mai. Ci presenta una Margaret Qualley pre-C’era una volta… a Hollywood e soprattutto un’Angourie Rice eccelsa. Però, sottolineiamo questo, inderogabilmente. Crowe e Gosling sono due pezzi da novanta. In particolar modo, ci tengo qui ad evidenziare che chiunque sostenga che Gosling sia soltanto un biondino belloccio e insulso, è forse lo stesso demente, chissà chi, eh eh, che inizialmente considerò Kevin Costner e Leo DiCaprio alla stessa maniera. Reputandoli, giustappunto, solamente dei posaceneri…
di Stefano Falotico
IL GIORNO SBAGLIATO (Unhinged), recensione
Ebbene, suggestionato dalla visione del pastrocchio L’esorcista del papa, ancora però subendo la fascinazione del mastodontico, oramai in ogni senso, suo interprete principale, ovverosia Russell Crowe, un Gladiatore appesantito oltremisura eppur non intaccato nel suo inviolato carisma assai corposo e massiccio, su Netflix, vidi qualche ora or sono tal film in questione, nelle prossime righe, per l’appunto, brevemente disaminatovi nella mia concisa ma spero brillante recensione tipicamente à la Falotico.
Unhinged, questo il titolo originale di tale insolito ma irrisolto, forse irrisorio opus di Derrick Borte. Riscontrante un veicolo, no, la giusta ma certamente non lodevole media recensoria dell’insufficiente 40% di critiche “positive” su metacritic.com, Il giorno sbagliato dura poco ma è un gioco da duri. Film on the road, no, a metà strada fra Duel di Spielberg & Un giorno di ordinaria follia di Joel Schumacher, è peggiore di entrambi i modelli indubbiamente ispiratori ma intrattiene, a tratti, volentieri. Sgasando, abbondando di violenza gratuita, esagerando a tutta birra e tutto spiano e con un Crowe eccessivo che spinge sul pedale dell’acceleratore dell’overacting però godibile.
Appioppandovi, sottostante, la fin troppo esaustiva trama riportataci da Wikipedia.
Coi dovuti accorgimenti, no, precisissimi rimaneggiamenti del sottoscritto che apporta l’apostrofo al carattere Garamond: «New Orleans, USA: Tom Cooper, armato di martello e tanica di benzina, fa irruzione nella casa dove vivono la sua ex moglie e il suo nuovo compagno; dopo averli brutalmente uccisi e aver incendiato l’abitazione, si allontana a bordo del suo pick-up. Qualche ora dopo, Rachel Hunter, giovane donna in procinto di separarsi dal marito, esce per accompagnare il figlio Kyle a scuola. I due rimangono imbottigliati nel traffico e Rachel, a un incrocio, suona il clacson a un pick-up che rimane fermo al semaforo verde; il guidatore è proprio Cooper che, infuriato, la minaccia promettendo vendetta. Nel corso della giornata, l’uomo inizia a perseguitare la donna e i suoi affetti: infatti, ferisce gravemente il fratello e uccide la cognata e il migliore amico di Rachel. Inoltre, rimane costantemente in contatto telefonico con lei, minacciandola e mettendola di fronte alla sua furia omicida. La donna e il figlio si rifugiano nella vecchia casa della madre, dove riescono infine a uccidere l’uomo prima che questi strangoli Kyle».
Sceneggiato da Carl Ellsworth, writer di Disturbia, non a caso, questo è un The Hitcher peculiare e ante litteram, decisamente sui generis che incrocia, lungo la tangenziale, fra i dedali meta-cinematografici, perfino Henry di John McNaughton, e non poche volte sbanda nel surreale svolgimento pazzesco dell’intreccio automobilistico, no, narratoci. Caren Pistorius, la quale incarna Rachel Hunter, da non confondere con l’ex modella omonima e fidanzata di Rod Stewart e Robbie Williams, non è figa come l’appena suddetta mannequin del c… zo e non possiede un fisico da annuari e affini calendari Swimsuit. Al contempo, mostra una buona silhouette passabile ed è carina, sebbene impacciata, anche nella recitazione, poco convincente e sofferta all’inizio. Verso l’ultima mezz’ora, immantinente ci appare appieno perfetta.
Crowe, mai così grasso, forse apposta, sembra aver assunto non solo chili a iosa, bensì notevoli dosi di neurolettici che, come probabilmente sap(r)ete, bloccano il metabolismo, oltre naturalmente a frenare a livello ormonale la libido, perciò sembra che da un momento all’altro possa esplodere, non solo di rabbia. E dire che, se avesse assunto degli psicofarmaci più pesanti di lui, non potrebbe guidare il suo fuoristrada alla pari di Joel Schumacher succitato, no, Michael Schumacher prima che quest’ultimo diventasse inabile non solo alla guida.
Kyle/Gabriel Bateman è simpatico quanto Rod Stewart, quindi molto antipatico, mentre Jimmi Simpson è più tonto del suo personaggio nella prima stagione di Westworld. Fred/Austin P. McKenzie interpreta qui il fratello di Rachel/Pistorius, dunque è lo zio di Kyle. Mah, sembra il figlio di Rachel e il fratello leggermente maggiore di Kyle. Ed è uno stronzo che forse avrebbe meritato di non salvarsi.
Il film poco si salva. È una sarabanda di colpi di scena guidati, anzi, telecomandati, con un Crowe che, fra un pistone e l’altro, fra i tonitruanti rumori di fondo delle sgommate, deve aver scoreggiato molte volte ma i tecnici del sonoro eliminarono i peti, meno disturbanti di tale vaccata senza gusto.
Insomma, Il giorno sbagliato è un’indigesta Pubblicità Progresso di 90 min. che lancia questo messaggio educativo: non clacsonate mai al semaforo, potreste aver davanti a voi il vostro incubo peggiore e un panzone psicopatico che mangia troppe polpette.
di Stefano Falotico
EXTREME MEASURES – Soluzioni estreme, recensione
Ebbene, oggi recensiremo il sottovalutato, assolutamente da riscoprire, rispolverare e dunque da rivalutare seduta stante, Extreme Measures – Soluzioni estreme, firmato dal compianto e valente Michael Apted, regista, ahinoi, dimenticato, forse non eccelso, certamente, in vita definito, sbrigativamente, soltanto un bravo mestierante, invero capace di girare film di genere nient’affatto trascurabili, anzi, compattamente robusti e spesso perfino pregiati, quali, per esempio, Gorilla nella nebbia e Conflitto di classe con Gene Hackman. Quest’ultimo, peraltro, tornò per l’occasione, giustappunto per il titolo da noi preso in questione, nelle prossime righe disaminato, a lavorare con Apted, recitando assieme ad Hugh Grant. A sua volta, patrocinatore di quest’opus, prodotto da Elizabeth Hurley, all’epoca compagna storica dell’appena succitato protagonista di Quattro matrimoni e un funerale. Il quale, come giustamente osservò Morandini nel suo Dizionario dei film, qui assurse e fu elevato al rango di star in seguito all’inaspettato successone dell’appena sopra citatovi film di Mike Newell (Donnie Brasco). Approdando, in pompa magna, ad Hollywood. Morandini che, però, peccò di grave imprecisione, accreditandolo erroneamente fra i produttori mentre, come invece affermato e puntualizzato giustamente da noi, di Extreme Measures – Soluzioni estreme fu producer soltanto la bellissima Liz. Che Morandini accreditò, di nuovo in maniera scorretta, nel cast, quando invece, in tal pellicola, non compare neppure un istante. Tralasciando questa necessaria precisazione, entriamo più vivamente nei dettagli e immergiamocene criticamente… Extreme Measures – Soluzioni estreme è sceneggiato dal regista (Michael Clayton) e writer di spicco, Tony Gilroy, tra i preferiti di Taylor Hackford, per cui scrisse L’ultima eclissi, L’avvocato del diavolo e Rapimento e riscatto, particolarmente celebre per aver allestito gli script del franchise The Bourne… con Matt Damon. Dirigendo, ovviamente ancor sceneggiando lui stesso, il capitolo The Bourne Legacy con Jeremy Renner.
Trama, sintetizzatavi molto per evitarvi spoiler superflui: A New York, l’ambizioso, volenteroso, volitivo e idealista dottor Guy Luthan (Hugh Grant), assiste impotentemente alla spaventosa morte di un uomo, malgrado i suoi tenaci sforzi per salvarlo, avvenuta sotto i suoi occhi incolpevoli e straziati. Si trattava d’un paziente giunto d’urgenza al pronto soccorso in cui lavora Guy, colto da inspiegabili ed anomali spasmi e contrazioni lancinanti. Di tal evento, Guy rimane comprensibilmente scioccato e tenta perciò disperatamente ed umanamente d’indagare in merito a tale stupefacente, agghiacciante evento tanto macabro e raggelante quanto scientificamente, ripetiamo, a prima vista, irrazionale. Dapprima, ingenuamente prova a consultarsi coi suoi superiori, dunque, pian piano e in modo angoscioso, entra sempre più terribilmente a contatto con una realtà spettrale da mettere i brividi. Qualcheduno, ai piani alti e gerarchici del più sinistro e insospettato ordine medico nascosto al buio, sta segretamente compiendo brutali aberrazioni e cinici esperimenti da laboratorio, utilizzando innocenti cavie, per l’appunto, umane. L’apparentemente irreprensibile Dr. Lawrence Myrick (un Gene Hackman, al solito, eccellente, mellifluo, viscido e serpentesco) n’è uno dei principali responsabili e tremendo congegnatore e sta celando ed insabbiando la verità più mostruosa? Ed è per di più disposto a tutto, anche ad eliminare l’oculare testimone scomodo che, giustappunto, risponde al nome del temerario e inarrendevole Luthan?
Fotografato distintamente da John Bailey, musicato con stile da Danny Elfman, Extreme Measures – Soluzioni estreme dura esattamente un’ora e cinquantotto minuti netti e, dopo un incerto e farraginoso incipit con poco ritmo e non incalzante, dalla sua parte centrale in poi, diviene pienamente appassionante, pur rimanendo nell’ambito della pura e forse prevedibile convenzionalità tipicamente a stelle e strisce e americana in toto. Distinguendosi per l’accorta ed elegante regia di Apted e diventando assai intrigante e visivamente affascinante quando l’azione si sposta nel tetro sottobosco d’una Big Apple mortifera, abitata da fantasmatici, inquietanti barboni e impressionanti uomini di strada paurosi e terrorizzanti.
Nel ricco parterre, una brava Sarah Jessica Parker, David Morse, J.K. Simmons, Paul Guilfoyle, Bill Nunn, Debra Monk e perfino il grande David Cronenberg in un cammeo di classe.
di Stefano Falotico
MARLOWE – Omicidio a Poodle Springs, recensione
Un bel Marlowe, attempato e quasi del tutto pelato, interpretato con allure dal filibustiere e lupo di mare Caan. Con la bellissima Meyer, attrice scomparsa. Su tale missing, investigherà Hercule Poirot? Ah ah.
Ebbene, oggi, ivi svincolato da canoni editoriali e da “dittatoriali” regole SEO, recensirò a mo(n)do mio tale opus, ovvero il lungometraggio per la tv, il film della HBO, distribuito nel ‘98, succitato nel titolo e col sottotitolo enunciatovi. Marlowe, private eye, cioè investigatore privato, creato e partorito dalla poliedrica e fantasiosa mente noir di Raymond Chandler, celeberrimo detective che sarà ampiamente citato nel mio imminente libro Il commissario Falò 2, alias il sequel del capostipite, è stato interpretato, ça va sans dire, da una miriade d’attori dei più disparati e più o meno famosi e mi pare pleonastico star qui a citarveli uno per uno, sì, singolarmente e pedantemente. Recatevi perciò qui e informatevene dettagliatamente, per modo di dire. https://it.wikipedia.org/wiki/Philip_Marlowe
Wikipedia è una fonte attendibile? Più che altro sbrigativamente dizionaristica, dunque generalista, ovviamente, è risaputo internazionalmente. Prossimamente, assisteremo allo stroncato, perlomeno dall’intellighenzia critica d’oltreoceano, Marlowe di Neil Jordan con Liam Neeson. L’unica pellicola col cognome di Philip e basta. Diretto dal compianto Bob Rafelson (Cinque pezzi facili), tale Marlowe preso in questione, “filmetto” anomalo e d’impianto, giustappunto, da format per il piccolo schermo a mo’, quasi, di episodio dilatato da fiction di matrice investigativa, pare una puntata del tenente Colombo? No, e vi è il grande James Caan. Ora, grande è una parola grossa. Spesso bravissimo, soprattutto, soventemente habitué della mansion di Marilyn Manson? No, di Hugh Hefner, sì, un vero Playboy del c… zo! Usando un francesismo, in senso metaforico, eh eh, un tombeur de femmes più figlio di puttana del suo celebre Sonny di The Godfather. James Caan, una “face” da culo come porco, no, come poche per tante porche. Pare che avesse anche una gran oca. E, dopo essere stato con bellissime donne, dopo amplessi ficcanti e piccanti, con codeste intrattenitrici, eh, consumati in maniera caliente, dopo la consueta sigaretta post-orgasmi più o meno appaganti, cantava loro tante canzoni romantiche e/o agrodolci in Karaoke, ubriaco fradicio con tanto di bourbon, in mezzo a innumerevoli bone. A parte questa parentesi goliardica e porcellesca, inventata sin ad un certo punto, arriviamo, cari uomini à la Caan, no, cani o forse volponi, insomma, men lupeschi, a Dina Meyer, enorme figone, no, alla trama di questo filmone? No, abbiamo detto, è un film per la tv via cavo e non è un granché? Macché, bello parecchio, diciamo, più correttamente, unico e speciale. Osé, no, oso dire, assai godibile quasi quanto il lato b di Dina. In una scena espostoci da dietro. Per forza, il didietro va mostrato davanti? Che gnocca… ma non vediamo la sua pussy. In originale, intitolato solamente Poodle Springs, qui tal teleplay, sì, la sceneggiatura per la televisione, è firmata dal valente Tom Stoppard (Brazil, Shakespeare in Love, Rosencrantz e Guilderstein sono morti, Anna Karenina, ah, però), che adattò il romanzo omonimo, scritto naturalmente da Chandler, stavolta in collaborazione “anomala” con Robert B. Parker, prodotto, fra gli altri, da Sydney Pollack e Jon Avnet (executive producers), musicato da Michael Small ed elegantemente fotografato da Stuart Dryburgh, eccone la trama, in english, riportatavi testualmente da IMDb: An aging Phillip Marlowe gets mixed up with blackmail and murder amongst the elite social set in 1963.
Be’, detta così, non potete capirne la vicenda, nevvero? Sapete solo la data della sua ambientazione? Abbiate quindi un infallibile intuito alla Marlowe, sforzatevi, forse capirete che, all’epoca, David Keith, qui nei panni di Larry Victor (identità peraltro fittizia), era carino e “sexy”, cazzuto come Caan in Rollerball. Il quale, negli anni settanta, fra un mettere a novanta una pattinatrice sensuale alla pari di Katarina Witt, non solo di Ronin, e moltissime playmates, nascondeva molti suoi flirt ma nessuno scheletro nell’armadio. Un Marlowe, il suo, qui sposato ma Caan portò mai una donna all’altare, malgrado i suoi scabrosi altarini? Di contraltare, no, d’altronde, questo sito mente spudoratamente. In fallo, no, infatti, nessuno crede alla balla secondo cui Caan ebbe solo sei rapporti sessuali? No, ufficiali: https://www.whosdatedwho.com/dating/james-caan Un vero culo, no, cult movie. Una chicca, mie checche, checché se ne dica. Un Rafelson coi coglioni, un bijou. Vi do or un bacio e fumo, alla maniera di Marlowe, una Camel? No, una Philip Morris. Nel cast, Brian Cox (Manhunter, Zodiac) e Joe Don Baker che, in Cape Fear – Il promontorio della paura, fu già un “Marlowe” sui generis.
di Stefano Falotico
THE LAST KINGDOM: Sette Re devono morire, recensione
Ebbene, oggi recensiamo l’apprezzabile, sebbene non eccezionale, altresì meritevole di visione, da noi seguentemente disaminato, The Last Kingdom: Sette Re devono morire (The Last Kingdom: Seven Kings Must Die), film targato Netflix, distribuito, come sovente avviene, su tale piattaforma di streaming, oramai la più proficua e famosa al mondo, in contemporanea mondiale a partire dallo scorso 14 Aprile.
The Last Kingdom: Sette Re devono morire è un opus della corposa durata di un’ora e cinquantuno minuti netti, firmato da Edward Bazalgette. Il quale, dopo averne diretto la serie omonima, eccezion fatta per il sottotitolo, a sua volta tratta da una stimata serie di romanzi raccolti nella silloge intitolata La storia dei re sassoni, concepita e partorita dalla fervida e fantasiosa mente onirica e creativa del valente Bernard Cornwell, per l’occasione, ne generò un film figlio, potremmo dire, d’una sua costola.
Discretamente accolto dalla Critica statunitense, perlomeno basandoci sulla percentuale attestata dal sito aggregatore di medie recensorie, metacritic.com, esattamente equivalente al 45% di opinioni favorevoli, The Last Kingdom: Sette Re devono morire, interamente sceneggiato da Martha Hillier, ispiratasi giustappunto ai personaggi inventati dalla penna del succitato e assai stimato Cornwell, cioè nientepopodimeno che colei che adattò i singoli script di tutti gli episodi della serie tv sopra menzionatavi, è, naturalmente, sempre parimenti, però stavolta in versione prettamente filmica in termini di lungometraggio, una storia ambientata nel Medioevo di matrice assai vagamente fantasy e addirittura biblico-cristologica. Che ne riprende, in particolar modo, il protagonista principale, ovvero Uthred.
Di cui, sottostante, brevissimamente ma esaustivamente, riporteremo la trama, anzi, vi riporteremo testualmente la sinossi espressa su IMDb, senza dunque rivelarvi molto e soprattutto senza compiere alcuno spoiler:
Sulla scia della morte di re Edoardo, Uhtred di Bebbanburg e i suoi compagni si avventurano in un regno fratturato nella speranza di unire finalmente l’Inghilterra.
Rude, sanguinario, visivamente eccellente in molti punti, in virtù della nitida fotografia di Luke Bryant che ottimamente, nel suo adamantino gioco di luci fascinoso, si destreggia fra crepuscolari scure scene notturne e riprese panoramiche grandangolari, recitato impeccabilmente da tutto il variegato, interminabile cast notevole, su cui spiccano le presenze corpose, massicce e fotogeniche di Mark Rowley (Finan), Harry Gilby (Aethelstan), Laurie Davidson (Ingilmundr), Ewan Horrowks (Aelfweard), Jacob Dudman (Osbert), Agnes Born (Astrid), Pekka Strang (Anlaf), Ingrid García-Jonsson (Brand), Zak Sutcliffe (Edmund), Elaine Cassidy (la regina Eadgifu), Cavan Klerkin (Pyrlig), James Northcote (Aldhelm) e specialmente di Alexander Dreymon (Uthred), The Last Kingdom: Sette Re devono morire, malgrado la sua lentezza, a tratti soporifera ed eccessiva, si lascia vedere volentieri e, in alcuni punti, forse però troppo pochi, profuma di epicità folgorante e autentica. Specialmente nell’ultima mezz’ora, sfoderandoci una scena di battaglia che, memore del fastoso, sebbene retorico Braveheart, avvince grandemente.
Malgrado la magniloquenza estetica e la cura formale, le musiche del trio formato da Danny Saul, John Lunn & Eivør Pálsdóttir sono pompose ma poco emozionanti, enfatizzanti in modo non necessario, perfino poco funzionali e spesso mal sincronizzate alle immagini. Inoltre, nonostante l’impegno lodevole, come detto dei bravi attori coinvoltine, la pellicola non ci presenta nulla di nuovo e ripropone stancamente la formula, oramai troppo abusata, ahinoi inflazionata e non più di moda, del film storico-drammatico a tinte, potremmo dire, pesantemente medioevalistiche. Camminando, cinematograficamente parlando, a passo lento e poco emotivamente coinvolgente.
Da raffrontare, sebbene assai divergente nell’intreccio e nei suoi sviluppi, col sopravvalutato The Northman di Robert Eggers. Anche qui si fa chiaro riferimento, specie nel finale, al mito del Valhalla.
di Stefano Falotico
WONDER BOYS, recensione
Ebbene, oggi per i nostri Racconti di Cinema, salteremo indietro nel tempo, approdando mnemonicamente e, in modo recensorio, all’anno duemila nel quale uscì il film da noi, nelle prossime righe, disaminato, ovvero l’intrigante e suggestivo Wonder Boys, opus targato e firmato dal compianto, altalenante eppur sempre interessante Curtis Hanson. Che, dopo una serie di pellicole probabilmente irrisolte, financo mediocri, quali per esempio La mano sulla culla e Un week end da leone, da non confondere col quasi similare nella dicitura, decisamente più famoso e superiore, Un mercoledì da leoni di John Milius, cominciò improvvisamente e vertiginosamente a distinguersi notevolmente, infilando e indovinando tutta una serie di film qualitativamente apprezzabili, peraltro spaziando, con forte e distinta personalità e versatilità rilevante, in svariati generi, significativamente diversificandosi e spaziando mirabilmente da The River Wild – Il fiume della paura al notevole L.A. Confidential, realizzando giustappunto tal bello Wonder Boys e poi girando il nient’affatto disdicevole 8 Mile con Eminem.
Wonder Boys è un film drammatico dalle leggiadre e godibili tonalità crepuscolari, melanconiche e morbidamente avvolgenti, sapidamente mescolante toni da commedia brillante, assai scanzonata e gustosa, a parentesi più seriose e riflessive, della durata corposa di circa 2h nette, interamente sceneggiato da Steve Kloves (In gara con la luna e writer di tutto il franchise di Harry Potter a partire dalla pietra filosofale…) che, per l’occasione, adattò un importante romanzo omonimo di Michael Chabon. Per tale suo adattamento, ricevette la nomination agli Academy Awards per la categoria best adapted screenplay, ovverosia per la miglior sceneggiatura, per l’appunto, non originale. Accolto favorevolmente dall’intellighenzia critica statunitense, tanto da riscontrare a tutt’oggi una lusinghiera media, su metacritic.com, equivalente al 73% di pareri positivi, eccone la trama:
Un professore di scrittura creativa, di nome Grady Tripp (un Michael Douglas compiaciutamente abbruttitosi che ivi pare più attempato di come, invero, lo fosse all’epoca), parzialmente disilluso, il cui unico romanzo, intitolato La figlia dell’incendiario, riscosse larghi plausi però oramai lontani, vive di rendita sul suo carisma e fascino da intellettuale pittoresco, quasi grottesco e tenero, e trascorrerà una settimana infuocata, burrascosa e sia professionalmente che sentimentalmente complicata. È stato, infatti, appena lasciato da sua moglie, deve vedersela col suo editor gay Terry (Robert Downey Jr.), ha ricevuto la notizia esaltante, altresì preoccupante, che la sua amante e rettore Sara (Frances McDormand) aspetta un figlio da lui, si trova costretto a gestire un cane morto ammazzato di proprietà del marito di quest’ultima, per di più deve gestire il “talento” peculiare, in senso tout–court, del suo miglior allievo tanto promettente quanto problematico grandemente, James Leer (un ottimo Tobey Maguire). Come se non bastasse, l’avvenente ma troppo giovane sua pupilla Hannah Green (Katie Holmes) ha un debole per lui e non fa nulla per nasconderlo in modo imbarazzante, attratta com’è da un uomo tanto più vecchio di lei quanto superiormente e irresistibilmente affascinante. Come andrà a finire in questo piacevole gioco di schermaglie amorose, battibecchi scoppiettanti e una miriade di personaggi stralunati e non poco caratterialmente difficili?
Premiato con l’Oscar per la migliore canzone originale Things Have Changed, composta e consuetamente cantata dal Nobel Bob Dylan, egregiamente fotografato dal nostrano mago delle luci Dante Spinotti, ex habitué di Michael Mann e già cinematographer per Hanson del succitato L.A. Confidential, Wonder Boys non è un film perfetto, anzi, tutt’altro. Forse, il suo minutaggio è eccessivo, andava quindi un po’ scorciato e la sua narrazione disomogenea appare, a lungo andare, scocciante, perdonateci per il voluto gioco di parole, rivelandosi sovente scollata e, a tratti, perfino scontata, alcune battute, inoltre, non vanno a segno a dovere e non sono appieno graffianti.
Ciononostante, trasuda di pura autenticità genuina e l’atmosfera che se ne respira è quella del buon, hollywoodiano Cinema classico, elegante ma non pretenzioso, autoriale ma non artistoide nel senso spregiativo della parola.
Gli attori sono in gran forma e Michael Douglas, pur recitando en souplesse e con la sordina, non usa il cosiddetto attoriale pilota automatico, bensì, con impari classe e superbo mestiere da interprete navigato, cesella e caratterizza il suo personaggio con istrionica bravura ineccepibile, infondendone, comme d’habitude, carismatica allure che vale, eccome, il prezzo del biglietto.
Wonder Boys, però, al di là del suo parterre e del suo cast eterogeneo e affiatato, al di là della stupenda cura formale dei dettagli, indubbiamente pregiata e, ripetiamo, in molti punti spesso addirittura magnifica, disperde molto del suo iniziale potenziale, smarrendosi lungo il suo filmico viaggio e ammosciandosi in un finale veramente troppo buonista e dolciastro.
Peccato, rimane un signor film ma poteva essere molto, molto di più.
Piccola nota finale: Frances McDormand, tanto grandiosa ed oscarizzata quanto scambiata per una bruttina, per non dire bruttona, qui in molte scene, invece, pare figa da morire. E i suoi occhi sono magnetici.
Scusatemi per tale faloticata in The End ma vi devo dire la verità. Comprendo quindi perché il personaggio di Douglas ne sia innamorato. Anche io, a vederla qui, me la sarei scopata.
D’altronde, il character della Holmes dice a Douglas che un grande scrittore, citando a sua volta l’insegnamento da lui impartitole, deve compiere delle scelte. Perciò, deve tagliare il superfluo e accorciare le parti troppo descrittive e i momenti esageratamente ridondanti e digressivi.
Ecco, il Falotico, cioè l’author di quest’articolo, è, che vi piaccia o meno, uno scrittore, anche recensore.
E avrebbe dovuto probabilmente “censurare” le ultime righe riguardanti le fighe, no, solo questa figa, la bellezza e il sex appeal insospettabili della McDormand.
Ma, in tal ca… o, non tagliamo un caz… o.
Francamente, nella scena in cui Douglas è a terra e la McDormand, in minigonna nera e calze nere, per aiutarlo ad alzarsi, si china, mi è diventato duro come un nero.
di Stefano Falotico