211 – Rapina in corso, recensione del film con Nicolas Cage

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Ecco, se in queste serate oramai estive, il caldo vi asfissia e cercate il refrigerio dell’aria condizionata in una sala cinematografica, non pretendete niente da un film e volete passare un’ora e mezza di totale svago scacciapensieri, questo 211 potrà anche non infastidirvi. È come sorseggiare una bibita ghiacciata dopo il caldo pressante. Anche se questo film è tutt’altro che una bevanda dissetante e neppure è una bella boccata d’aria fresca, potrebbe turbinosamente rovinarvi la digestione e, per la sua evidentissima bruttezza, darvi il voltastomaco dopo una cenetta sfiziosa a base di prosciutto e melone.

Cominciamo col dire che 211 è uno di quei film che un tempo appartenevano alla categoria denominata fondi di magazzino, cioè quelle pellicole che non puoi far uscire in periodi caldi, cinematograficamente parlando (non mi riferisco più alla torrida afa atmosferica, adesso), che sono di contraltare proprio i rigidi mesi invernali, nei quali le major sfoderano i loro pezzi da novanta e le pellicole da Oscar, e allora, dopo una lunga attesa, vengono rilasciate in periodi abbastanza morti come metà Giugno, quando oramai il Cinema di serie A, quello che conta, sta andando in vacanza.

Uno di quei film direct to video, che in Italia hanno pensato bene invece di destinare in sala. Innanzitutto perché c’è Nicolas Cage, uno che non è più un attore Alister a Hollywood e la cui carriera sta andando a rotoli completamente, ma che a noi italiani continua a piacere, che vive di un’aura attrattiva morbosamente affascinante perché è conclamato, accertato, iper-acclarato e fuor d’ogni dubbio che si stia svendendo, scialacquando la nomea creatasi del comunque ottimo attore che è stato in passato più e più volte, girando 5/6 film all’anno a cui non crede neanche lui, e a cui presta il suo faccione unicamente, sfacciatamente per risanare i debiti nei quali è affondato, ma rimane tutto sommato un simpaticissimo.

Uno di quei film, questo 211, che dopo trenta secondi dall’inizio capisci che è tremendamente inguardabile. La fotografia sembra quella di un gialletto tedesco da sabati pomeriggio, e intuisci al decimo fotogramma, però, che un film così non potrebbero invece tranquillamente programmarlo alla tv in quelle ore, in quanto contiene molte scene di violenza, seppure stilizzata, con notevoli spargimenti di sangue.

Quindi, è un film dunque non solo inclassificabile ma che, usando un gergo informatico da blog, è fuori da ogni categoria possibile, uncategorized. Ciò va premesso in maniera categorica.

D’altronde, non possiamo prendercela col suo regista, York Alec Shackleton, ex snowboarder e campione di skate, affascinato dai disagi giovanili. E infatti nel film vi è un ragazzino nero bullizzato.

Quali competenze può avere uno come Shackleton?

È già troppo quello che fa, tra esplosioni e lunghe sparatorie, filmate con poca grazia e tagli rudemente televisivi, ma almeno ci ha provato e, lungo i novanta minuti di durata, perfino ci ha stupito con alcune sequenze genialmente bizzarre, esteticamente terribili, ma coraggiosissimamente intrepide, senza sprezzo del pericolo, prive di qualsiasi logica d’intrattenimento né minimamente dotate di senso filmico, scevre dell’ABC del ciò che è bello e dignitosamente presentabile. Perché dal punto di vista puramente oggettivo le scene son talmente malfatte, appallottolate fra pistolettate disarmonicamente grezze, dal brusco ritmo aspro e antiestetico da poter, per paradosso, stimolare e allettare il divertimento dello spettatore smaliziato che, ben conscio di assistere a una sciocchezza pedestre, potrebbe addirittura prenderla appunto a ridere, sì, divertirsi. E salire sul film, come si diceva una volta. Compreso subito che è un film dozzinale e sciattissimo, ove quasi tutti gli attori sono imbarazzanti e la sceneggiatura un infarcimento sconclusionato di battute oscene, lo si può seguire fin all’ultimo secondo, almeno per vedere come andrà a finire.

La trama è piuttosto semplice. Quattro criminali terroristi assaltano una filiale bancaria di Los Angeles, e prendono in ostaggio ventisei persone. Il film è dichiaratamente ispirato alla più sanguinaria rapina di tutti i tempi…

Sembra un giorno come tutti gli altri. L’agente di polizia Mike Chandler (Nicolas Cage) è in pattugliamento col collega Steve MacAvoy (Dwayne Cameron), che è anche il suo genero e che quella mattina ha ricevuto una lietissima novella da sua moglie Lisa (Sophie Skelton, cioè appunto la figlia di Chandler, l’esaltante, gioiosa notizia che aspettano un bambino.

Quel giorno i due hanno caricato anche il ragazzino nero, da me menzionato prima, messo in punizione dalla preside della scuola dopo che, angariato a morte dai malfidati compagni bulli, esasperato, ha aggredito uno di loro. I due poliziotti devono scortarlo e portarlo a spasso…

Al che i tre, ragazzino compreso naturalmente, si accorgono che una banca è stata assaltata. E Chandler prova disperatamente a negoziare con i malviventi, ma non c’è niente da fare, i quattro criminali non vogliono scendere a patti e comincia la carneficina. I criminali sono armati fino ai denti e non si fanno mancare niente, un armamentario bellico da caserma militare.

Ma tutto è bene ciò che finisce bene. Steve, che sembrava spacciato e morto, a un anno di distanza dagli eventi, è vivo e vegeto, è nato il figlio e, assieme al ragazzino nero, ad amici e parenti, aspetta che Chandler rincasi dopo la sua corsetta “scaldamuscoli” per festeggiarlo. Perché è un bravo ragazzo e nessuno lo può negar!

I cattivi sono tutti morti ammazzati, giustizia è fatta, i nostri eroi sono rimasti illesi e vivono felici e contenti. Allegria!

Incredibile? No, tutto vero e ridicolmente, arditamente filmato con estrema serietà.

Il regista si è burlato di noi alla grandissima? Può darsi…

Ma che c’importa?

Perché dunque distribuire un tipo di produzione del genere in sala? Perché c’è lui, Nicolas Cage. E infatti non succede con nessun altro attore, che invece viene relegato direttamente, senza filtri all’home video. Lui merita il passaggio in sala. Perché Nicolas Cage è impazzito, cinematograficamente è degenerato, e noi sappiamo che, salvo miracoli dell’ultima ora, non lo vedremo mai più, che ne so, in un film di Lynch.

Perché Nicolas Cage, quando esibisce senza tagli, acconciature eccentriche o trucchi posticci, il suo abituale, stempiato look a caschetto con tanto di occhiali da sole e ciclopiche lenti scure, emana ancora fascino da vendere. E, fra allucinanti, disturbanti scene simil-My Life con Michael Keaton e il ragazzino che armeggia col cellulare, fra inquadrature a loro volta da iPhone, è lui che “giganteggia”, Nicolas. Smodato, smidollato, commovente, con la faccia gonfia e le occhiaie profonde, affetto da vistosa bolsaggine e flaccido doppio mento, che si dà come un dannato e non teme niente e nessuno, che della Critica se ne frega altamente, e avanza di filmaccio in filmetto come se nulla fosse. Adesso che non è più una star, la sua recitazione è diventata umanissima, tenerissima. Da perfetto uomo della “normal people”, è divenuto uno di noi, affettuoso, anche un po’ imbranato e sfigato. Dinoccolato, ingobbito, anchilosato, stanco, decaduto. Giammai però arreso. Immarcescibilmente Cage!

Sì, 211 è un Nicolas Cage movie. A tutti gli effetti, nel bene e nel male. Vampirizzato dalla sua folle deriva attoriale.

Ecco perché, volenti o nolenti, dovete vederlo.

E poi c’è pure il suo grasso figlioccio, Weston Cage.

Cosa volete di più?

 

di Stefano Falotico

 

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