THE DINNER, recensione
Finalmente, a distanza di circa una decade, no, solamente a sette anni dalla sua uscita nelle sale, vidi ieri sera tale film. E quindi, anzi quivi, sganciato da vincoli editoriali assai costrittivi, esausto, no, esaustivamente, no, semplicemente e personalmente ne voglio parlare brevemente in maniera forse stilisticamente rocambolesca. Alla mia maniera, non manieristica, bensì flamboyant e falotica. Film pedante e assai pesante, eppur interessante sotto molti aspetti, altresì soporifero oltre ogni limite, sofisticato e intellettuale, dedicato a un target prettamente adulto, forse radical–chic, in cerca di emozioni gelide, raffreddate, di vicende e trame all’apparenza lineari eppur, se non arzigogolate, perlomeno complicate e impregnate, oltre che impegnate, di vicissitudini a base di traumi mai risolti e malattie mentali sfiorate, poco approfondite, in maniera inquietante però accennatene. Di tal film, anzi, voglio sol accennarvi senza troppo dilungarmi. Dopo il magnifico, superiore Gli invisibili (Time Out of Mind), Richard Gere per l’occasione torna a lavorare col regista Oren Moverman, il quale ivi adatta e traspone il romanzo La cena (Het Diner) di Herman Koch. The Dinner non è il remake americano de La cena di Ettore Scola ma, similmente a tale film citatovi, parimenti è inconcludente, artefatto e… “fatto” per piacere al pubblico appartenente a quello succitato e non mi riferisco ai gusti culinari, bensì cinefilo-sociali con annessi assaggini, no, desideri proibiti di qualcosa di gustoso e cucinato in modo sfizioso, altresì forse a tratti perfino vomitevole in senso lato e non soltanto, a livello figurato, digestivo… ah, i digestivi… Trama, fedelmente e sottostante copia-incollatavi da Wikipedia e inseritavi prontamente in corsivo: Stan è un senatore che sta per presentare una nuova legge al congresso degli Stati Uniti e Paul è insegnante di storia al Liceo. Ad una cena in un lussuoso ristorante tra i fratelli e le rispettive mogli, emerge un orribile segreto del recente passato, che coinvolge entrambe le famiglie.
Be’, che dire, una sinossi davvero striminzita e Wikipedia di certo (non) si è sprecata… Stan, di cognome Lohman, è incarnato da un azzimato, brizzolato, no, completamente canuto eppur per niente caduco, anzi, sempre fascinoso Richard Gere in forma, se non smagliante, sicuramente brillante e azzeccato per la parte assegnatagli. Sì, è decisamente incalzante, no, sol calzante. Mentre sua moglie, di nome Katelyn, ha le fattezze sensuali di Rebecca Hall. Suo fratello Paul è invece interpretato da un eccellente Steve Coogan (Stanlio & Ollio) e la sua consorte, Claire, dalla puntuale Laura Linney. Dopo un incipit faticoso e qualche visualizzato(ci) flashback di troppo, dopo una prima mezz’ora tanto narrativamente convulsa quanto confusa, finalmente entriamo nel vivo per l’appunto della (vi)cen(d)a… narrataci e la situazione meglio focalizziamo. Fra pietanze assortite e un cameriere assai elegante, un po’ cicciottello, qualche famigliare schermaglia e tanti siparietti verbosi conditi con battute non sempre ficcanti e serviteci d’ingredienti dietetici, no, diegetici molto stomachevoli, il film prende pian piano quota e ci appare decisamente, dolcemente più digeribile e godibile rispetto al suo iniziale “aperitivo” poco frizzante. Malgrado alcuni dialoghi, ripeto, risultino veramente ridondanti, poco verosimili e, sinceramente, non possano andarci giù facilmente. A tenere banco è il “capotavola”, a livello recitativo, Coogan che si sobbarca quasi tutto il peso della scorpacciata, no, della “degustazione” offertaci da Moverman. Il quale, grazie all’ipnotica e suadente fotografia mutevolmente cromatica d’un ispirato Bobby Bukowski, riesce a piazzare qualche colpo non solo in mezzo a un ristorante che certamente non è un’osteria od enoteca analoga/he a quelle frequentate dal celeberrimo scrittore Charles dal cognome identico, oh oh. Fra immagini languide, digressioni patetiche e le “esuberanze” non solo attoriali d’un Coogan, rimarco ancora, che pazzia, no, impazza nella parte del “pazzo” deluso e mortificato dal suo lavoro frustrante d’insegnante di Storia, anacronistico in tempi di social, questi ultimi i veri “maestri” per i giovani, una conturbante ma superflua Chloë Sevigny nei panni dell’ex amante di Gere/Lohman, il film non va da nessuna parte ed è più furbo del personaggio della stronzetta Katelyn/Hall. Sebbene possa, a tratti, piacere e ammaliare tal soufflé e manicaretto cinematografico ripieno di gourmet, no, frames girati con cura e taste dalla sobrietà visiva inequivocabile. 2h di durata però sono eccessive e andavano intervallate con un “sorbetto” di matrice più bellamente registica e maggiormente saporita…
di Stefano Falotico
OSCAR(s) 2024 – La FULL LIST dei Winners!
From Deadline.
Here are the winners at the 96th Academy Awards:
Best Picture
Oppenheimer
Emma Thomas, Charles Roven and Christopher Nolan, Producers
Actress in a Leading Role
Emma Stone
Poor Things
Directing
Oppenheimer
Christopher Nolan
Actor in a Leading Role
Cillian Murphy
Oppenheimer
Music (Original Song)
“What Was I Made For?” from Barbie
Music and Lyric by Billie Eilish and Finneas O’Connell
Music (Original Score)
Oppenheimer
Ludwig Göransson
Sound
The Zone of Interest
Tarn Willers and Johnnie Burn
Live Action Short Film
The Wonderful Story of Henry Sugar
Wes Anderson and Steven Rales
Cinematography
Oppenheimer
Hoyte van Hoytema
Documentary Feature Film
20 Days in Mariupol
Mstyslav Chernov, Michelle Mizner and Raney Aronson-Rath
Documentary Short Film
The Last Repair Shop
Ben Proudfoot and Kris Bowers
Film Editing
Oppenheimer
Jennifer Lame
Visual Effects
Godzilla Minus One
Takashi Yamazaki, Kiyoko Shibuya, Masaki Takahashi and Tatsuji Nojima
Actor in a Supporting Role
Robert Downey Jr.
Oppenheimer
International Feature Film
The Zone of Interest (UK)
Costume Design
Poor Things
Holly Waddington
Production Design
Poor Things
Production Design: James Price and Shona Heath; Set Decoration: Zsuzsa Mihalek
Makeup and Hairstyling
Poor Things
Nadia Stacey, Mark Coulier and Josh Weston
Writing (Adapted Screenplay)
American Fiction
Written for the screen by Cord Jefferson
Writing (Original Screenplay)
Anatomy of a Fall
Screenplay – Justine Triet and Arthur Harari
Animated Feature Film
The Boy and the Heron
Hayao Miyazaki and Toshio Suzuki
Animated Short Film
War Is Over! Inspired by the Music of John & Yoko
Dave Mullins and Brad Booker
Actress in a Supporting Role
Da’Vine Joy Randolph
The Holdovers
De NIRO, ingiustamente, a mani vuote!
LA ZONA D’INTERESSE, recensione
Quanto leggerete nelle prossime righe (e tutti in f… ga, no, riga con pettinatura “da righello”) sarà falso, forse però meno di tal film sopravvalutato in modo più tragicomico della celeberrima battuta pronunciata da Paolo Villaggio ne Il secondo tragico Fantozzi, naturalmente riguardante La corazzata Potëmkin.
Diciamocela, La zona d’interesse è una cagata pazzesca! Detto apoditticamente ciò, dico altro, sottostante.
Oggi recensiamo l’acclamato, nuovo ed esorbitante opus del sempre più spiazzante e sorprendente Johathan Glazer (Sexy Beast, Under the Skin), ovverosia La zona d’interesse (The Zone of Interest), finalmente approdato sui nostri grandi schermi dopo aver giustamente ricevuto, pressoché unanimemente, critiche molto lodevoli. La zona d’interesse è stato candidato a 5 premi Oscar e, oltre ad essersi aggiudicato la nomination per la migliore sceneggiatura non originale, ad opera peraltro di Glazer stesso, e quella nella categoria di miglior film straniero, è in lizza nelle due maggiori, vale a dire Best Picture dell’anno & Best Director, cioè regista. Candidature meritate ampiamente e, in effetti, La zona d’interesse, così come disamineremo nelle righe a venire, è sicuramente una delle migliori pellicole imperdibili della stagione. O forse no? Ah ah, classica freddura à la Falò, oh oh. Presentato in Concorso alla settantaseiesima edizione del rinomato Festival di Cannes, ove vinsei il Grand Prix, La zona d’interesse dura centocinque minuti circa, corposi, tanto fortemente inquietanti quanto cinematograficamente estasianti. Mica tanto… Eccone la trama, riportatavi fedelmente dalla precisa sinossi “allegataci” a piè del trailer italiano immessoci per conto di I Wonder Pictures.
Un uomo e sua moglie tentano di costruire una vita perfetta in un luogo apparentemente da sogno: giornate fatte di gite in barca, il lavoro d’ufficio di lui, i tè con le amiche di lei e le scampagnate in bici con i figli. Ma l’uomo in questione è Rudolf Höss, comandante di Auschwitz, e la curata villetta con giardino della famiglia si trova esattamente di fianco al muro del campo…
L’uomo è incarnato dal bravissimo e luciferino Christian Friedel nei panni del realmente esistito nazista Rudolf Höss, mentre la sua consorte, di nome Hedwig, è interpretata dalla strepitosa, altrettanto sinistra e paurosa, perlomeno, naturalmente per ciò che concerne il suo personaggio, Sandra Hüller. Quest’ultima candidata agli Oscar nella categoria di miglior attrice protagonista per il magnifico Anatomia di una caduta. A sua volta nominato agli Academy Awards e, alla pari de La zona d’interesse, osannato alla kermesse cannense suddetta ove s’aggiudicò la Palma d’oro. Un annus mirabilis, dunque, per la tedesca, poliedrica e mutevole Hüller (da non confondere con Adolf Hitler, ih ih). La quale, soltanto, per modo di dire, con due prodigiose performance in rispettive pellicole parimenti mirabili, per di più entrambe entrate di diritto nella rosa dei migliori film in gara per aggiudicarsi l’agognata statuetta dorata, da “anonima” attrice famosa solamente in territorio germanico, in un batter d’occhio, è ascesa vertiginosamente alla lodata popolarità internazionale. Ora, al di là d’alcune inquadrature mozzafiato e da pelle d’oca, in ogni senso, tanto stupende a livello figurativo quanto raggelanti sul piano emozionale, The Zone of Interest rimane una furbata bella e “buona” che non (re)inventa alcunché, peraltro traendo capziosamente, dichiaratamente origine dalla citata, quivi rielaborata e letta, favola dark dei fratelli Grimm, vale a dire Hänsel e Gretel, ah ah, no, dal libro omonimo di partenza di Martin Amis, qui da Glazer trasformato in immagini calligrafiche. Glazer, estetizzandolo magnificamente, eppur furbescamente, grazie all’eccelsa fotografia di Łukasz Żal, assurge a genio immediato, perlomeno secondo l’intellighenzia odierna, enormemente erronea, che ha preso un abbaglio colossale. Non è un colossal alla Schindler’s List e allora, in tale 2024 nazista che vuole bruciare tutto, esaltando invece il superfluo, oggi come oggi, per l’appunto, l’appena nominatovi film di S. Spielberg diviene mediocre (forse, col senno di poi, lo è, comunque, eh eh), mentre l’operetta leziosa di Glazer è accolta come un irrinunciabile masterpiece da non ficcare, per nessuna ragione al mondo, nel “forno crematorio” delle pellicole da ardere. Anzi, di contraltare, da eleggere in gloria in base a dittatoriali, hitleriane falangi “armate” di pennivendoli che la incensano ed elevano oltremodo.
di Stefano Falotico
THE HOLDOVERS, lezioni di vita: recensione
Alexander Payne ha già 2 Oscar come sceneggiatore. Questa volta a vincerlo sarà Hemingson?
Finalmente, anche io vidi The Holdovers, sottotitolato, qui da noi, Lezioni di vita. Anzi, ho appena finito di vederlo e utilizzo dunque, più appropriatamente, il passato prossimo, essendo trascorso un tempo alquanto breve fra la mia visione avvenuta e completata e l’incipit di tal opus, no, l’inizio di quando iniziai/ho iniziato a scrivere la seguente recensione in merito, un tempo verbale giustappunto più pertinente e mi pare più in linea con quello atmosferico del film stesso, no, anche di Bologna nella giornata del 23 Febbraio di tal anno in corso, dì nel quale guardai, anzi, ho guardato il lungometraggio presto disaminatovi e preso in esame a mo’ dello scorbutico professore Paul Hunham incarnatovi da Paul Giamatti. Ho appena scritto una frase insensata e un anacoluto assurdo, un periodo soprastante privo d’ogni costrutto significante… qualcosa? Può essere ma mi piace essere creativo e qua, libero da pedanterie grammaticali e/o sintattiche, no, riguardanti le asfissianti regole classiche e editoriali, volteggio come meglio si confà al sottoscritto. Ah, ma che cosa ho di nuovo scritto?
Diretto dall’author Alexander Payne, eh eh, The Holdovers è senza dubbio un bel film, lieve e sanamente sentimentale, oltre che appieno godibile, bellamente dolce senza quasi mai scadere nel patetico più retorico o melenso, sebbene sia ascrivibile totalmente al mainstream autoriale, sì, eppur hollywoodiano tipico del Cinema, per quanto personale, pur sempre convenzionale. Il che non corrisponde necessariamente alla parola banale… attenzione!
Accolto molto favorevolmente dall’intellighenzia critica mondiale, seppur non in maniera unanime, The Holdovers è attualmente candidato a cinque Oscar in categorie rispettivamente molto importanti che però non includono, diciamo, la nomination al miglior regista, quest’ultimo rappresentato nientepopodimeno che dallo stesso Payne. Il che è paradossale soprattutto se pensiamo che The Holdovers invece compare, in prima linea, tra le pellicole, ben dieci quest’anno, che gareggiano per contendersi lo scettro di Best Motion Picture of the Year. In compenso, per modo di dire, Payne è stato nominato per la sceneggiatura? No, spesso delle sue opere è anche writer, stavolta no, poiché la penna di quest’opera porta la firma di David Hemingson.
Hemingson è candidato? Certo. Se, di The Holdovers, vole(s)te leggere la trama, da Wikipedia, e conoscere i premi, non solo inerenti gli Academy Awards, già assegnati che vinse o a cui tutt’ora “ambisce”, eccovi il link appartenente all’enciclopedia generalista online appena succitata:
https://it.wikipedia.org/wiki/The_Holdovers_-_Lezioni_di_vita
Estraendovene le prime righe, riportatevi fedelmente, da me “corrette” e inserite in corsivo…
New England, 1970. Paul Hunham è un impopolare insegnante di lettere classiche alla Barton Academy a cui viene affidato il compito di supervisionare i quattro studenti che rimarranno nel collegio durante le vacanze di Natale. A loro si aggiunge anche Angus Tully, un ragazzo intelligente ma ribelle costretto all’ultimo minuto a rimanere a scuola dopo che la madre ha deciso di andare in luna di miele con il nuovo marito. Rimasto solo con i cinque adolescenti e Mary Lamb, la cuoca che ha recentemente perso il figlio in Vietnam, Paul regola severamente le giornate degli studenti, rendendosi ancora più impopolare. Pochi giorni dopo l’inizio delle vacanze, i genitori di uno dei cinque ragazzi vengono a riprendersi il figlio e si offrono di portare anche gli altri studenti in vacanza con loro, ma dato che la madre di Angus è irreperibile, l’adolescente è costretto a rimanere da solo alla Barton con Paul e Mary. Il rapporto con il professore resta teso, tanto che Angus scappa per i corridoi ed entra in palestra, dove si sloga una spalla. Paul lo porta in ospedale, dove Angus mente sul modulo per l’assicurazione per proteggere Paul dalle responsabilità dell’accaduto. I due cominciano quindi a legare.
Eccetera, eccetera. L’episodio, sopra dettovi e chissà se da voi letto, concernente lo slogamento della spalla ai danni di Danny, no, Angus, interpretato da un puntuale ed esordiente Dominic Sessa, è onestamente poco plausibile ma è la lussazione, no, il materassino con le molle, no, la molla che smuove l’azione e le conseguenti, a catena, reazioni, perfino emotive e diegetiche.
Da’Vine Joy Randolph vincerà sicuramente l’Oscar come miglior attrice non protagonista e non ha rivali che tengano. Mentre Paul Giamatti sarà scalzato dal favorito Cillian Murphy di Oppenheimer come Best Actor? E Kevin Tent s’aggiudicherà la statuetta dorata per il montaggio? Le belle musiche, con echi alla John Lennon dei tempi d’oro, a cura di Mark Orton, non candidate all’Oscar, sono meritevoli e The Holdovers merita davvero… i plausi ricevuti e forse qualche Oscar che riceverà?
Ecco, dopo lo scivolone di Downsizing, il Cinema di Payne torna a “vivere alla grande”, risalendo alle origini di sé stesso e (ri)tornando sui banchi di scuola… di Election? Reinventando, a tratti, il sottovalutato Scent of a Woman di Martin Brest con Al Pacino e costruendovi un “Nebraska” in a(m)biti studenteschi con tanto di dolceamara morale annessa e un po’ indigesta?
The Holdovers è tante cose e “imita”, seppur originalmente, tanti autori, chissà se più bravi del “copione” Payne, a partire da Mel Brooks nelle scene slapstick ai limiti del demenziale più intelligente, no, James L. Brooks coi suoi siparietti melodrammatici più garbati e sofisticati. Agli americani tanto è garbato, a noi europei leggermente meno. A me invece? Parecchio ma non troppo. È un film delicato, intimistico, fotografato meravigliosamente da Eigil Bryld ma mancante forse di sentito brio e incapace di emanare emozionanti e purissimi brividi. Tutto sembra infatti, per quanto elegantemente girato con stile inappuntabilmente “spigliato”, spogliato di genuinità vera. Ma Payne è questo, prendere o lasciare. Puntualmente, alla fine di ogni suo film, tralasciando per l’appunto Downsizing, non sappiamo bene se ha girato un capolavoro un film “furbo”, lezioso e da chi vuol fornirci lezioni… non solo di vita da ex “stronzetto” collegiale figlio di papà, “autobiografico” delle sue amarezze forse non davvero tali ma allestite da director “piacione”.
The Holdovers, ripeto, è un film lodevole ma troppo lungo, no, lungo le sue due ore e un quarto circa di durata, raramente commuove davvero, scevro com’è di visceralità autentica. Ma è il mio opinabile punto di vista. Giusto? Payne frequentò l’università? Fu un fighetto? Mah. Voi sapete, si sa… che non potete sapere. Sovente vi date al sapere per fingere di essere Payne. Dunque, pane al pane, vino al vino, diamo a Payne la patente di gran regista e ora studiate… da lui. Ah, siete autodidatti? Quindi, topi, no, tipi alla Falotico. Bravi. Siamo stufi dei maestri(ni). A parte gli scherzi, The Holdovers è molto toccante, specialmente nell’ultima mezz’ora ove, mediante una serie tanto veloce quanto efficace di trovate, probabilmente, sì, un po’ prevedibili eppur al contempo ficcanti, in virtù di registici colpi magistrali inequivocabili, tocca nel profondo le nostre anime, colpendo vivamente nel segno robustamente.
Osservazione finale: nel Cinema contemporaneo, non sol americano o filo-esterofilo, anche appartenente ad altri continenti che esulano dal Nord America, dagli States, quindi financo dall’Europa e naturalmente dalla nostra “piccola” Italia (immantinente citerò un regista italianissimo sebbene oramai affiliato a co-produzioni estere), c’è una costante abbastanza ravvisabile a occhio nudo, diciamo, imprescindibile e inquietante. Il tema, ovvero, degli ospedali psichiatrici, delle persone malate di mente e internate, ricoverate in centri di salute mentale e/o affette da patologie a riguardo della mental illness, è pressoché onnipresente in molteplici, anzi, innumerevoli pellicole di ogni nazionalità. Inoltre, tale scottante, osé, no, oso dire scabroso argomento spinoso, non fa parte solamente delle storie attinenti alla realtà oppure ispirate a essa, più o meno romanzate o da un cineastico occhio e sguardo poetico filtrate e rielaborate, inventate, perfino edulcorate o, di contraltare, enfaticamente ingigantite, semmai al contrario minimizzate. Qui infatti, ancora una volta, assistiamo al personaggio del padre di Angus che, negli anni settanta (con tanto di susseguente capodanno del ‘71), è rinchiuso in un frenocomio. Ma non è, ribadisco e meglio ivi spiego, l’unico caso, non clinico, eh eh. Ricordiamo brevemente, a titolo puramente esemplificativo, oltre all’inevitabile Joker/Phoenix di Todd Phillips, la Sevigny di Bones & All di Luca Guadagnino, appunto (implicita e qui esplicitata cit. sopra) e Gladys Pearl Baker, alias Julianne Nicholson (che non è la figlia del Nicholson di Qualcuno di volò sul nido del cuculo, uh uh), di Blonde by Andrew Dominik con Ana de Armas nei panni di sua figlia Marilyn Monroe.
di Stefano Falotico
ANATOMIA DI UNA CADUTA, recensione
Libero ivi di volteggiare, pindaricamente, di “verbalizzare” in ogni senso a modo mio, senza paramedici, no, parametrici dogmi editoriali e asfittiche regole SEO castranti, recensirò nelle prossime righe, non so se bellamente o, giustappunto, in modo falotico e personalissimo, quello che è indubbiamente il film migliore dell’anno nella maniera più assoluta. Son apodittico anche se subito preciso che Anatomia di una caduta, il cui titolo, internazionalizzato e inglesizzato, è Anatomy of a Fall, in originale invece, naturalmente, Anatomie d’une chute, giustamente vincitore della Palma d’oro allo scorso Festival di Cannes, è uscito nel 2023 e per “anno” intendo quindi ciò che è ancora attuale, cronologicamente in senso lato, in previsione dei prossimi Academy Awards che saranno assegnati il mese venturo. Anatomia di una caduta non vincerà come Miglior Film Straniero, categoria in cui, ahinoi, non concorre assieme al nostrano Io capitano, che di possibilità di vittoria ne ha pochissime (e con tutto il patriottismo, lecito o meno, possibile, è scandaloso che non possa battersela con tal stupendo film francese, con parti in inglese, decisamente superiore) e il ben posizionato La zona d’interesse di Jonathan Glazer, quest’ultima pellicola avente per co-protagonista nientepopodimeno che la stessa interprete principale di tale, ribadisco, magnifico e ipnotico, inarrivabile, da me qui disaminato, opus di Justine Triet, ovverosia la strepitosa Sandra Hüller. La quale, nel giro di un arco temporale brevissimo, con le sue prove appena succitate è ascesa nell’empireo delle attrici più talentuose da tenere d’occhio. E che, a mio avviso, meriterebbe di alzare la statuetta dell’Oscar come Best Actress per cui è in gara e nominata. Le favorite al trionfo finale, stando agli allibratori e alle quote, perfino dateci e offerte dalla SNAI, non solo dai maggiori “esperti” di predictions per quanto riguarda le statuette dorate, sono, come sapete bene, Lily Gladstone, la quale di Killers of the Flower Moon è invece attrice non protagonista, eh eh, dunque, a prescindere…, sarebbe una victory immeritata, e la bella Emma Stone che, in Povere creature!, lo è, non solamente di fatto ed estetiche fattezze avvenenti, bensì anche di nome del suo personaggio, cioè Bella Baxter. Considerando che la Stone ha vinto l’Oscar soltanto qualche anno or sono per La La Land e tenendo conto che la Gladstone, sotto ogni punto di vista, per quanto bravina, come appena sopra dettovi, è stata generosamente candidata in una category sbagliata, rimarco tosto che la Hüller è colei che, a essere obiettivi, è la migliore del terzetto e della cinquina composta inoltre da Annette Bening & Carey Mulligan. La sua prova, in Anatomia di una caduta, è qualcosa di sensazionale, di prodigioso e mostruoso. Sarebbe veramente vergognoso che a vincere non fosse lei. Anatomia di una caduta, oltre a Best Actress, è candidato per il montaggio, Miglior Film “mondiale”, Miglior Regia e Sceneggiatura Originale, scritta dalla stessa director Triet con Arthur Harari. La trama, riportataci da Wikipedia e seguentemente riportatavi da me fedelmente, perdonate per la ripetizione fra l’altro voluta, è striminzita ma senza spoiler sanamente non necessari: Sandra, Samuel e il loro figlio di 11 anni, Daniel, ipovedente, vivono da un anno in una località remota in montagna. Un giorno Samuel viene trovato morto ai piedi della loro casa e Sandra diventa una sospettata.
Scontro in tribunale, tagliente e senza esclusione di colpi, fra l’avvocato difensore di Sandra, anche suo amico, Vincent Renzi (un eccellente Swann Arlaud), e il Pubblico Ministero “inquisitore” (un altrettanto bravissimo Antoine Reinartz). Testimone, per modo di dire, incomoda è la studentessa di Lettere, aspirante giornalista Marge Berger (Jehnny Beth), l’ultima donna e persona, oltre al figlio Daniel (Milo Machado Graner), ad aver visto Sandra prima della morte di suo marito. In quanto, prima della tragedia successa, fu ospite di Sandra per un’intervista. Ma chi è Sandra, Sandra Voyter? Questo è il suo cognome ma cosa sappiamo di lei davvero? Lo scopriremo solo vedendo questo masterpiece teso, vibrante, girato divinamente, che inizia come un giallo à la Dario Argento dei tempi d’oro e non quello decaduto non sol di Giallo, eh eh, prosegue come una detection story assai sui generis con atmosfere rarefatte miste a Bergman e Truffaut, esplode vividamente come un legal thriller psicologico d’alta scuola e scrittura magistrale. Sorretto da una titanica, inquietante, immensamente sfaccettata, espressiva e al contempo commovente Sandra Hüller accattivante oltre l’impensabile, che recita illuminata d’attoriale grazia impari.
di Stefano Falotico
La società della neve, recensione
Film per palati fini? Ih ih.
Ivi sganciato da vincoli editoriali, libero di furoreggiare creativamente, disamino a mio modo, falotico, il bel film, sebbene non eccezionale, perlomeno a mio avviso, così come esplicherò nelle righe a venire, La società della neve. Il cui titolo originale è La sociedad de la nieve, a sua volta “americanizzato” internazionalmente in Society of the Snow.
Film Netflix, presentato in chiusura all’ultima edizione del Festival di Venezia, per l’esattezza, l’ottantesima, è un interminabile, in termini di minutaggio, sebbene appassionante eppur non del tutto convincente, opus, giustappunto, della durata di due ore e ventiquattro minuti circa, compresi i lunghissimi titoli di coda, diretto dal regista Juan Antonio Bayona, qui accreditato, nel nome, sol come J.A., da lui stesso sceneggiato assieme a una sfilza di writers collaboratori (elencati su Wikipedia nel link che sotto vi riporto, in riferimento all’inerente trama), a partire dall’omonimo libro di Pablo Vierci, concernente il tragico e inquietante accaduto in quel della Cordigliera delle Ande nel ‘72, quando il volo 75, con a bordo tutti i membri d’una giovanile squadra di rugby diretta verso il Cile, più alcuni relativi lor parenti, si schiantò e violentissimamente precipitò fra le suddette montagne in seguito a una mal calcolata turbolenza devastante. La maggior parte dei passeggeri, compreso il pilota e tutto l’equipaggio, morirono sul colpo o dopo poco, agonizzando terribilmente. Anche alcuni dei superstiti, rimasti feriti non gravemente o addirittura totalmente illesi, a distanza di breve tempo, schiattarono per il freddo e le condizioni ambientali e climatiche, specialmente notturne, a bassissime temperature disumane. Alla fine, dei quarantacinque viaggiatori, ne rimasero vivi solamente sedici. Dal giorno tremendo dall’incidente alla “miracolosa” salvazione avvenuta, però, scattò, diciamo, l’istinto di sopravvivenza di natura antropofaga poiché, terminato il cibo, per non morire di fame, i “vivi” furono giocoforza costretti a mangiare i morti… Ah, il cannibalismo immorale dei mortali… quasi necrofili o solo disperati, sempre a rischio di restare ibernati, dalle valanghe divorati e soffocati, lacerati e assiderati, forse semplicemente, per modo di dire, gravemente infreddoliti e metaforicamente, nell’animo, scarsamente e scarnamente, riscaldati?
Se volete leggerne la sinossi dell’enciclopedia generalista sopra menzionatavi, cliccate qui:
https://it.wikipedia.org/wiki/La_societ%C3%A0_della_neve
Senz’esservi oltremodo pedante e descrittivo di esegesi particolareggiata e pleonastica, affermo immantinente che la pellicola, dopo una prima mezz’ora abbondante, assai palpitante e fortemente spettacolare, visionaria e naturalmente angosciante, pian piano non decolla più, viaggiando troppo sulle traiettorie aeree, no, enfatiche d’una retorica esagerata e virando verso una romanzata, dolciastra visione poco a volo, cinematograficamente parlando, d’aquila, accartocciandosi e bruciando in melensi siparietti poco credibili e stentando, non poco, in verosimiglianza. Eccedendo in riprese flou miste a panoramiche delle Ande che, più che a una tragedy corposa e degna d’aroma, figurativo ed emozionale, veritiero, paiono essere intonate all’ex estetica da cartolina dell’ex celeberrima pubblicità del cioccolato Novi, a sua volta shakerata, diluita e dilungata in una scopiazzatura dell’Everest… di Baltasar Kormákur. Fra svolazzi, ripeto, soprattutto estetici, oltre che discutibilmente etici, poco realistici, digressioni superflue contrappuntate invece, bellamente, da scene invece ad alto tasso adrenalinico dense di sentito pathos, La società della neve, che rappresenta la Spagna, nella categoria di miglior film straniero, gareggerà e rivaleggerà contro il nostrano Io capitano e, in prima linea (non Alitalia, eh eh), col favorito Anatomia di una caduta… non d’un aeroplano, eh eh. Dunque, dopo il semi-misconosciuto I sopravvissuti delle Ande e il più famoso, però non di certo eccelso e sinceramente dimenticabile, Alive con Ethan Hawke & Vincent Spano + comparsata di John Malkovich, quest’ultimo liberamente ispirato al romanzo di Piers Paul Read, Tabù e annesso sottotitolo chiarificatore, Bayona ritorna sul luogo del delitto, no, di tale storia oltre i confini dell’incredibile a base di disgustoso cannibalismo scioccante.
A tratti incollandoci allo schermo, spesso invece, ahinoi, annoiandoci e banalizzando la vicenda, rendendola, specialmente negli ultimi 60 min., decisamente stomachevole. Peccato.
Siamo oramai al terzo tentativo di rendere viva quest’allucinante tragedia di morte, sofferenza, coraggio, dolore e orrore. Dei tre tentativi di salvataggio, no, di tal “trasposizione”, La società della neve, pur non essendo affatto un capolavoro, neppure sfiorandone minimamente le vette, non montagnose, eh eh, ne è comunque la “versione” migliore.
Figuratevi le altre succitate due… roba indigeribile come la carne umana per chi non è Hannibal Lecter.
Il quale, peraltro, seppur facendosene scorpacciate e gran magnate, non era esperto di grigliate al sangue ghiacciato.
Freddura finale del Falò, oh oh.
Inoltre, il protagonista, sin a un certo punto… (e non voglio compiere spoiler), è scarnificato, no, incarnato dalla versione uruguaiana, a livello fisionomico, di Adam Driver, ovverosia Enzo Vogrincic, mentre Fernando Parrado, detto soltanto Nando, dall’attore Agustin Pardella. Ragazzo fotogenico e talentuoso che speriamo non venga, nella carriera, arrostito.
Da cui il detto, in linea con la “tematica” del film, dal Pardella, no, dalla padella alla brace, ah ah.
di Stefano Falotico
THE AVIATOR, recensione
Quivi libero da restrittivi e pedanti, quasi dittatoriali dettami editoriali e tediose regole SEO ammorbanti, recensirò il controverso, fascinoso, da molti erroneamente considerato “algido”, The Aviator. Opus reputato peraltro minore, a mio avviso, invece, quasi il migliore del quintetto collaborativo fra Leo Dicaprio e monsieur Scorsese. Detto ciò, The Aviator non è affatto un capolavoro e nemmeno gli si avvicina, eppur in molti punti avvince, addirittura emoziona e commuove, in virtù d’uno stratosferico DiCaprio di natura brandiana, mimetico in modo spettacolare e carismatico oltre l’immaginabile. Sebbene, nel suo incipit e forse per la prima ora di tal pellicola dalla durata corposa, ai limiti dell’insopportabile, specialmente interminabile, la sua recitazione appaia, a prima vista, artefatta e già imitativa del De Niro dei tempi d’oro. Tutto mossette con la solita manina a lisciarsi i capelli e la nuca impomatata del suo Howard Hughes non biondo di natura, com’è Leo, bensì corvino. Pian piano, la sua recitativa prova, ripeto, inizialmente e apparentemente incerta, s’innalza ed è il caso di dirlo, si brucia come Icaro? No, prende il volo ad alta quota alla pari dell’Hercules, l’idrovolante da trasporto progettato, da tempo immemorabile, da Hughes, in questo fascinoso, seppur irrisolto, contorto e anomalo biopic rutilante ed estroso, diretto da Scorsese e sceneggiato-romanzato, molto all’acqua di rose e con punte nella retorica più tronfia, dallo specialista giustappunto dei colossal dispendiosi, alias John Logan. The Aviator ebbe un budget dalla portata clamorosa e metaforicamente analoga a un enorme transatlantico dell’aeronautica militare ma, obiettivamente, fu girato, non sol in cielo, assai meglio di Top Gun: Maverick.
Se non avete mai visto questo film, oramai uscito nei cinema mondiali ben due decadi or sono e, prima di vederlo, voleste leggerne la trama “dettagliata”, altresì inevitabilmente sommaria e generalista, ovviamente eccovi appioppato, sottostante, il link alle parole detteci e fornite noi da Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/The_Aviator
Un cast bellamente assortito e ineguagliabile ove, oltre al citato super protagonista assoluto DiCaprio, svetta naturalmente Cate Blanchett, per tale suo ruolo vincitrice dell’Oscar come miglior attrice non protagonista, nei panni dell’ex moglie di Hughes, ovverosia la diva ed eterna Katharine Hepburn, neanche a farlo apposta, oppure casualità non ricercata, ah, delir(i)o, a tutt’oggi l’attrice detentrice del record di Academy Awards vinti come incontestata Best Actress insuperata. Poi sposa di Spencer Tracy e donna complessa(ta), malgrado da “chiunque” amata…
Kate Beckinsale è invece un’Ava Gardner figa ma senz’aura, priva di vita, totalmente anodina e addirittura impalpabile, “bruttina”. Cosicché, fra un Alec Baldwin già grasso ma bravo, non ancora indagato e inguaiato, una fulminea toccata e fuga più rientrata in scena “muta” e pressoché invisibile, nella scena all’ospedale in cui Hughes è ricoverato e gravemente traumatizzato, d’un Jude Law/Errol Flynn fisionomicamente discutibile, Ian Holm, un cammeo di Willem Dafoe piuttosto insignificante, un eccellente John C. Reilly, un magnifico, serpentesco Alan Alda e un perfetto Danny Huston impeccabile, Gewn Stefani è un’impresentabile Jean Harlow che pronuncia tre battute in croce e pare perennemente imbarazzata a incarnarne la parte e basta? No, a recitare, per di più in un film non magistrale ma diretto, checché se ne dica, da un maestro incontestabile. Fotografia visionaria d’un ispirato Robert Richardson, ex aficionado, diciamo, a livello puramente lavorativo, di Oliver Stone e di Scorsese stesso, ora di Tarantino, compresi i film girati da quest’ultimo con DiCaprio, vale a dire Django Unchained e C’era una volta a… Hollywood, per un’opera maestosa, per l’appunto, sul piano visivo e per DiCaprio & la Blanchett + Huston sul versante interpretativo, ma non sempre convincente su quello narrativo. The Aviator è un bel film, troppo lungo, demodé o sol d’uno Scorsese, già vent’anni fa, cinematograficamente âgée e vagamente rincoglionito, rimasto fermo alla grandeur “arty”, sovente superflua e perfino irritante, di New York New York? È una domanda? Sì. È fissato con Frank Sinatra e lo menziona quasi sempre, doveva girarne un film biografico proprio con DiCaprio, dapprima diverso, altresì mai visto e non concretizzatosi, intitolato però Dino, più incentrato sul “compagno” epocale di The Voice/occhi blu, cioè Dean Martin.
Meglio così, sarebbe stata una stronzata qual è, ahinoi, oggettivamente, scevri d’ogni futile reverenza autoriale stupida e quindi immotivata, Killers of the Flower Moon. Con buona pace molti suoi ammiratori (inde)fessi e sfrenati, financo di me stesso che tendo a voler testardamente credere che sia un capolavoro perché non voglio riconoscere la verità ineluttabile, la seguente… Martin, ti abbiamo venerato ma è tempo, se non di morire, di lasciar perdere con la settima arte, vedi di crescere le tue figlie e so che hai lavorato con Leo perché speravi che una di esse, conoscendolo sul set e altrove, potesse scoparlo e scoparlo. Per quanto Leo ti voglia bene, le tue figlie so’ indubbiamente racchie senza fine e i tuoi film, oggi come oggi, so’ più vecchi, in ogni senso di te. Quando morirai, zio Marty, il sottoscritto, girando un lungometraggio a commemorazione della tua tristissima dipartita e a mo’ della trasmissione radiofonica del finale di Killers of the Flower Moon, ti promette che non ne sarà solamente regista, bensì interpreterà la particina nientepopodimeno di te (re)incarnato nel tuo film sopra dettovi, pronunciando le lapidarie parole… È una tragedia? Forse no. Mollie/Lily Gladstone, no, scusate, nessuna delle figlie di Martin(o) giammai sposò e sposerà Ernest Burkhart, no, DiCaprio. Si salveranno e si salvarono da un puttaniere che, su cinque film (al momento, cazzo) da te diretti, assomigliò a Marlon Brando sol in The Aviator. Stendiamo invece un velo pietoso sulla sua penosa imitazione “parodica” di Killers…
Nei titoli di coda del mio film, un attore mi domanderà:
– Non ti piace DiCaprio?
– Mi piacque in Titanic e in “tal” The Aviator ma se ti dico, onestamente, che generalmente mi fa schifo al cazzo, mi togli l’amicizia su Facebook? Anzi, ti blocco subito, così non mi spii. Inoltre, guarda che io e te non dobbiamo mica sposarci e non ho intenzione di sposare Leo anche perché non è sposato e mai lo sarà. Quindi salutami (a) Scorsese, sor(r)eta e Leo. Stamm’ buon’, tante belle cose alla tua famiglia di Goodfellas.
– Ehi, che modi sono? T’insegno un po’ di rispetto.
– Sai che fine fa il personaggio di Frank Vincent in Quei bravi ragazzi?
– No.
– Presto lo saprai. E non sarà un film in cui, per finzione, ne interpreterai il “character”.
Cala il sipario, compare Scorsese rinato, no, la scritta The End e appaiono i titoli di coda. Al che, nel bel mezzo di essi, spunta una faccia da culo, la mia, che esclama:
– Francamente, spettatori, il mio film vi ha provocato ribrezzo, lo so, non ne avete capito lo spirito dissacrante ma, detta fra noi, siete gli stessi che pagaste il biglietto (e non solo) per Killers of the Flower Moon, dunque nessun rimborso! Tornate a casa e fottete(vi)!
Sì, idioti, finitela col Cinema! Roba che poteva andar benino ai tempi di Angeli dell’inferno!
Illusi, sfigati, minus habentes, insomma, poveri cristi, sveglia!!!
Ma vi rendete conto? State a guardare le vite degli altri, per di più persino finte e spesso rese buoniste per non incorrere nella censura e nell’emarginazione di chi, moralista, urlerebbe:
– Non fate più lavorare quel porco! Deve “crepare”, per colpa del maccartismo, come De Niro di Indiziato di reato. Che non ha la fotografia di Richardson ma dell’ex habitué di Scorsese, Michael Balhaus, con una comparsata di Scorsese stesso. Nel pre-finale di The Aviator, nella scena in aula giudiziaria, gli echi di Guilty by Suspicion ci sono tutti, in maniera figurata, no, figurativa e cromatica. Nevvero?
di Stefano Falotico