La ragazza nella nebbia, recensione

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In questo clima di rigida quarantena, scivolai nelle mie notti dimenticate. Esperii qualche mese fa, nelle asperità frastagliate delle mie memorie riscaturite, qualche secondo di gioiosa vitalità ma, ancora ottenebrandomi nel silenzio mio immutato del mio solstizio eternamente sigillato nel mio cuore da sempre innevato, oh, qui son ricascato. Alle pendici vulcaniche del mio incarnare il concetto del termine esiziale, forse sono un nichilista esistenzialista irrecuperabile.

Per qualche attimo, a morte provocato, dapprima m’innervosii, dunque m’innervai e mi parve di rinsavire.

Sì, fui per anni imperturbabile e avvolto dal ghiaccio imperscrutabile della mia anima cupamente adombratasi. Risplendetti fatalmente però come un fuoco fatuo, nella brillantezza del giorno risorsi, credendomi miracolato ma fu un’illusione, un’effimera gioia estemporanea nuovamente svanita nel tormento esistenziale incurabile del mio perenne turbamento in cui, sprofondato, vivrò ancora per poco prima di esalare l’ultimo respiro d’una vita innatamente tormentata.

Cosicché, irreparabilmente da me stesso angosciato, prendo tremendamente coscienza che non manchi molto alla mia morte sempre più ventura.

È finita l’avventura della mia vita pura, è agli sgoccioli come acqua di rugiada oramai essiccatasi nei raggi mortali e brucianti di un’esistenza che per voi sarà ancora per molto tempo solare, mentre io, in tale imbattibile oscurità, vedo oramai solo gli indistinti bagliori della luna nera più sterile. Scevra è la mia anima d’ogni giocondità. Non sono neanche più puerile.

In questa notte che mi fu vicina e in cui credetti d’essere imperituro, un duro in mezzo agli umani lupi, penso che mi getterò giù da un dirupo.

Non vi sarà salvazione, malgrado ogni tentativo umano, dunque disumano, di avermi voluto elettrizzare con delle scosse violente affinché ancora respirassi la beltà del mattino e le sensuali lietezze della vita comune.

Amici, sto morendo. Non v’è più volontà in me. Oramai se ne sono accorti tutti e mi pare che la pagliacciata, mia e di chi cercò disperatamente di reggermi il gioco, sia purtroppo o forse per fortuna, ahimè e ahinoi, giunta alla sua conclusione ultima.

È finita…

Detto ciò, so che è triste ma è vero, non sento in effetti più niente per la vita e per il mondo, vi copio-incollo qui una recensione che fa rabbrividire più di uno yeti.

Tratta dal sito Gli spietati, firmata da Alessandro Baratti. Ragazzo forse quasi mio coetaneo che, a differenza di me, spera nella vita e forse la vita gli sarà clemente poiché ravviso, nelle sue parole, nella sua grinta combattiva, uno spirito indomito caparbio e cazzuto.

Sebbene abbia scritto stronzate che non condivido dall’inizio alla fine nella maniera più assoluta.

Leggiamo, fratelli della congrega, questa sua recensione presuntuosa e compunta. Non impeccabile ma non correggerò una sola virgola della sua entusiastica disamina agghiacciante, lasciando intatta la sua puttanata raggelante.

Compreso il suo apostrofo non in formato Garamond ma a tiramento di culo a c… o suo.

TRAMA

Avechot, un piccolo paese di montagna ormai disertato dal turismo. Alle 17 del 23 dicembre scompare Anna Lou, ragazzina sedicenne dai capelli rossi amante dei gatti e figlia di due appartenenti alla rigidissima confraternita religiosa del luogo. A dirigere le indagini sul rapimento di Anna Lou è l’agente speciale Vogel, ispettore che può contare su una diabolica abilità nel manipolare l’opinione pubblica attraverso i media. Le ricerche hanno inizio e su Avechot si accendono i riflettori della cronaca televisiva: serve un colpevole, anche a costo di fabbricare le prove. Vogel individua in Loris Martini, insegnante di lettere nella scuola locale, l’indiziato ideale.

Impossibile contenere l’entusiasmo per un film italiano che riesce nel difficile compito di creare un universo coerente e avvincente, smarcandosi ampiamente dalle logiche asfittiche del prodotto accattivante e conciliante agghindato da critica sociologica. Qui non si salva nessuno, è bene dirlo subito. In questa fiaba nerissima intrisa di cinismo non c’è personaggio che non riveli un lato sinistro o deplorevole. Non c’è istituzione che non esca con le ossa rotte o la reputazione infangata. Non c’è circostanza che non celi un risvolto oscuro o ingannevole. La detective story viene lentamente ghermita dal noir esistenziale e il thriller si sgretola in meditazione sul male come motore del racconto. Siamo dalle parti di Friedrich Dürrenmatt e dei suoi implacabili meccanismi distruttivi: il realismo delle situazioni (qui i fatti di cronaca italiana richiamati a più riprese) non è che un pretesto per svelare la presenza strisciante e immanente del male. Ad Avechot l’innocenza sfiora la demenza (il personaggio della madre di Anna Lou), mentre la colpevolezza – o la sua variante socialmente tollerata, l’opportunismo – si stende inesorabile su tutto e tutti. Ad Avechot, piccolo paese di montagna rannicchiato in una valle cieca, un microcosmo che è fin troppo chiaramente un non-luogo, regna il sospetto (altro concetto caro a Dürrenmatt, per inciso).

Un cinema italiano di genere che, pur impiegando volti e corpi usurati come quelli di Toni Servillo e Alessio Boni, abbia il coraggio di rifiutare il patetismo a buon mercato o la rincorsa alla risata esorcizzante è ancora possibile: ecco che cosa ci dice con abbondanza di prove La ragazza nella nebbia di Donato Carrisi. Un esordio alla regia che ci consegna un autore (in questo caso alla lettera: sua la sceneggiatura, suo il romanzo, suo il film) capace di coniugare alla perfezione il gusto del racconto con l’accuratezza visiva e l’allestimento di un apparato scenico di rara incisività (si veda il plastico di Avechot, palcoscenico in scala e metronomo della narrazione allo stesso tempo). Un autore italiano che, pur disseminando la pellicola di atmosfere che evocano altro cinema (Kubrick, i fratelli Coen, Singer, Demme, Fincher, Sergio Leone, giusto per fare qualche nome), non soffoca se stesso e il suo film sotto il giogo della cinefilia ammiccante. Non è questione di originalità, ovviamente, ma di stile: la capacità di trattare complessivamente la materia portata sullo schermo con equilibrio e decisione. Di questo teatro del sospetto e della meschinità nero come la pece ma praticamente privo di violenza esplicita (Carrisi sa anche questo: mostrare troppo degrada la visione a voyeurismo) porteremo per sempre negli occhi almeno due sequenze: la prima è quella in cui Loris Martini, abbandonato da moglie e figlia, lavora al gazebo del giardino di casa; la seconda quella in cui nelle sue e nelle nostre orecchie risuonano le note della Dança de Solidao di Beth Carvalho. Un gioiello avvelenato che non fa sconti a nessuno: cinema di genere con l’arsenico nelle vene.

La mia recensione

Donato Carrisi è un discreto giallista romanziere che, con tale sua opera prima, esordì alla regia.

Incassando ottime cifre. Coi soldi ottenuti grazie ai proventi derivati dai soldi stessi donatigli da molti spettatori da lui coglionati, il signor Donato forse riuscirà a ripagare finalmente Romina Power e Carrisi Albano che persero la loro figlia Ylenia. La quale mai fu trovata e, malgrado i casini mediatici messi su non tanto dal personaggio interpretato da Toni Servillo, bensì da Enrico Mentana, non si sa a tutt’oggi se sia scomparsa, se sia caduta da una montagna oppure se, come Elvis Presley, sia stata santificata da chi la crede altrove incarnata.

Ora, non scherziamo. La ragazza nella nebbia è un buon film ma nulla di più.

Jean Reno stona nei panni dello psichiatra. Poiché, sebbene il film sia ambientato ai confini con la Francia, no, scusate… con la Germania, sì, Avechot è una città immaginaria del Südtirol, dunque è zona alpina dell’Alto Adige ove vivono, peraltro, molti albini, il pupillo di Luc Besson non me lo vedo proprio dietro una scrivania a elucubrare cervellotiche teorie.

Reno è un cazzone che sta benissimo in Ronin e ne I fiumi di porpora. Ma, con la sua faccia spesso da pesce lesso (attenti alla trota…), non me lo immagino nei panni di un fine indagatore dell’animo umano. Fa pena.

Pare spaesato come ne I visitatori.

Toni Servillo, al solito, recita col pilota automatico. Vorrebbe essere carismatico, infatti lo è. Ma quando mai s’è visto, anzi si vide un ispettore di nome Vogel che ha soventemente una cadenza, nonostante l’ottima dizione, partenopea?

Così come, a proposito di Besson, perché mai nel film Malavita con De Niro, il boss Don Luchese legge La Repubblica nel carcere italiano?

Secondo voi, per esempio, Totò Riina lesse mai Il Corriere della Sera?

Fu denominato il capo dei capi ma, sinceramente, non è che avesse una gran capa. Insomma, fu sull’analfabeta forte, eh.

Io invece sono un caprone, un Capone, non Al. Bensì uno che decise di allontanarsi dalla società ed ebbe ragione. Poiché, essendo dotato di una grande testa, fu scambiato per testone e soprattutto coglione quando invero certe vili, orrende ed erronee patenti bambinesche affibbiatemi da pseudo-adulti tromboni, oh sì, me le mangio a colazione.

Tanto l’umanità è capace di nefandezze come quelle mostrate nel film di Carrisi. Che perdizione, oh, maledizione!

Sì, come la madre di Anna Lou, sono “demente”.

E mi pare giusto finirla nel volermi invogliare a divertirmi e a fare lo scemo come tutti i deficienti.

In questo film non si salva nessuno. La protagonista, in particolar modo. Forse fu una ragazza vergine in cerca di un migliore mondo e, lassù fra i monti, incontrò Filippo Timi di Quando la notte. Può essere.
Alessio Boni, nonostante la barba da intellettuale letterato, è un marpione insoddisfatto che, oltre alla peluria incolta, è uomo colto sposato a una donna molto bona. Fa il furbo con le ragazzine e manda loro i messaggini subliminali. Per dare loro lezioni orali, non so se solo di recitazione.

Il padre della ragazza invece spia nei diari della figlia e chiama la sua migliore amica, senza dirle niente, provando inoltre vergogna e imbarazzo, non spiccicando parola quando in casa sua piomba la televisione.

Michela Cescon, nella parte dell’agente Mayer, recita peggio di una bambina dell’asilo.

Abbiamo pure l’apparizione di Greta Scacchi. Di cui vi consiglio il suo magnifico fondoschiena in Presunto innocente.

Tornando al Boni nei panni del professore Loris Martini, lui diviene il primo sospettato. Poi forse scopriamo che sono tutti indagati come in Assassinio sull’Orient Express.

Ora, soltanto perché La ragazza nella nebbia leggermente si eleva dalle solite schifezze del Cinema italiano, gridaste al capolavoro.

Baratti tirò in ballo pure Kubrick, paragonando Carrisi a David Fincher. Ma per l’amor di dio.

Carrisi è uno che avrei visto bene come “espertone”-consulente a Chi l’ha visto. Molti anni fa quando a condurre questo programma fu la mitica Donatella Raffai.

Oppure come guest star, mano nella mano, assieme allo psichiatra criminologo della mutua, Alessandro Meluzzi.

Invece, i genitori maniaci religiosi della povera Anna Lou, eh sì, spesso ora seguono le trasmissioni ove invitano Paolo Crepet, scrittore, psicologo ed educatore di tutti, tranne di sé stesso.

Al Crepet vorrei chiedere questo?

– Lei come fermerebbe John Rambo?

Il Crepet, con calma olimpica, risponderebbe così.

– Be’, se si ribella, gli prescriviamo subito un TSO firmato dal sindaco, lo sediamo e lo spediamo in rehab.

Sottoponendolo a un massacro psicologico senza precedenti. Verrà a contatto con sceme appena laureate che pigliano ottantamila Euro all’anno per lobotomizzare i pazienti, aspettando il sabato sera per scopare il moroso palestrato. E sarà inserito in un programma speciale di tutor calabresi ignorantoni.

– Le ho detto, però, che è John Rambo.

– E quindi?

– Quindi lei, tornando a Besson, vide mai Nikita e Léon?

– Sì, dunque?

– Ecco, Rambo non potete educarlo a diventare un Alessio Boni, cioè un ipocrita. E non vuole dalla vita una bella mogliettina e insegnare in un liceo.

– Ripeto, quindi?

– Quindi, ve lo andaste a cercare.

Non fatemi, per piacere, la faccia di Reno.

Comunque, a parte le arrabbiature e le stroncature, La ragazza nella nebbia è un thriller passabile, un po’ sopra i pessimi standard italiani ma, a conti fatti e col senno di poi, va ridimensionato.

Siamo nell’ambito della mediocrità. E non è la bella fotografia ambientalista e il fascino atipico di Servillo a donare a questa storia qualcosa che vada oltre il tanto ingiustamente bistrattato L’uomo di neve con Fassbender.

Per girare un giallo coi controfiocchi, serve ben altro oltre a Servillo.

ragazza nella nebbia reno

di Stefano Falotico

 

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