The Godfather: Part II, recensione

Padrino 2

di Stefano Falotico

À la recherche du temps perdu

 
Ebbene, il più grande “sequel” della Storia.

Francis Ford Coppola e qualcosa di vertiginoso, da straziarti le “viscere” delle iridi, ustionarle con la “nottambula”, allucinante, cupa fotografia satura di Gordon Willis, virante al crepuscolo d’ogni epoca estaticamente divorata.

Qui, il maestro Francis realizza il capolavoro più sperimentale della sua folle megalomania immensa. Fa del suo già immane Padrino un “alibi” per attorcigliare il tempo nelle sue traspiranti, ignote, buie e luminescenti spirali, per avvolgerci d’ipnotica rinomanza ammaliante a ogni fotogramma lapidario, che cela a sua volta, come scatole cinesi, liquidi misteri onirici a (sovra)impressione dell’imperscrutabile uman(istic)o nostro.
Compie un’operazione sconvolgente che, “datata” 1974, esattamente trent’anni fa, fa gridarci, ancor più sempiterni d’infinita ammirazione, al miracoloso assoluto, preveggente, perché questo non è solo un film capitale, un monumento della Settima Arte, è l’innovazione del concetto stesso di Cinema, cioè una dilatazione spazio-temporale, alle origini e oltre, della cabala… Jung che incontra Mario Puzo. Un prodigio stordente è questo The Godfather: Part II.

La Paramount, dopo gli Oscar e il grande successo del primo, infatti, propone a Coppola il seguito. Francis è molto titubante. Certo, come tutti, sa che il seguito potrebbe fruttargli molti soldi, essere la definitiva consacrazione per imporsi non solo come cineasta ma proprio assurgere egli stesso a tycoon di una nuova avanguardistica era hollywoodiana. Dopo molte resistenze, notti sofferte, riflessioni sfinenti, accetta… e adatta la proposta lucrosa a volontà superomistica.

Inutile spendervi troppe parole, ce ne “intrappoleremmo” di pleonastico superfluo. D’inutile decantare ciò che è, per sua stessa natura orgasmica del piacere della visione purissima, una strepitosa vetta del rivoluzionare le coordinate filmiche. Perché Coppola non si limita alla trama, usa quasi a pretesto il “materiale” per girare ancora, e poi verranno propaggini variabili, la sua Ricerca…

Ecco allora che Brando trasmuta in De Niro, giovanissimo, magro, pallido e macilento, Corleone Vito ereditato a sua volta nel “vampiro” Pacino, sovrapposizione di volti, di stili recitativi, diluiti in analessi combaciante, tortuosa, cambiante forma quasi del già anticipato morphing. Visi scolpiti di primi piani abbacinanti, DNA nel sacro sangue dell’essere e non being icona.
Un viaggio profondissimo, sepolcrale, evolutivo nella memoria, a radice della mafia, a chirurgia venosa dell’ondoso flusso mesmerico conficcato a nascita stessa dell’America, a vituperio dell’orrore… ancora Apocalypse torna, s’evoca in ancor prima del compiersi, del mutare di nuovo. Un Cinema (ri)nato. Dai mille specchi camaleontici, fratturanti e a ricoagulare, pezzi del delirio, inafferrabili, manifesto labirintico e (ri)tornante, che dilania, che ci strangola di bellezza (im)mortale.

Divinatoria essenza, elevazione dell’evoluzione magmatica del Tempo, captato, scalfito, lucente e nero, inghiottente a rapirci da rapace predatore nel dolore e nello splendore incantatorio… del cigno a scultura eterea dell’immensità. Quella insondabile, da dilaniarti gli occhi in concupiscenza di te e noi stessi messi a fuoco.
Adamantino.

 

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