Americani, recensione

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Oggi, per la nostra consueta rubrica Racconti di Cinema, vi parlerò di Americani (Glengarry Glen Ross), firmato da James Foley (A distanza ravvicinata, House of Cards, Confidence – La truffa perfetta).

Un film purtroppo obliato dalla dimenticanza odierna del cinefilo o pseudo-tale contemporaneo che, ossessionato dai cinecomic e dalla celluloide rocambolesca di tale spettrale modernità quasi oscurantistica, si è ampiamente scordato di tale perla uscita sui nostri grandi schermi nell’oramai lontano 1992.

Interpretata da un impressionante cast in stato di grazia, ovvero Al Pacino, Jack Lemmon, Alec Baldwin, Kevin Spacey, Jonathan Pryce, Ed Harris e Alan Arkin.

Americani rimane, a tutt’oggi, la migliore pellicola in assoluta di Foley, regista di mestiere robusto che però, ultimamente, ha perso non poco la bussola, facendosi coinvolgere perfino dietro la macchina da presa per dirigere gli abominevoli Cinquanta sfumature di nero… e di rosso, sequel piuttosto trascurabili del già velleitario, anzi annerabile, soprattutto macchiato d’onta indelebile marchiante, Fifty Shades of Grey, impresentabile, vergognoso originario capostipite d’una delle saghe editoriali-cinematografiche più squallidamente mercantilistiche e volgarmente edonistiche dell’ultima decade.

Detto ciò, ribadisco e marcatamente, appunto, sottolineo ed evidenzio a lettere cubitali, simili al font della locandina italiana, che Americani è un signor film.

Anzi, per meglio dire, un film che film a tutti gli effetti non è. Poiché, essendo tratto da una celeberrima pièce théâtrale dell’esimio David Mamet, premio Pulitzer del 1984 come miglior opera drammaturgica, sto parlando di una pellicola che, come si suol dire, è perfettamente ascrivibile a quel sottogenere definito Cinema parlato, dunque Teatro filmato che l’esperto metteur en scène James Foley, grazie alle carrellate scattanti e poi pacate, avvolgenti e lievi, morbidissime dell’ottimo direttore della fotografia Juan Ruiz Anchía, in virtù delle sue languide, soffici riprese acquatiche, giocate su intensi primi piani d’inquadrature che gelidamente si fissano maniacalmente sugli sguardi in apnea, amletici, dubbiosi, permalosi e incazzati dei suoi magnifici, inappuntabili interpreti, ammanta d’un fascino stupendamente rètro, seducendoci e coinvolgendoci appassionatamente per tutta la sua durata di un’ora e quaranta minuti, non lasciandoci un attimo di tregua e di respiro.

Questa la trama a grandi linee:

in un’azienda immobiliare di New York, fa irruzione l’arrogantissimo, bullistico e autoritario Blake (Alec Baldwin), un riccone gagliardo iper-ambizioso a capo di molte filiali della medesima. Il quale, esasperato dai continui fallimenti economici dei suoi dipendenti, incapaci a suo dire di riuscire a vendere soddisfacentemente le loro azioni ai futuri compratori, pone a essi un insindacabile aut aut.

Soltanto chi, nel giro di poche ore, sarà in grado di vendere maggiormente, continuerà a lavorare e non perderà il posto. Al venditore più bravo, Blake promette come regalo una Cadillac, al secondo classificato di tale competitiva gara, da lui imperativamente indetta, una misera collezione di coltelli da bistecca, a tutti gli altri purtroppo soltanto l’immediato licenziamento.

Ciò provoca una faida, persino truffaldina e sporca, fra tutti i dipendenti che, dalla sera al mattino successivo, vivranno momenti infernali fatti di meschine rivalse, di reciproche viltà e stronzi, vicendevoli sgambetti.

Cioè, a causa dell’inappellabile scelta drastica di Blake, fra tutti i colleghi dell’agenzia si scatenerà un delirio collettivo di rabbie e gelosie vigliacchissime.

Tutti, pur di non perdere il proprio lavoro, si daranno filo da torcere senz’esclusione di colpi bassi.

Musiche di James Newton Howard e montaggio a orologeria di Howard Smith per questo kammerspiel sui generis che ci tiene magneticamente incollati dall’inizio alla fine in un vertiginoso crescendo di colpi di scena e dialoghi al vetriolo scritti dallo stesso Mamet, autore infatti anche della sceneggiatura (come sopra scritto, based on the play by...).

Attori tutti impeccabili con particolare menzione di merito ad Al Pacino (candidato all’Oscar) nei panni dello scafato, virile e nevrotico Ricky Roma e al compianto Jack Lemmon che tratteggia magistralmente, a metà fra il patetico, il commovente e il laido, la figura del tragicamente ridicolo “commesso viaggiatore” Shelley Levene.

Imperdibili i titoli di coda sulle note musicali di Al Jarreau.

di Stefano Falotico

 

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