Il Filo nascosto secondo le parole

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Cos’altro è, l’amore di Alma e Reynolds, se non un’ode funerea alla venerazione dell’Altro come suprema fonte di innalzamento e allo stesso tempo di abiura di se stessi? Estasi e paralisi, fremito di eccitazione e gelo immobilizzante, un andirivieni di impulsi e rimpianti rappresentato sullo schermo con una tattilità accecante, che va persino oltre il gioco dell’accudimento e della seduzione. “Il filo nascosto” chiede, semplicemente, occhi nuovi per essere guardato, una più radicale forma di innamoramento che ci costringa alla stessa nudità spettrale e infantile cui sono inchiodati il pigmalionico stilista londinese Reynolds Woodcock di Daniel Day-Lewis e la sua Alma: manichino devoto eppure resiliente, di rozza e struggente purezza, sotterrata sotto i magnifici e terribili ricami delle sue creazioni.

Abiti materni, di siderale lucentezza, sepolti sotto il peso di incubi lontani ed eterni. Perfino troppo perfetti per essere calzati, proprio come l’ardore che cresce in petto all’uno e all’altro, inattuabile tanto nel languore purissimo di lei quanto nella sacrale distanza di lui, condannato alla tentazione sussurrata dell’avvelenamento e dello scontro campale, all’occultamento tra le maglie di un intarsio senza nome che esploda come nevrosi, desiderio, sogno, sintomo. Come istanza di morte e di rinascita, in cui, nel rapporto di coppia, ognuno è contemporaneamente servo e padrone dell’altro secondo prospettive che continuamente si riformulano, resistono, con violenza e docilità, alla dittatura dei corpi da abitare, dei sentimenti disarmati e incustoditi da dischiudere.

“Ti voglio indifeso, e poi di nuovo aperto”.

“Il filo nascosto” reclama un’adesione oltre l’adorazione e al di là della genuflessione, che pure è obbligata, dinanzi a un tempio cinematografico come quella messo in piedi da Paul Thomas Anderson, dove ogni cosa risplende della luce dell’ossessione (il grande crinale della seconda, impressionante metà della sua carriera), di una magniloquenza pulsante e scombussolante. Di una cura per il dettaglio come costruzione continua del senso e del vero, attraverso immagini e suoni che tremano e sussultano di angoscia e di passione, di madri e di sorelle, di volti bergmaniani taglienti come lame e infrangibili come gigantografie tragiche, di Rebecche e di Mrs. Danvers, di possessioni e di vestizioni.

Ciò che rende “Il filo nascosto” un capolavoro, nel senso più pieno e più alto del termine, a una seconda (terza, quarta, forse infinita visione) è il mistero insondabile e viscerale che giace e tracima al suo interno: quello di un’affezione che è al contempo volontà di potenza titanica e abbandono febbrile e disarticolato all’Altro, senza fili e senza ormeggi, stremati ma affamati. La massima esaltazione di sé possibile, nella negazione. Aspettando che un nuovo anno e una nuova vita sopraggiungano, asserragliati alla consueta lotta per proteggersi dai fantasmi e dal tempo, alla fiamma crepitante di quei demoni troppo familiari per essere scacciati: never cursed, “mai maledetti”, dolorosamente accucciati di fianco alla parte segreta di noi che cuciamo tra le pieghe delle nostre vesti più recondite e che, a prescindere da ogni strazio o strappo, non possiamo che intrecciare dentro al petto, a due dita dal cuore.

Sotto il vestito, tutto.

di Davide Stanzione
 

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