Il silenzio degli innocenti, recensione

silenzio degli innocenti

Ebbene, prima o poi dovevamo arrivare al Silenzio degli innocenti, film epocale del quale io stesso un po’ smarrii memoria. E che, tra le frattaglie delle mie dimenticanze o rimembranze sepolte, rinvenni, rispolverandomi di lucentezza nel venirne ancora divorato e ammaliato.

Sto parlando, ripeto, del leggendario, sì, lo è, Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs) del compianto Jonathan Demme (PhiladelphiaQualcosa di travolgente). Pellicola della corposa durata di un’ora e cinquantotto minuti, vietata all’epoca ai minori di anni 14, uscita sugli schermi italiani nell’oramai lontano 5 Marzo del 1991.

Insignita dei cinque Oscar principali. È infatti, assieme ad Accadde una notte e a Qualcuno volò sul nido del cuculo, la terza pellicola nella storia della Settima Arte ad aver vinto per Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Attore Protagonista (Anthony Hopkins), Miglior Attrice protagonista (Jodie Foster) e Migliore Sceneggiatura non Originale (di Ted Dally, tratta dal romanzo omonimo, da noi edito dalla Mondadori, dello scrittore Thomas Harris).

Il silenzio degli innocenti è posteriore a Manhunter – Frammenti di un omicidio (1986) di Michael Mann, il quale era tratto dal primo romanzo (Il delitto della terza luna) di Harris vertente sulla fascinosa eppur mostruosa figura antropofaga del glaciale, ipnotico psichiatra-killer Hannibal Lecter.

Dicevo, non rividi più Il silenzio degli innocenti, se non visionando alcuni spezzoni a casaccio, dai primi anni novanta. Quando, dopo averlo perso al cinema poiché, essendo troppo piccolo, i miei genitori me lo proibirono o forse semplicemente non fui a conoscenza della sua esistenza, data la mia giovanissima, infantile età poco avvezza a questo genere di film, mio padre me lo mostrò, sviando in maniera giustamente, politicamente scorretta, le regole educazionali. Mio padre fu sempre molto avanti e fu ben conscio che io altrettanto già lo fossi, eh eh.

Lo noleggiò per me in VHS ancora prima che potessi solamente sfiorare la pubertà e inoltrarmi poi nei perturbanti, tremebondi turbamenti disagevoli dell’adolescenza stramba ed emozionalmente caleidoscopica di noi tutti. Sconquassati come fummo e come saranno, inesorabilmente, tutti coloro che varcheranno la dolce soglia dell’infanzia per avviarsi e correre tra gli anfratti, impauriti e allo stesso tempo sussultanti  e suggestionati di curiosità e gioia, dei neri e poi luminosi sentieri indecifrabili di uno spaventevole, vitale bosco nero rischiarato dai bagliori fuggevoli ma rivelatori dell’inevitabile, forse ancora più frenetico adagiarci in un lieto torpore, in un vivere morbosamente ambiguo e fintamente certo che spalancherà, di coscienza pienamente sopravvenuta, i nostri occhi all’incommensurabile e tonitruante vastità orrifica della vita stessa nella sua complicatezza emotivamente ondivaga tra l’euforia, gli attimi di letiziosa dolcezza e il mortificante essere consapevoli dell’irreversibile nostra florida immersione totale nella romantica o solo (dis)armonica (s)contentezza più agghiacciante e abissale. Probabilmente sprofondati nell’esistenza vissuta in chiara o torbidamente sensuale, sentimentale, ancora maggiormente e paradossalmente indistinta, cupa interezza solare e poi nuovamente spettrale. Sì, aggirando furbamente il divieto imposto dalla censura, vidi Il silenzio degli innocenti precocemente ma, al contrario, soltanto l’atra sera, integralmente lo riguardai tardivamente. La trama la conoscete tutti e non ci dilungheremo a dettagliarvela e vivisezionarvela come invece farebbe, chirurgicamente, una lettura esegetica della psicanalisi critica e puntigliosa applicata da Hannibal Lecter:

una giovanissima recluta dell’FBI, Clarice Starling (Jodie Foster), per conto del suo direttore, il dottor Crawford (Scott Glenn), incontra Hannibal Lecter (Anthony Hopkins), detenuto nel manicomio criminale di Baltimora, nella speranza di riuscire a carpire da lui, psicopatico assassino cannibale ma anche geniale investigatore dell’animo umano, preziose informazioni riguardanti un maniaco già responsabile di molti efferati crimini terrificanti. Il quale, dalla sezione investigativa, è stato denominato e ribattezzato Buffalo Bill (Ted Levine) per il suo agghiacciante capriccio di scuoiare le sue vittime.

Hannibal concede a Clarice ciò che le occorre per catturare Buffalo ma, in cambio, desidera ascoltare da Clarice alcune confessioni concernenti il trauma derivatole in seguito alla macabra, tragica morte di suo padre avvenuta quando Clarice aveva solamente dieci anni.

Fra Hannibal e Clarice, dopo alcune reciproche titubanze, s’instaura dunque una sorta di particolare transfert sui generis. Ove Hannibal, pur mantenendo intatta la sua raccapricciante maschera da mostro, però le impartisce sagge e illuminanti lezioni psichiatriche, scavando nel suo animo per cogliere e da lei estrapolare, forse, quell’umanità che oramai, da tempo immemorabile, segregato e sepolto vivo com’è nel nosocomio di massima sorveglianza e sicurezza, non sentiva più.

Clarice, pian piano, fidandosi sempre di più di quest’uomo così tanto repellente e orribile, a prima vista, ma al contempo così geniale e vulnerabile nell’infinito della sua paurosa anima in verità assai sensibile, trae dalla perspicacia e dalle facoltà intellettive, osiamo dire addirittura precognitive da chiaroveggente, ciò che le serve per fare irruzione in casa di Buffalo Bill.

Arriviamo, quindi, al finale al cardiopalma, mozzafiato, stupefacente e malinconicamente così triste da lasciarci con un inestirpabile brivido di terrore catartico che a noi spettatori perseguiterà tutta la vita.

In ciò consiste la grandezza del film di Jonathan Demme e non vogliamo paragonarlo, di sofistici parallelismi e stupide comparazioni alquanto inutili, col sopraccitato, antesignano e a suo modo capostipite Manhunter.

Entrambi sono dei capolavori progenitori di tutta una serie di sequel ed epigoni, più o meno riusciti, sul tema degli assassini seriali.

Se Mann adottò uno stile fiammeggiante costituito da riprese inducenti in noi l’adrenalina più pulsante di viscerali, frementi emozioni sanguigne, Demme è più secco e si fissa, con riprese geometricamente simmetriche, sui volti dei protagonisti con primi piani stupendi e magneticamente eloquenti.

Cammei di Chris Isaak e Roger Corman, musica del cronenberghiano Howard Shore e limpida fotografia strepitosa del grande Tak Fujimoto.

A distanza di quasi trent’anni dalla sua uscita, Il silenzio degli innocenti non mostra affatto, come si suol dire, i segni del tempo.

Sebbene, rivisto oggi, talvolta appaia leggermente forzato e compiacente comunque una certa compiaciuta spettacolarizzazione un po’ mainstream tipicamente hollywoodiana, ravvisabile soprattutto in alcune sequenze troppo roboanti e leggermente caricate, a tratti, di troppa enfasi recitativa, Il silenzio degli innocenti rimane inamovibilmente nell’olimpo dei capolavori.

Poi, checché se ne dica, oltre ad angosciare e a scuotere i nostri cuori in maniera terremotante e fenomenale, indubbiamente fa paura.

Per esempio, la scena notturna in cui Buffalo Bill adesca Catherine Martin (Brooke Smith) è veramente inquietante.

Inoltre, circolano molte dicerie false sul minutaggio dell’interpretazione di Hopkins. Si dice, infatti, che pur avendo vinto l’Oscar come protagonista, nel film compaia non più di quindici minuti.

In realtà, sono molti di più.

di Stefano Falotico

 

Lascia un commento

Home Anthony Hopkins Il silenzio degli innocenti, recensione
credit