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AUDITION, recensione

Audition poster

Ebbene oggi, in concomitanza con la sua distribuzione in versione restaurata che sarà riprogrammata nelle sale italiane nelle giornate del 23-24-25 Gennaio tramite Wanted, disamineremo il cult movie Audition (Ōdishon), opus del ‘99 firmato da Takashi Miike che fu presentato con forte clamore e fra l’agghiacciato stupore generale all’International Film Festival di Rotterdam. Ove, giustappunto, in virtù delle sue macabre e assai violente scene raccapriccianti ad alto tasso perturbante, terrorizzò e scioccò la platea ivi presente, suscitandovi reazioni inusitate delle più disparate. Audition divenne quasi istantaneamente una pellicola tanto venerata dai cultori del più sperimentale e trasgressivo horror moderno quanto disgustata, malvista e boicottata dai benpensanti più moralisti, inorriditi dinanzi alla sua scabrosità orrifica a lor avviso inaccettabile e oltremisura mostruosa sotto ogni punto di vista. Tratto dal romanzo omonimo ad opera d Ryū Murakami, Audition dura centoquindici minuti ed è stato sceneggiato da Daisuke Tengan.

Lodato da Quentin Tarantino e a tutt’oggi riscontrante una lusinghiera media recensoria di opinioni estremamente positive sul sito aggregatore metacritic.com, eccone la trama:

Ishibashi AuditionEihi Shiina Audition

Il signor Shigeharu Aoyama (Ryō Ishibashi, eccezionale) è rimasto vedovo da sette anni in seguito alla tragica morte della moglie, deceduta prematuramente. Vive con suo figlio Shigehiko (Tetsu Sawaki), il quale, vedendolo depresso e invecchiato, soprattutto nell’animo, gli consiglia di cercarsi una nuova compagna ed eventualmente risposarsi. Shigeharu vi riflette profondamente, dunque accetta di buon grado l’affettuoso suggerimento propostogli dal sangue del suo sangue. Al che, in un bar, l’uomo discute in merito con un suo amico, un valente e fidato produttore di cinema, Yasuhisa Yoshikawa (Jun Kunimura). Che, a sua volta, gli propone di selezionare trenta ragazze per una finta audizione riguardante un fantomatico, più che altro inesistente, progetto. Realizzata l’accurata selezione e visionato il materiale dei vari curriculum offertigli dall’amico appena dettovi, Shigeharu resta immediatamente folgorato dalla sensibile e avvenente, sebbene misteriosa, ex ballerina Asami Yamazaki (Eihi Shiina). Terminato il provino, ivi ancor più da lei rimastone ipnotizzato, l’uomo chiede d’incontrare quest’ultima, segretamente. Che cosa accadrà?

Non vi sveliamo, giustamente, altro se siete fra coloro che non hanno mai visto Audition. In quanto vi rovineremmo le sorprese scioccanti, rivelandovi giustappunto il seguito della trama e conseguentemente gli improvvisi risvolti spiazzanti e robustissimamente inquietanti mostratici e contenutivi. Devastante, vietato ai minori di diciott’anni, morboso ai massimi livelli più primordiali, forse leggermente sopravvalutato o sanamente incensato, anzi, addirittura inspiegabilmente misconosciuto a prescindere dai suoi cultori e dai fanatici di Miike, Audition va (ri)visto, lo affermiamo testé in modo imperioso. Poiché non ce ne si può esimere se si ama il Cinema a 360°. Dunque, si deve vedere, malgrado non sia obbligatorio, chiariamoci, amarlo e/o salirne a bordo oppure accettarlo e apprezzarlo o meno. È infatti necessario conoscerlo anche se qualcuno, a torto, secondo, potrebbe il suo valore disconoscere. Riteniamo basilare, rimarchiamo, guardare anche ciò che può raggelare e scuotere in maniera viscerale, ciò che non lascia indubbiamente impassibili. Un Cinema che può risultare rivoltante oppure eccitante, stimolante, un Cinema elettrizzante, un Cinema da pelle d’oca, un Cinema essenziale nella sua adamantina onestà persino volutamente esagerata e “malvagia”. Un cinema eccessivo e anormale, amorale, un Cinema inconsueto e tremendo, un Cinema purissimo. Fotografato meravigliosamente da Hideo Yamamoto (Hana-bi di Takeshi Kitano) e musicato altrettanto superbamente da Kôji Endô, Audition è un film immancabile per i patiti raffinati dei thriller psicologi. Inizia e prosegue per circa un’ora come un incalzante e struggente melò sentimentale con momenti romantici finissimi, ripieni di soffici frangenti melanconici grandemente poetici, in crescendo divenendo un incubo ad occhi aperti che sadicamente e al contempo soavemente abbaglia e incanta, atterrisce e il nostro cuore trafigge. Ciò a cui abbiamo assistito, attraverso repentini e inaspettati flashback vorticosi e taglienti le nostre certezze, nell’esplodere radente d’un uso massiccio e sconfinato della violenza, è soltanto la tetra e sconvolgente visualizzazione d’un terribile sogno ermetico che rimane impresso e indelebile anche alla fine della sua seducente, indimenticabile visione allucinante e immensamente potente?Audition Takashi Miike

di Stefano Falotico

 

THE PALE BLUE EYE – I delitti di West Point, recensione

Ebbene, oggi recensiamo l’affascinante e secondo noi soddisfacente, sebbene non eccellente, così come esplicheremo nelle righe a venire, The Pale Blue Eye, “sottotitolato” I delitti di West Point, opus di matrice mystery thriller firmato da Scott Cooper (Crazy Heart, Black Mass). Il quale, per l’occasione, adattando e sceneggiando lui stesso il romanzo omonimo di Louis Bayard, ritrova ivi uno dei suoi attori preferiti con cui è in massima sintonia e perfetto affiatamento artistico, ovvero Christian Bale. Che, a sua volta, per tale nuova reunion di The Pale Blue Eye, cementa il suo rapporto professionale, proficuo e altamente apprezzato, dopo i ben accolti Il fuoco della vendetta – Out of the Furnace & Hostiles – Ostili, col valente regista appena sopra nominatovi. Dimostrandosi pienamente e nuovamente uno degli interpreti più versatili e sorprendenti del panorama mondiale, regalandoci infatti, in The Pale Blue Eye, una performance di pregiata scuola recitativa davvero impari e di classe. Ma procediamo con calma, partendo innanzitutto dalla trama, successivamente eviscereremo meglio, esegeticamente, il film in questione e la prova attoriale di Bale, aggiungendovi maggiori dettagli…Christian Bale Timothy Spall Melling Pale Blue Eye

La vicenda è ambientata nel 1830. Il misterioso e fascinoso detective Augustus Landor (Bale), sebbene disilluso e leggermente affaticato, investiga in maniera ferrea e integerrima a riguardo d’alcuni crimini commessi in quel dell’accademia militare di West Point. Impattando però amaramente contro il muro d’omertà e la silente connivenza ipocrita di chi, per non compromettersi, peraltro nascondendo i propri stessi scheletri nell’armadio, in forma viscida e ipocrita, preferisce tacere in merito alle segrete e torbide verità indicibili e raccapriccianti accadute nel luogo e nei suoi tetri dintorni oscuri. Al che, Landor s’affilia a uno dei suoi cadetti al fine che quest’ultimo possa fornirgli quegli intuitivi aiuti necessari per la risoluzione del caso macabro. Riuscirà a portare a compimento le sue perigliose indagini? Il cadetto non è uno qualunque, bensì nientepopodimeno che il futuro scrittore Edgar Allan Poe (il solito bravissimo ma al contempo inquietante Harry Melling, però a volte non ben diretto e quindi sopra le righe ed eccessivamente melodrammatico, a differenza della sua impeccabile prova in Macbeth).

Mediamente accolto dall’intellighenzia critica, soprattutto statunitense, forse un po’ sottovalutato ingiustificatamente e in modo troppo sbrigativo, The Pale Blue Eye è invero un ottimo giallo sui generis dai molteplici pregi, decisamente intrigante, volutamente demodé, oltre che finemente filmato e, ripetiamo, sostenuto da un Bale che vi recita magnificamente. Bilanciando assai bene il suo istrionismo a una lodevole sordina da attore che, en souplesse, magnetizza ogni inquadratura con lui presente in maniera armonicamente carismatica e talentuosa. Recitando quasi unicamente con lo sguardo, doppiato per la versione italiana dal suo habitué consolidato, cioè Adriano Giannini. La cui voce, roca, sottilmente cavernosa e secca ivi particolarmente gli si addice e naturalmente ci evoca immediatamente il “suo” Rust Cohle/Matthew McConaughey di True Detective. Forse non inappuntabile, qua e là persino soporifero e macchinoso, ingarbugliato nell’intreccio e a tratti irrisolto, con un finale affrettato e sensazionalistico che, seppur dai risvolti inquietanti e ribaltante sorprendentemente, all’ultimo minuto, le aspettative (perlomeno per chi non ha letto il libro originario e succitato), si rivela poco convincente e affastellato alla bell’è meglio,  The Pale Blue Eye s’avvale d’una splendida fotografia chiaroscurale realizzata da Masanobu Takayanagi (The Grey) e viene sorretto e puntellato da una suadente e melliflua partitura musicale di Howard Shore (Panic Room, Crimes of the Future). Inoltre, al di là dei perdonabili difetti enunciativi, appassiona e tiene col fiato sospeso, avvinghiandoci elegantemente nelle sue atmosfere di morte e terrore, aspirandoci nella sua morbosa spirale d’occulto, violenza e morale perdizione. Come però evidenziato, The Pale Blue Eye, trascurando la sua adamantina impeccabilità formale, risulta artefatto e non colpisce sin in fondo, incedendo eccessivamente in pedanti digressioni noiose e in parentesi estetizzanti poco emozionanti. Cast ricchissimo in cui, oltre ai primeggianti Bale e Melling, son d’annoverare le presenze di Toby Jones, Charlotte Gainsbourg, Gillian Anderson, della sensuale Lucy Boynton, di Timothy Spall e del grande Robert Duvall.Pale Blue Eye Lucy Boynton Robert Duvall delitti West Point

di Stefano Falotico

 

TULSA KING, recensione

Ebbene, oggi recensiremo Tulsa King, serie tv che è approdata, in streaming, su Paramount +, e ha debuttato con un record di spettatori e cifre, diciamo, di visualizzazioni sensazionali, superando le ben più rosee aspettative. N’è assoluto protagonista un Sylvester Stallone in grande spolvero che ivi trova un ruolo cucitogli su misura alla perfezione e che gli è, in effetti, congeniale. Sly ne calza, come si suol dire, a pennello e, in tale sorprendente, dinamico e scattante Tulsa King, egregiamente doppiato qui da noi da Massimo Corvo, alla veneranda età di settantasei primavere abbondanti, malgrado una sua fisicità inevitabilmente un po’ appesantita e alcune opinabili sue movenze statiche, riesce, ripetiamo, a farsi carico di questa bella e scorrevolissima serie televisiva di pregio, divertente e ricolma peraltro di scene d’azione da leccarsi i baffi.Lombardozzi Stallone Tulsa King Stallone Sly Tulsa King Stallone Tulsa King

Tulsa King, constante di dieci episodi della durata cadauno di quarantacinque minuti circa, è frutto della fervida mente irrefrenabile del sempre più talentuoso e fruttifero Taylor Sheridan, regista de I segreti di Wind River, sceneggiatore di Sicario e del suo sequel Soldado con Benicio Del Toro e sia director che autore dello script di Yellowstone con Kevin Costner. Il quale, in piena pandemia, ebbe la brillante idea, per l’appunto, di congegnare e concepire Tulsa King, patrocinato, inventivamente e non solo, dall’altrettanto infermabile Terence Winter (The Wolf of Wall Street).

I primi due episodi sono diretti da Allen Coulter (Hollywoodland, I soprano) e la sua elegante mano si sente, eccome.

Sintetizzando parecchio la trama di Tulsa King

Dopo venticinque anni durissimi di carcere, il gangster tutto d’un pezzo, giammai redentosi e fiero di esserlo, di nome Dwight Manfredi (Stallone), ribattezzato col nomignolo The General, esce di prigione, ritornando a New York. Il suo boss lo spedisce a Tulsa per gestire un importante affare. È questa la sua discutibile e amara ricompensa, nonostante Dwight, dietro le sbarre, tenne il becco chiuso per coprire il capo e i suoi scagnozzi…

Malgrado l’iniziale titubanza e il suo comprensibile risentimento, giocoforza e certamente non di buon grado, Dwight accetta quest’ingrato incarico e tale affronto che, apparentemente, lo declassa. Eppure, in virtù del suo innato charme, della sua coriacea personalità carismatica e della sua feroce grinta immarcescibile, Dwight riuscirà a capovolgere la situazione a suo favore, forse ribaltando il gioco bastardo… Districandosi, con inaudito e fenomenale savoirfaire e molta violenta simpatia, in tante avventure rocambolesche e pericolose non prive di succosa follia.

Per ora, ci siamo volutamente e logisticamente limitati qui a disaminare, di veloce panoramica esegeticamente striminzita, i primi episodi di Tulsa King. Innanzitutto per non sciuparvene la visione, aspettando trepidantemente lo sviluppo dell’intreccio che promette molte godibili sorprese esilaranti e scoppiettanti.

Cast grandemente assortito ove, a fianco d’uno Stallone mattatore, spiccano le presenze parimenti efficaci del tassista e poi personale autista Tyson (Jay Will), dell’agente federale Stacy (Andrea Savage), della conturbante e incredibilmente attraente Margaret (la bellissima dollmilf Dana Delany che, superati abbondantemente i sessant’anni, stupisce per la sua presenza ancora sensualmente appetibile), di Bodhi/Martin Starr, Tina/Tatiana Zappardino, di Charles Ivernizzi/Domenick Lombardozzi (The Irishman) e tanti altri attori fra cui Annabella Sciorra. Stallone gigioneggia in modo sublime nella parte del duro che si prende giuoco del mondo, mitizzando sé stesso e al contempo ironizzandovi con classe tanto iconica quanto auto-parodica che lascia il segno.

Tulsa King è al momento promosso appieno.Dana Delany Tulsa KingSylvester Stallone Tulsa King

di Stefano Falotico

 

 

BARDO, la cronaca falsa di alcune verità, recensione

Griselda Siciliani Bardo Bardo Inarritu poster

Ebbene, oggi recensiamo Bardo, la cronaca falsa di alcune verità (Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdades), disponibile su Netflix e presentato, con esiti controversi, alla scorsa edizione della 79.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ove concorse per il Leone d’oro. Non agguantando però nessun riconoscimento ufficiale e scontentando molti. Secondo noi, però, a torto, così come esplicheremo più avanti. Firmato dal due volte premio Oscar Alejandro González Iñárritu, vincitore degli Academy Awards come miglior regista per due anni consecutivi, rispettivamente per Birdman – L’imprevedibile virtù dell’ignoranza con Michael Keaton e Revenant con Leonardo DiCaprio, Bardo è il primo film, dai tempi di Amores Perros, girato da Iñárritu in terra natia, ovvero il Messico, ed è completamente parlato in spagnolo come Biutiful con Javier Bardem, tranne in un paio di sequenze in inglese. Generalmente mal accolto dall’intellighenzia critica presente al Lido veneziano alla suddetta kermesse, Bardo ha poi riscosso pareri altamente contradditori, spaccando anche gli spettatori, indecisi se apprezzare tale opus molto personale, oltre che diretto, infatti totalmente sceneggiato dall’inizio alla fine dallo stesso Alejandro González Iñárritu assieme a Nicolás Giacobone, dalla durata assai consistente di centosettanta minuti netti, cioè quasi 3h, oppure favorevoli e ben disposti nei riguardi di tale bizzarria indubbiamente prolissa e ricolma di eccentricità perfino esagerate e un po’ indigeste, certamente notevole sul versante figurativo, fortemente suggestiva, suadente e fantasiosa, visivamente magniloquente ma non appieno convincente, magistralmente filmata eppur narrativamente slabbrata, difettosa e oltre i limiti d’un narcisismo che ivi tocca vette davvero stucchevoli e parossistiche.

Molti, infatti, hanno fin dapprincipio, ovvero dalla primissima visione lor avvenuta di Bardo, tostamente affermato che trattasi d’un felliniano in salsa, concedeteci di dirlo, inarrituiana, cioè d’una pellicola poeticamente “selfie” e insopportabile del regista in questione, il quale, lasciandosi prendere la mano da mitomane, non avrebbe raffrenato i suoi stilemi tendenti al manierismo fine a sé stesso in modo esponenziale. Amplificando al massimo grado intollerabile i suoi ombelicali, solipsistici ed estetizzanti istrionismi narcisistici. Hanno ragione tali detrattori oppure è un grande film forse preso sotto gamba e aprioristicamente sottovalutato in maniera ciclopica?

Trama, assai sinteticamente così espressaci testualmente da Wikipedia a cui, sinceramente, v’è poco d’aggiungere: Il film segue le bizzarre avventure di Silverio Gama, un documentarista messicano.

Silverio, onnipresente dalla prima all’ultima scena, nell’intrecciarsi e accavallarsi frenetico, tanto roboante quanto rutilante e contorto di onirici ricordi e riflessioni, è incarnato dal bravissimo Daniel Giménez Cacho, contornato da valenti attori giovani quali Ximena Lamadrid e Íker Sánchez Solano affiancati, a loro volta, dalla maliarda e statuaria bellezza e presenza preziosa della fotogenica, magnetica e sensualissima Griselda Siciliani che, nei panni di Lucia, cioè sua moglie nella pellicola, si esibisce in un paio di nudi clamorosi, e dall’ottimo Francisco Rubio in quelli dello spregiudicato, cinico e antagonista Luis, giornalista arrivista. Meravigliosamente fotografato dallo straordinario Darius Khondji (Seven, Midnight in Paris), con scenografie suggestive e fastose di Eugenio Caballero, Bardo, la cronaca falsa di alcune verità è un film che, dopo uno spiazzante e inaspettato incipit forse esagerato e perfino ridicolmente grottesco, dopo la sua prima mezz’ora molto confusionaria, tocca vette vertiginose di maestria e genialità per buona parte della sua durata, specialmente nel segmento centrale, con uno Iñárritu scatenato e inventivamente irrefrenabile che, fra spasmodici grandangoli smisurati, piani sequenza interminabili e complicati, talvolta eccede, indubbiamente, eppur al contempo ammalia e c’ipnotizza nel caotico flusso d’immagini a forte carica visionaria.

Comprendiamo però assai bene che Bardo non è un film per tutti e potrebbe addirittura, per via delle sue ambizioni spropositate, irritare molti e spazientire oltremodo.

di Stefano Falotico
 

 

WASH ME IN THE RIVER (Savage Salvation), recensione

Ebbene, oggi recensiamo il film Wash Me in the River, dal 28 dicembre scorso disponibile in streaming per gli abbonati ad Amazon Prime.Jack Hustin Wash Me River

Savage Salvation Bluray De Niro Huston Malkovich

Wash Me in the River coincide perfettamente all’esatto titolo designato originariamente quando il film fu in lavorazione e, invece, per l’home video statunitense divenuto poi stranamente Savage Salvation. Wash Me in the River, non tradotto per la distribuzione italiana in quanto è un titolo, per l’appunto, “intraducibile” e metaforico che letteralmente significa sciacquami nel fiume. Lo potremmo delineare, diciamo, sinteticamente attraverso l’espressione battezzami in quanto, nella pellicola in questione, si narra, in forma d’azione puramente adrenalinica, emozionalmente dinamitarda e furibonda, una storia a suo modo cristologica, lacrimosa e al contempo rabbiosa, partita sulla base d’una patita, ingiusta dannazione e poi evoluta e deflagrata in esplosiva e spirituale, più che altro, vendicativa redenzione avvenuta in maniera di certo non mistica eppur catartica e perciò depurativa. Una vicenda torbida ove, una volta puniti i cattivi gravemente peccaminosi e ripristinato dunque il subito torto criminoso, mediante un’abluzione e un battistero, sì, con una nuova fonte battesimale sui generis, si giunge e ci si ricongiunge, figurativamente ed esistenzialmente parlando, alla salvazione e alla pace interiore. Ecco altresì spiegato il titolo originale per la versione d’oltreoceano, cioè per gli States.

Pellicola della netta e veloce, scorrevole durata di un’ora e quarantuno minuti corposi, Wash Me in the River rappresenta la seconda prova registica di Randall Emmett (Escape Plan) dopo il suo esordio dietro la macchina da presa del 2021, ovvero Midnight in the Switchgrass con Bruce Willis e Megan Fox.

Emmett, classe ‘71, stacanovista produttore infermabile dei più svariati film, per molto tempo assai prolifico nel finanziare e congegnare b movies e pellicole forse spettacolari, efficaci a livello di gustoso entertainment scoppiettante, non pretenziose eppur sicuramente non eccelse, datosi però ultimamente, parallelamente e finanziariamente, a progetti più importanti cinematograficamente e a più ampia portata qualitativa, quali, per esempio, Silence & The Irishman di Martin Scorsese.

Difatti, a proposito di The Irishman, ivi ritrova due degli interpreti di quest’ultima, celebrata pellicola scorsesiana, vale a dire Jack Huston e Robert De Niro. Se De Niro, in The Irishman, fu però l’assoluto protagonista e Huston incarnò solamente e per pochissimi minuti un ruolo decisamente secondario, in Wash Me in the River succede diametralmente l’opposto ma non ugualmente proporzionale a livello di minutaggio in scena. Qui De Niro, pur non essendo l’attore principale, interpreta una parte rilevante e primaria ai fini dell’intreccio raccontatoci.

Su sceneggiatura originale firmata da Adam Taylor Barker e Chris Siverston, eccone la trama, trascrittavi letteralmente dalla concisa sinossi espressa su IMDb: Un tossicodipendente da oppiacei in via di guarigione cerca vendetta sugli spacciatori responsabili della vendita della droga che ha provocato la morte della sua fidanzata.

Se la volessimo particolareggiare e fornirvene ulteriori dettagli senza commettere spoiler che ve ne sciuperebbero la visione, in Wash Me in the River, nei primi tre quarti d’ora, assistiamo alla romanticissima storia d’amore fra i due reietti Shelby John (Huston) e la diafana e candida Ruby (Willa Fitzgerald). I quali, con notevoli sforzi, essendo entrambi precipitati nel pericoloso e debilitante tunnel della droga, sono però decisi volenterosamente a sposarsi, sforzandosi coraggiosamente di superare la loro atavica tossicodipendenza malsana.

Accade però, fatalmente, una tragedia e Ruby muore di overdose. Il tutto, anzi, il lutto non è stato totalmente casuale? Al che, Shelby, accecato dalla rabbia, in forma giustizialista à la Rambo ante litteram, sfreccerà infermabile, sulla sua moto, per le strade desolate e malfamate dell’Ohio alla ricerca dei colpevoli in una sarabanda d’uccisioni e sparatorie senza esclusione di colpi, all’insegna della sua revenge “biblica” anche se certamente non epica ma ancor più autodistruttiva?

Nel frattempo, lo sceriffo Church (un De Niro non svogliato ma bravo con qualche guizzo grintoso, ciononostante, inevitabilmente stanco e appesantito), disilluso e affranto perennemente dal non essere stato in grado, a sua volta, di salvare in passato la vita del figlio, tenterà di far sì che Shelby possa placare la sua ira omicida prima che per quest’ultimo sia troppo tardi redimersi.

Chi è, peraltro, il sulfureo “prete” Peter (John Malkovich)?

Film che ha avuto vari cambiamenti di casting (prima della scelta definitiva di Jack Huston, infatti, erano stati opzionati Machine Gun Kelly e Taylor Kitsch, i quali rispettivamente diedero forfait) e una tribolazione organizzativa, essendosi svolte le brevi ma complicate riprese in pieno secondo lockdown dovuto alla pandemia), Wash Me in The River, parte come un sentimentale e smielato romance a tratti perfino commovente e ingenuamente sincero, trasformandosi quindi in un battagliero film d’azione fuori tempo massimo in senso toutcourt. Infatti, per la sua rozza e tamarra eppur frenetica cifra stilistica marcatamente demodé e anacronistica da filmetto senz’infamia e senza lode, assomiglia tantissimo a un prodotto tipicamente usa e getta da anni novanta. In tale sua assoluta sincerità da guilty pleasure completamente incoerente e inesistente sul versante autoriale, consiste paradossalmente la sua potente mediocrità disarmante e stupenda.

Perciò, se preso come strepitosa assurdità romanticheggiante e inizialmente, ripetiamo, addirittura struggente e financo poetica, tramutata man mano in pellicola di bassa lega ingiustificatamente ed esageratamente reazionaria, potrà piacervi da matti, persino toccarvi il cuore per gran parte della sua durata.

La fotografia di Eric Koertz è scialba e inutilmente estetizzante nei momenti melanconici, le musiche di Philip Klein sono retoriche, sebbene gli altrui e numerosi pezzi country inanellati lungo il film risultino funzionali ed amalgamati alle immagini con buon ritmo emozionale, Jack Huston funziona più come futuro sposo tormentato ma al contempo molto innamorato, anziché come novello paladino della “polizia fai da te” che compirà una strage, De Niro, in un paio di scene, è convincente ma sprecato, Malkovich gigioneggia incontrollabilmente nel pre-finale, sfoderando una recitazione di maniera da mettere i brividi in senso, purtroppo, spregiativo e inguardabile.

Ci dispiace che De Niro e Malkovich ebbero, stavolta, la possibilità di recitare per la prima volta assieme ma qui non condividono, ahinoi, nessuna scena. Infine, per essere sbrigativi, Wash Me in the River è un film oggettivamente bruttino e insalvabile nel suo complesso, altro che Savage Salvation, ma talmente carino e immensamente triste nel suo incipit strappalacrime e infinitamente toccante, che griderebbe vendetta… sostanzialmente non promuoverlo sfrenatamente.

Nel cast, Dale Dickey e Swen Temmel.  

Fitzgerald Huston Savage Salvation

 

di Stefano Falotico

 

GLASS ONION – KNIVES OUT, recensione

Ebbene, oggi recensiamo lo spassoso, esilarante e assai intelligente, perfettamente congegnato, anche se forse non del tutto riuscito, Glass Onion – Knives Out (Glass Onion: A Knives Out Mystery), scritto e diretto dal sempre più valente e sorprendente Rian Johnson (Looper, Star Wars – Gli ultimi Jedi).Madelyn Cline Glass OnionGlass Onion Crag cast

Il quale, dopo il successo del capitolo originario, ovvero il capostipite e naturalmente antecedente Cena con delitto- Knives Out, ritorna, metaforicamente parlando, sulle tracce del suo inventato e ben fantasiosamente partorito investigatore privato, à la Hercule Poirot a sua volta figlio della penna dell’imbattibile Agatha Christie, Benoit Blanc (uno smagliante Daniel Craig già candidato come miglior attore protagonista nella categoria Comedy/Musical agli imminenti Golden Globes), assoldando per tale suo “sequelsui generis, un parterre de rois delle cosiddette grandi occasioni, cioè un cast variegato e strabiliante in cui svetta, primeggiante, la new entry del sempre da noi gradito Edward Norton (Motherless Brooklyn) e un’inedita, mai così sensuale e caliente, peperina Kate Hudson al massimo della sua insospettata carica piccante, travolgente e magnetica. Con Glass Onion – Knives Out, Johnson, da buongustaio oramai affinatosi dell’arte non culinaria, bensì appartenente alla celluloide più succosa, allestisce una succulenta e, ripetiamo, sia divertente che sagace, saporita pietanza cinematografica squisita e veramente da leccarsi i baffi, servendoci caldamente un piatto appagante il nostro palato cinefilo, offrendo a noi, commensali del Cinema non insipido, un arguto giallo mordace, avvincente e scoppiettante, ripieno di colpi di scena gustosi e spiazzanti, sebbene eccessivi, così come spiegheremo più avanti, finemente intriso di tocchi e “gourmet” da chef registico di prima classe e da dieci e lode insindacabile. Forse sì forse no?

Trama, morbidamente diluitaci come un delicato soufflé che, anziché afflosciarsi, col trascorrere dei minuti emozionanti e pregni di suspense brillante, equivalenti per l’esattezza a due ore e venti minuti netti (tale infatti è la complessiva, scorrevolissima durata di Glass Onion), carbura fervidamente e bellamente riscalda, in crescendo spasmodico e vertiginoso, la nostra curiosità via via più affamata e poi appagata… anche se non del tutto.

glass onion edward norton

La vicenda è ambientata nel 2020, ovvero al massimo zenit, sì, al culmine della mondiale pandemia del Covid-19. Al che, il nababbo Miles Bron (Norton), a capo della proficua e altamente remunerativa Alpha Industries, in quel di Glass Onion, cioè un pittoresco ed esotico isolotto del mar Egeo, invita, presso la sua lussuosa e labirintica magione, una nutrita ed eterogenea, ottimamente assortita combriccola composta dai suoi migliori amici di lunga data, ognuno dei quali, adesso, svolge rispettivamente lavori finanziariamente cospicui ma fra loro diversi. Singolarmente, non staremo a enumerarveli e a specificarli perché non ce ne pare la sede opportuna. Bron serve loro un’inattesa sorpresa maliarda e appetitosa, cioè ha coordinato una sfarzosa, al contempo sottilmente maliziosa, chissà se giocosa, cena con delitto sfiziosa… Anche meravigliosa?

Al che, all’improvviso, senz’invito, fa la sua entrata in scena il detective Blanc (Craig) che vuole vedervi chiaro e andar oltre le apparenze di quello che, a prima vista, potrebbe sembrare un innocente diletto-delitto orchestrato, giustappunto, dall’incolpevole e goliardico Bron. Perché Blanc è giunto sul luogo? Trattasi di pura coincidenza imponderabile, di fatuità casuale e innocua oppure un membro della compagnia, ad insaputa di Bron, per tendergli a sua volta, da burlone e buontempone, un tranello bernesco e uno sberleffo cattivello, desiderava rovinargli il piano furbesco?

Indovina indovinello, come andrà a finire in questo duello fra Blanc & Bron, chi la spunterà in tale Cluedo cinematograficamente forse non tanto farsesco così come invece, inizialmente, apparve candidamente?

Acclamato dalla Critica, tanto d’aver già totalizzato la superba media dell’81% di pareri estremamente positivi presso il sito aggregatore metacritic.com, in effetti Glass Onion vale ampiamente le lodi ricevute e il prezzo della visione, al cinema tramite Lucky Red o in streaming su Netflix?

In quanto è davvero un film godibile e da mandar giù in un sol boccone, sapientemente magistrale nella messa in scena, ripetiamo, ricolma e pienamente infarcita di trovate geniali e prelibate? Oppure qua e là pecca di troppa carne al fuoco? Deflagrando in un minestrone insapore?

Attori perfetti, malgrado talvolta vadano a briglia sciolta sopra le righe, un Craig impeccabile ma non appieno carismatico e un Norton, dietro il cui personaggio aleggia sapidamente, in forma parodica, la “maschera” sbertucciata di Elon Musk, una Hudson/Birdie Jay da urlo a cui però l’ancora più erotica e assai discinta, disinibita Madelyn Cline/Whiksey ruba la scena, Jessica Henwick/Peg, Janelle Monáe/Cassandra Andi Brand, Jackie Hoffman, Noah Segan, Leslie Odom Jr./Lionel Toussaint, Kathryn Hahn/Claire Debella, un Dave Bautista/Duke Cody, sotto ogni punto di vista, in grande spolvero. Con l’aggiunta di cammei, invero un po’ inutili, di Ethan Hawke (irriconoscibile con gli occhiali da sole), Hugh Grant, della compianta Angela Lansbury, la campionessa Serena Williams, Natasha Lyonne e Kareem Abdul-Jabbar.

Glass Onion scorre che è una delizia e, dopo un incipit probabilmente inverosimile, compresi alcuni assunti logisticamente improponibili, se decidiamo di salirvi metaforicamente a bordo, possiamo goderne il viaggio e gli ingredienti del piatto servitoci… Su tale versante, in modo egregio, funziona al netto delle sue evidenti difettosità che, sottostante, evidenzieremo. Infatti…

Glass Onion esagera nei colpi, diciamo, di (s)cena, affastellando con sfrenatezza mal dosata un finale dopo l’altro in una sarabanda ridondante, giustappunto, per dirla come gli americani, di turning points, a lungo andare, stomachevoli e indigesti per lo spettatore smaliziato e sensibile che, almeno sino a mezz’ora dalla definitiva fine, era già sazio e non può quindi obiettivamente gradire tale sovrabbondanza di “portate” propinateci a dismisura infinita.

Glass Onion, inoltre, vorrebbe essere un Dieci piccoli indiani contemporaneo, anzi, postmoderno ma si dimostra, in molti punti, artefatto e, rimarchiamolo, ripetitivo.

Infine, funziona scialbamente come metafora anticapitalistica, invero retorica e scontata, sui nuovi e antipatici ricchi rampanti, chiamati qui disgregatori, figli non tanto dell’edonismo post-reaganiano ma più vicini all’era Trump. Proponendoci una soluzione dell’enigma indagatorio, sì, soddisfacente, altresì una fasulla morale buonista e consolatoria sul jeu de massacre dei cinici arrivisti e falsissimi amici che, onestamente, alle soglie del 2023 è aria fritta, roba trita e ritrita, ipocrita e già mal digerita.

Abbiamo citato gli attori coi rispettivi personaggi da loro incarnati ma, nel mosaico, manca un pezzo, ovvero un nome. Quello di Helen.

Guardate Glass Onion e saprete chi è, eh eh.Daniel Craig Benoit Blanc

di Stefano Falotico

 

CHINATOWN, recensione

Ebbene oggi, per il nostro appuntamento, ci auguriamo gradito, coi consueti Racconti di Cinema, disamineremo Chinatown, film magnifico del ‘74, firmato da un ispirato, così come soventemente accade, Roman Polański (La nona porta, L’uomo nell’ombra).Chinatown poster Nicholson Dunaway

Candidato a undici premi Oscar, fra cui Miglior Film e Regia, Chinatown ne vinse soltanto uno, andato alla migliore sceneggiatura originale, scritta da Robert Towne (Frantic, Mission: Impossible).

Opus della durata corposa e consistente, giammai noiosa, bensì avvincente e inquietante di due ore e dieci minuti netti, Chinatown è un mystery thriller d’alta scuola sofisticata e, al contempo, un pregiato noir d’annata che profuma, leggiadramente, di beltà sconfinata e cinematografico sapore vintage veramente speciale. È, quindi, un imprescindibile classico della Settima Arte non solamente appartenente ai gloriosi anni settanta hollywoodiani. Peraltro, rappresenta a tutt’oggi l’ultimo film in assoluto diretto da Roman Polański in terra statunitense prima del suo “esilio” e confino in Europa per le ragioni che noi tutti sappiamo…

Senza perderci in superflui panegirici e descrizioni della trama inutilmente particolareggiate, estraendo testualmente la sinossi di Chinatown da IMDb e ivi letteralmente trascrivendola esattamente, eccone, nelle righe immediatamente seguenti, la perfetta e assai concisa sintesi saliente che non si perde, giustappunto, in chiacchiere inutili…

Un detective privato assunto per raccogliere prove di un adulterio si trova coinvolto in una spirale di violenza, corruzione e morte.Jack Nicholson Chinatown Polanski Chinatown Polanski Nicholson Dunaway

Il detective si chiama Jake Gittes (Jack Nicholson), detto J.J. S’inoltra, se non controvoglia, perlomeno giocoforza in un’imprevista spirale viziosa di torbidi inganni e scabrose macchinazioni che forse hanno del raccapricciante, giungendo a verità all’apparenza insospettabili e moralmente disarmanti, precipitando infernalmente e in modo tetramente sesquipedale in un girone dantesco e agghiacciante a base di fetide, spregevoli, meschine e losche bugiardaggini tremende e mortificanti, tristissimamente amare.

Secondo la pertinente, breve analisi riportatavi sottostante dal dizionario Morandini:

È un film profondamente chandleriano senza Chandler, dunque foscamente romantico. Chandleriano è anche l’umorismo che ne sorregge il pathos nella descrizione di un mondo corrotto non solo politicamente in cui la presenza del male – incarnato dal vegliardo capitalista J. Huston – è ossessiva e sinuosa, mostruosamente ambigua. Pur senza abbandonarsi a esercizi di nostalgica archeologia, fece scuola nel campo della rivisitazione del cinema nero.

Sotto ogni aspetto, inappuntabile e assai curato nei più minimi dettagli, Chinatown, a distanza di circa cinquant’anni dalla sua uscita nelle sale, avvenuta, come sopra dettovi, a metà dei seventies, rimane un capolavoro perlaceo davvero impari. Fotografato con maestria imbattibile dal veterano John A. Alonzo (Scarface), musicato maestosamente da Jerry Goldsmith, prodotto dal mitico Robert Evans, Chinatown è un’indiscussa pietra miliare del Cinema mondiale.

Ovviamente, le interpretazioni dei tre attori protagonisti, vale a dire Nicholson (Qualcosa è cambiato), Faye Dunaway (Barfly) e John Huston, sono superbe e mirabili, già da sole varrebbero il “prezzo” della visione impagabile.

Cammeo di classe dello stesso Polański e grande cast variegato in cui, oltre ai tre suddetti titani, si fan ben notare le presenze di Burt Young (Rocky, C’era una volta in America), Perry Lopez, John Hillerman e soprattutto di Diane Ladd (Cuore selvaggio).Faye Dunaway Chinatown John Huston Chinatown

di Stefano Falotico

 

L’UOMO NELL’OMBRA, recensione

Ebbene oggi, per il nostro appuntamento coi Racconti di Cinema, salteremo indietro nel tempo ma non ci spingeremo molto lontano, approdando più precisamente al recente 2010, anno dell’uscita nelle sale del film, nelle righe seguenti, da noi disaminato e preso in questione, ovvero L’uomo nell’ombra, il cui titolo originale è il ben più appropriato ed emblematico The Ghost Writer.

mcgregor ghost writer

Firmato dall’emerito Roman Polański (La nona porta, Carnage), vincitore del premio Orso d’oro come miglior regista al Festival di Berlino dell’anno succitato ove L’uomo nell’ombra fu in kermesse e in concorso, adattato dallo stesso Polański assieme a Robert Harris (da non confondere con Thomas Harris, scrittore invece de Il silenzio degli innocenti), autore dell’originario romanzo omonimo (da noi divenuto Il ghostwriter), il film consta della durata di due ore e 8’ e nacque per strambe e fortuite coincidenze avvenute fra il director di Rosemary’s Baby e lo stesso Harris.

Dapprincipio, infatti, Polański opzionò un precedente opus letterario di Harris, ovvero Pompei, seriamente intenzionato a trasporlo cinematograficamente. Doveva trattarsi di un kolossal dal budget assai cospicuo ma a causa d’imponderabili, contravvenuti contrattempi, all’ultimo momento il progetto saltò, così che Polański “ripiegò”, giustappunto, su tale adattamento, contrattando piacevolmente il tutto con Harris che, di buon grado, accettò di lavorarvi in sede di sceneggiatura, apportandone il suo notevole e personale contributo importante.

Trama:

olivia williams ghost writer polanski kim cattrall uomo ombra

Un giovane e ambizioso ghostwriter piacente, carismatico e di belle speranze (un eccellente Ewan McGregor in stato di grazia recitativa), dopo un’accurata selezione, viene assunto da una rinomata equipe editoriale, londinese come lui e diretta da Sidney Kroll (Timothy Hutton, Secret Window), per redigere, anzi, per meglio dire, al fine di rivedere, ricongegnare e correggere un manoscritto concernente l’autobiografia del Primo Ministro della Gran Bretagna attualmente in carica di nome Adam Lang (un ambiguo e forse luciferino Pierce Brosnan).

S’invola quindi alla volta dell’incontaminata e poco abitata, perennemente flagellata da un clima atmosferico piovigginoso e freddo, plumbea e sepolcrale, realmente esistente eppur quasi sperduta isola Martha’s Vineyard, al largo della costa del Massachusetts. Ivi, risiede l’avveniristica, accessoriata e tecnologica, al contempo spettrale e misteriosa magione di proprietà dell’editore del futuro biopic riguardante Lang.

Questa villa lussuosa, d’aspetto avveniristico, labirintica e arredata in modo avanguardistico, ripiena di corridoi lugubri e adornata da quadri impressionisti, è or abitata dai collaboratori di Lang, a capo dell’avvenente ed elegante segretaria tuttofare Amelia Bly (Kim Cattrall), sovente bazzicata dallo stesso Lang che se ne reca per incontrare e aggiornare il suo uomo “ombra” e per rivedere la sua conturbante, misteriosa e altezzosa, nevrotica consorte Ruth (Olivia Williams nella più intensa e perturbante, maliziosa performance della sua sottovalutata carriera invero mirabile).

Lang è stato accusato di crimini di guerra, in quanto imputato d’aver permesso efferate torture a dei possibili terroristi per mano della CIA. A cui, forse, è nascostamente e viscidamente ammanicato? Prima dell’assunzione del suo scrittore fantasma, un altro ghostwriter, morto in circostanze sospette, forse assassinato in maniera complottistica, era stato incaricato di allestire il biopic inerente la vita, professionale e non, di Lang.

Inoltre, chi si cela dietro l’equivoca, apparentemente integerrima ed esimia, identità del ricco professore, insospettabile Paul Emmett (Tom Wilkinson)?

The Ghost Writer poster

Teso, compatto, viscerale, palpitante, girato magistralmente e con sapido, infallibile gusto torbido e fascinosamente malsano per le atmosfere pregne di suspense ad altissimo tasso inquietante, dallo specialista del thrilling per eccellenza, ça va sans dire, il nostro amatissimo Roman, sorretto da un torreggiante e magnetico McGregor, splendidamente fotografato da un ispirato Pawel Edelman (Ray, L’ufficiale e la spia), sontuosamente musicato da un altrettanto perfetto Alexandre Desplat (Il discorso del re, La forma dell’acqua), L’uomo nell’ombra, malgrado qualche inevitabile e comprensibile, microscopico buco narrativo e talune incongruenze forse carenti in quanto a verosimiglianza, è un’opera di rara pregevolezza e di sofisticata scuola cineastica davvero formidabile e mozzafiato.

Impaurisce, fa rabbrividire, emoziona, è incalzante, coinvolge con finezza e appassiona vigorosamente dall’inizio alla fine.

Nel cast, piccole parti per un giovanissimo Jon Bernthal (The Punisher) per Jim Belushi e una fulminea, strepitosa apparizione dell’indimenticabile Eli Wallach (La notte e la città, Il buono, il brutto, il cattivo).

L’uomo nell’ombra, probabilmente, non è un capolavoro e, qua e là, pecca di veniale manierismo. Ma, a distanza di oltre dieci anni dal suo debutto, rimane un grande film memorabile.

Ewan McGregor The Ghost Writer Pierce Brosnan Polanski Eli Wallach McGregor

di Stefano Falotico

 

PINOCCHIO, recensione bugiarda?

Guillermo del Toro's Pinocchio - (Clocklwise) Spazzatura (voiced by Cate Blanchett), Gepetto (voiced by David Bradley), and Pinocchio (voiced by Gregory Mann). Cr: Netflix © 2022

Guillermo del Toro’s Pinocchio – (Clocklwise) Spazzatura (voiced by Cate Blanchett), Gepetto (voiced by David Bradley), and Pinocchio (voiced by Gregory Mann). Cr: Netflix © 2022

Ebbene, questa non sarà una review convenzionale e allineata a didattici, pseudo-formativi e istruttivi canoni stilistici adatti a un mood editoriale da stampa giornalistica che spesso si (s)vende al peggior fetente, no, al miglior offerente affinché, in modo bieco e losco, gli uomini “rusco” ne possano ricavare un vantaggio promozionale di opportunistico endorsement fariseo da “manini”, alias imbrogli & sotterfugi dei prezzolati più marchettari e comprabili. Questo Pinocchio di Benito Mussolini, no, Benicio Del Toro, no, Guillermo(ne) del Toro, acclamato quasi unanimemente dai nerd, cioè dai cosiddetti ominidi-ominicchi della giungla alla Mowgli, no, nerd sinonimo di Mogwai, vale a dire i futuri Gremlins che, dopo una vita di patiti bullismi e delusioni a non finire, hanno “rintracciato”, no, trovato in del Toro il guru spirituale (stessa cosa dicasi per i fan di di Hayao Miyazaki, dei fumetti anche à la Dylan Dog e non di Anna Falchi di Dellamorte Dellamore) delle loro tragiche sconfitte esistenziali in quanto Guillermo compiace bellamente e furbescamente il loro falsissimo “comunismo” da sfigati mai visti e frustrati ribelli fake che si spacciano (per) compagni ma, al massimo, frequentano solo uno schermo impolverato del PC, dicevo… non perdiamoci in teatrini da burattini e da piccolini… Costoro, ignobili impostori e cialtroni-ciarlatani dei più esecrandi, sono gli stessi che venerano, osannano, oserei dire idolatrano Tim Burton e davvero pensano che Nightmare Before Christmas sia stato diretto da tale regista in carne e ossa che, invero, soltanto s’avvalse dell’animazione creata da altri e poi “appioppata” a lui in maniera scarsamente meritocratica. Ora, dobbiamo essere obiettivi, realisti, veritieri e giudicare oggettivamente questa favola deltoriana che è retorica come non mai, intrisa di dolciastra melassa da schienare e affliggere anche il più accanito “aficionado” degli esami del sangue perennemente sballati a causa del continuo e incurabile, altissimo tasso di trigliceridi, lipidi e colesterolo a mille.

Leggo post e recensioni che acclamano a spada tratta questo Pinocchio in maniera (inde)fessa, leggo di gente che si è strappata i capelli, sperticandolo di lodi entusiastiche come se avesse visto la Madonna genuflessasi, in segno di sottomissione giudeo-cristiana, dinanzi al Maligno per una scioccante rilettura biblica ed evangelica da pelle d’oca. Roba da scomunica immediata e da matti di Castiglione delle Stiviere.

Una roba più ipocrita del più grande bordello del mondo che è a due passi dal Vaticano…

Ivi, del Toro, snaturando completamente e senza vergogna il testo originario di Carlo Collodi, con totale, impavido e incosciente, oserei dire imberbe storicismo, no, stoicismo degno di Jay Baruchel di Million Dollar Baby, riesce giustappunto a stupefare un pubblico di suoi fedelissimi adepti irriducibili, anzi, per meglio dire, a coglionare i suoi followers più ottusi senz’alcuna contezza di sé stessi e della parola Cinema. Totalizzando una media recensoria immane presso i maggiori siti aggregatori oramai in mano a ragazzini più rimbambiti di Geppetto. E aggiudicandosi già svariate, immeritate nominations ai Golden Globes e via dicendo. Per il 25 dicembre o adesso, cari miopi e ciechi da Santa Lucia, cari Lucignolo dei poveri da Paese dei Balocchi, miei boys non adatti a ciucciare le bocce di Sabrina Salerno, bensì col ciuccio in bocca e molto ciuchini, regalatevi anche Avatar: The Way of Water e, mi raccomando, terminate il terzetto da Giochi Preziosi, guardando e sconfinatamente ammirando, tanto per “castrare” la vostra crescita stagnante imperterritamente in zona prenatale, perfino, per filo e per segno, la nuova “fiera delle illusioni” di Steven Spielberg col suo penoso e puerile The Fabelmans. Ci sarà, d’altronde, un motivo se Spielberg definì questo Pinocchio pura poesia. Nevvero? D’altro canto, questi qua, dei baccalà, sono gli stessi che, per anni, glorificarono l’hobbit Peter Jackson e veramente pensarono che Cate Blanchett (doppiatrice qui di Spazzatura) fosse la Fata Turchina, no, solamente l’asessuata e angelicata Galadriel de Il signore degli anelli. Accorgendosi tardivamente che la sua Katharine Hepburn di The Aviator era già più figa di quella realmente esistita e prendendo quindi, con molto ritardo, le cosce, no, coscienza che la sua Lilith Ritter di Nightmare Alley, per l’appunto, fu talmente gnocca da far sì che Bradley Cooper dimenticasse Toni Collette. Quest’ultima, in tale film appena eccitante, no, succitato, mai così sexy e caliente.

Cate Blanchett, con ogni probabilità, vincerà il suo secondo Oscar per la sua magnifica performance in Tár. Film nel quale indossa solo tailleur da Tilda Swinton/Orlando e, pur spogliandosi solo ripresa da lontano e per pochissimi secondi, è più arrapante della donna misteriosa di Eyes Wide Shut per cui prestò la voce. Eyes Wide Shut con Todd Field, regista di Tár. E ho detto tutto… Fidelio…

Chiarito ciò, molti nerd, i quali già son impazziti per questo Pinocchio, utilizzano Hellboy/Ron Perlman (doppiatore del Podestà) come avatar nei loro profili social ma, dal vivo, sinceramente son lontani anni luce dal risultare belli come Ewan McGregor (doppiatore di Sebastian il Grillo). Poveretti, sono in piena zona Trainspotting… avranno rimpianti da Big Fish?

Trama, copia-incollata da Wikipedia: Geppetto, un vedovo falegname che vive nella grigia Italia fascista, ancora soffre per la perdita del figlio Carlo a seguito di un bombardamento durante la Grande Guerra. Una sera, ubriaco, abbatte un albero vicino alla tomba del figlio e da quel legno, costruisce (ancora sbronzo) una marionetta dagli imperfetti lineamenti e il lungo naso, che chiama Pinocchio. Una fata, accorgendosi che l’anima di Carlo si è reincarnata nell’albero, dona vita alla marionetta e istruisce il grillo che viveva al suo interno, Sebastian, di fare da guida a Pinocchio. Geppetto è sorpreso di ritrovarsi un nuovo figlio a carico, ma Pinocchio nota nel creatore una certa malinconia nello stare rimpiazzando Carlo, così parte in giro per il mondo per imparare ad essere un figlio migliore per il suo genitore.[1]PinocchiodelToro

Guillermo fa storcere il naso ai puristi? Può essere. Elmina Il Gatto & La Volpe, addirittura Mangiaf(u)oco, rimpiazzandoli in un unico stronzone, ovvero col/il colonnello Hans Landa di Bastardi senza gloria, no, col Conte Volpe/Christoph Waltz. Povero Waltz, passato dal villain nazista par excellence a bozzetto della Morte in Rifkin’s Festival e ora ridottosi a fare la macchietta e la marionetta live action(izzata), qui usata a mo’ di figurina più caricaturale del Duce/Dolce. Guillermo trasforma Pinocchio in un manifesto politico fuori luogo a scopo capziosamente pedagogico pagato da Netflix, pensando di criticare, così facendo banalmente, ogni forma di nazi-fascismo e generando, partorendo, in maniera più volpesca di The Fox, un Bignami da liceo magistrale contro ogni war sporca e sciovinista. Che solipsista! Al che, dovrebbe, a questo punto, venire davvero in Italia e iscriversi all’università Mercatorum. Per comprendere che, dopo il diploma ottenuto col CEPU, le future psicologhe e, chissà, prossime Giorgia Meloni, sono ex tamarre cresciute a pane, pene, urla da stadio, “imboccate”, fra un bovaro, un troglodita e un amante delle zoticone, da un educatore che lavora come assistente sociale al C.S.M. È lo stesso, semmai, sposato a una frigida femminista più racchia di Rosy Bindi e di certo non attraente come la rossa Adrienne Corri di Arancia meccanica. Ah, la domanda spontanea che mi sono sempre posto davanti a ogni versione di Pinocchio è la seguente: Geppetto, il quale è notevolmente âgée, ebbe un figlio morto, sostituito poi da quello di legno, che fu adottivo oppure fu ottenuto con l’inseminazione in vitro di un figo come Hugh Grant di About a Boy, quest’ultimo in vacanza “premio”, fra una Liz Hurley e una Divine Brown, alla pari dei “carabinieri” con pettinatura fascista e “gendarmi” meridionali adoratori di The Wall dei Pink Floyd, dediti d’estate, però al turismo sessuale in Thailandia o in Scandinavia? Cosa ne sa del Toro delle chiese… italiane, ha mai visto il Duomo di Prato frequentato dalla mia compianta Nonna Margherita, emigrata al Nord e sposata a un vero Carlo, salvatosi dal fascismo, combattendo la Seconda Guerra Mondiale e svolgendo lo stesso lavoro di Sean Connery in The Untouchables al fine di permettere a mia madre e a mia zia di frequentare la rinascimentale Firenze? Firenze, patria dello Stivalone, no, dello Stilnovo, la Toscana, la regione di Dante Alighieri, Livorno, la città di Modigliani, Firenze, ove lavorò Petrarca, no, lo psichiatra Petracca della scuola di Cassano.

Capolavoro? Ora, non scherziamo, non intendo recitare la parte del moralista, dunque del Grillo Parlante.

Dobbiamo essere fintamente neorealisti come del Toro che non conosce, forse, Roberto Rossellini e volete raccontarvi bugie per non ammettere che siete Leslie Nielsen de L’aereo più pazzo del mondo?

di Stefano Falotico

 

IL TEXANO DAGLI OCCHI DI GHIACCIO, recensione

Ebbene oggi, per il nostro immancabile e consueto, ci auguriamo apprezzato, appuntamento coi Racconti di Cinema, disamineremo lo splendido e perlaceo Il texano dagli occhi di ghiaccio, il cui titolo originale è l’assai più emblematico e meno generico The Outlaw Josey Wales, mirabile opus del ‘76 firmato dal grande Clint Eastwood (Lo straniero senza nome, Gli spietati), qui anche protagonista assoluto di tale capolavoro western dalle sottili venature crepuscolari, pregno di roboanti e furenti atmosfere spettralmente glaciali e ferocemente potenti.

HyperFocal: 0

Accolto favorevolmente dalla Critica ai tempi della sua uscita nelle sale, avvenuta oramai poco meno di cinquant’anni or sono, Il texano dagli occhi di ghiaccio totalizza, a tutt’oggi, su metacritic.com, ovvero l’internazionale sito aggregatore di medie recensorie più famoso al mondo, una lusinghiera percentuale del 69% di opinioni positive, ed è un film della consistente e avvincente durata notevole di due ore e quindici minuti netti e ipnotici, sceneggiato da Sonia Chernus & Philip Kaufman che, dal libro omonimo ad opera di Forrest Carter, poi divenuto Gone in Texas, trassero l’adattamento cinematografico con finezza sofisticata d’alta scuola, in fase di scrittura, accorta e precisa. Limando alcune parti presenti nel romanzo originario e concedendosi molte licenze poetiche assai affascinanti al fine di personalizzarlo, anzi, per meglio dire, affinché potesse naturalmente essere subito inquadrato e accordato a un’ottica consona allo sguardo eastwoodiano, all’epoca già consolidato e ascritto, a sua volta, all’interno d’un cineastico percorso molto coerente e puntuale. Eastwood, da par suo, v’aggiunse i suoi riconoscibilissimi tocchi raffinati, permeandolo e intarsiandolo, diciamo, cucendolo perfettamente a misura della sua cifra stilistica e della sua statura registica che già qui, ribadiamo, era rappresentativa dei suoi accertati e ben saldi stilemi unici e profondamente peculiari. Anche se, a onore del vero e per dovere di cronaca, inizialmente il film doveva essere diretto dal succitato Kaufman. Anzi, volutamente ci correggiamo ancora. Le riprese iniziarono sotto la direzione di Kaufman (La banda di Jesse James, Sol levante) ma, a causa dei continui diverbi e delle cosiddette irrisolvibili e non conciliabili differenze di vedute fra Eastwood e Kaufman, alla fine, col beneplacito della Warner Bros., Eastwood ne prese il comando.

Eastwood texano ghiaccio

Trama: Siamo in piena guerra di Secessione. Josey Wales (Eastwood) è un roccioso uomo che vive nel Missouri e fa l’agricoltore nel suo ranch. Vive con moglie e prole, cioè suo figlio. Pur essendo riuscito a non andare in battaglia, viene avvinghiato dentro una pericolosa spirale forse mortale… Per lui o per gli altri, cioè i nemici e gli efferati uccisori dei suoi affetti più cari?  Sì, perché la sua famiglia, nell’incipit, prima dei titoli di testa, venne barbaramente massacrata, cosicché Josey si vendicherà, divenendo amico, lungo il suo tortuoso viaggio, perfino di redenzione e in cerca della sua pace interiore, d’un indiano Cherokee (Chief Dan George). E non vi diciamo altro per non sciuparvi le sorprese e i colpi di scena micidiali di cui è ricolmo Il texano dagli occhi di ghiaccio. Sottolineando però quanto segue…

Fotografato splendidamente da un ex habitué del Cinema di Eastwood, il compianto Bruce Surtees, prodotto dallo stesso Eastwood tramite la sua Malpaso, su inappuntabili scenografie d’impatto dell’accoppiata Tambi Larsen e Charles Pierce, su belle musiche di Jerry Fielding, Il texano dagli occhi di ghiaccio è un’opera, oltre che storicamente inappuntabile, cresciuta col tempo vertiginosamente, così come accaduto per molti film di Eastwood e continua a stupirci e a magnetizzarci per via, innanzitutto, dell’enorme potere carismatico di Eastwood interprete che, in tale occasione, sfodera un ghigno truce da pelle d’oca e buca lo schermo in ogni inquadratura in virtù del suo fascino virile impressionante, destreggiandosi inoltre in una regia secca e senza fronzoli, bilanciata ottimamente e oscillante chirurgicamente fra momenti di robusto pathos emotivo e attimi melanconici di straordinaria poesia cristallina. Un film formalmente nitido e di gran vigore.

Sondra Locke Josey Wales

Il texano dagli occhi di ghiaccio riesce a essere sia struggente che avvincente e a profumare fulgidamente, dal primo all’ultimo minuto, di purissimo western come se ne facevano un tempo e, parimenti al vino pregiato e d’annata, più stagiona e meno invecchia, migliorando a ogni visione e col passare degli anni, stagliandosi e stampandosi maggiormente nella memoria in modo ipnotico. Insomma, un capolavoro.

Nel ricco ed eterogeneo cast, Bill McKinney, John Vernon, Sam Bottoms (L’ultimo spettacolo), Joyce Jameson, Will Sampson, Woodrow Pafrey e una giovanissima e bellissima Sondra Locke. Eastwood e la Locke si conobbero su questo set, fra loro immediatamente scattò la scintilla amorosa e, come sappiamo, per molti anni furono compagni sia nella vita professionale che, soprattutto, in quella reale e giustappunto sentimentale.

Particolarità che forse sfuggirà ai più: come detto, Josey Wales è del Missouri, quindi il titolo italiano è assolutamente fuori luogo, è il caso di dirlo, sebbene Wales si rechi in Texas nel corso del film. Forse è questa la meta della risoluzione dei conti finale?

di Stefano Falotico

 
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