Sicario da Cannes, recensione di Anton Giulio Onofri

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SICARIO, di Denis Villeneuve. Alla fine di Incendies, visto a Venezia 5 anni fa, ero l’unico a sostenere che il gran punto di forza del film fosse il testo teatrale di Wajdi Mouawad, e che la regia dell’opera prima del giovane canadese fosse sì, buona, ma poco più che “di servizio”. A seguire, non ho visto Enemy e Prisoners, dei quali ho sempre sentito dire un gran bene. Ma questo ultimo Sicario, in concorso a Cannes, è veramente poca, pochissima cosa. Divise tra enfasi e ovvietà francamente irricevibili in un film del 2015 (“Mi ricordi mia figlia, morta sciolta nell’acido”), le scelte registiche di Villeneuve denunciano una fastidiosa tendenza all’enfatizzare i toni di una storia torbida e darkissima sul traffico di cocaina tra Colombia, Messico e USA, come se non fosse già sufficientemente drammatica di suo. Ne viene fuori una Serie B che per i volti (Blunt, Del Toro, Brolin) e i mezzi impiegati vorrebbe gonfiarsi a Serie A, senza mai riuscire a dissipare la sensazione di guardare un film “all’americana”, che un regista statunitense esperto di action movie avrebbe realizzato in maniera molto meno coatta. Bocciato.

 

 

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