Flight, recensione

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Parto col dire che Robert Zemeckis è un regista davvero anomalo, non ascrivibile a nessuna categoria, non identificabile, un oggetto strano fra gli autori, perché comunque lo è, del panorama cinematografico hollywoodiano. Salito alla ribalta degli anni ottanta, con Ritorno al futuro in primis, con l’avventuroso e da tanti emulato, gagliardo All’inseguimento della pietra verde, e soprattutto con quella perla inimitabile ancor oggi che è stato … Roger Rabbit, vince l’Oscar nel 1994 col celebratissimo e però già “datato” Forrest Gump, scegliendo poi, all’improvviso, una strada che, ripeto, faccio fatica a inquadrare in una poetica precisa. Ottiene ottimo successo con Cast Away e l’interessante Le verità nascoste, quindi nuovamente cambia genere e prospettive, optando per film che sfruttano la cosiddetta performance capture, infilando una tripletta abbastanza controversa, dagli esiti non del tutto riusciti, Polar ExpressBeowulf e A Christmas Carol, sostanzialmente il più compiuto e coraggioso del terzetto “animato”.

Quindi, tradendo ancora una volta le aspettative, “piomba” nei Cinema con questo Flight, tornando a un film “normale” e iscritto alle coordinate abbastanza mainstream. Anche se va detto, tutti i suoi film sono comunque opere decisamente commerciali, che non rinunciano alla qualità e all’elegante stile, ma pienamente strizzano l’occhio al grande pubblico.

Ecco che, attraverso la sceneggiatura di John Gatins, “classica” e lineare, “pesca” questa storia straordinaria eppur al contempo così agganciata a una vita “ordinaria”, il racconto di un pilota che, durante un volo ad Atlanta, compie una manovra impossibile e riesce miracolosamente a far atterrare il suo aereo, salvando tutti i passeggeri. O, meglio, quasi tutti.

Inizialmente, com’è giusto che sia, viene eletto eroe nazionale, ma dopo cominciano i problemi. Sì, perché appunto non tutti si sono salvati e la commissione d’inchiesta vuole vederci chiaro, avendo trovato tracce di alcol nel suo sangue. Quindi, dopo il magnifico prologo, girato con spericolatezza e inventiva da Zemeckis, il film s’incanala in binari narrativi piuttosto convenzionali e, onestamente, prolissi, fatti di altre sbronze, di una “decorativa” storia d’amore con una nuova fidanzata, anch’ella afflitta da problemi di dipendenze, lei però dalla droga, scenate con l’ex moglie, rimpianti e preoccupazioni per il processo a cui verrà sottoposto. Ma, in questo ripetitivo percorso verso la salvezza, manca pathos e il tutto viene descritto senza particolari guizzi o slanci. Annoiandoci un po’.

Insomma, il film, a mio avviso perde quota e abbassa anche le sue ambizioni, perdendosi in un finale moralista a cui comunque va riconosciuto il merito, “paradossale”, di aver proceduto all’inverso rispetto ai canoni di Hollywood. Quasi sempre, infatti, abbiamo assistito a storie in cui prima c’è la tragedia e poi la redenzione, qui avviene il contrario, e in questo forse consiste, tutto sommato, il valore del film, in questa peculiare originalità. Il miracolo avviene all’inizio, alla fine il personaggio interpretato da Washington fa mea culpa sulla sua condizione di alcolista e si auto-condanna alla prigione. Insomma, non è la tipica storia a lieto fine, è piuttosto, per meglio dire, una storia dal finale ambiguamente buonista in cui il nostro eroe “sciagurato” trova il coraggio di vivere, potrei dire, permettetemi d’ironizzare, con “sobrietà”, accettando la punizione che si “merita”.

Un film per il quale Washington è stato candidato all’Oscar. Lui è molto bravo e carismatico, e si trascina il peso del film per le oltre due ore di durata, anche se è stato più incisivo in altre pellicole, ma stupisce che all’Oscar sia stato candidato anche lo sceneggiatore, perché si limita a un compitino, ribadisco, bolso e fastidiosamente moralista.

Un film, dunque, molto amato in patria, che ha ricevuto più plausi di quelli che invece merita e, nuovamente, ci pone in una condizione di assoluta perplessità dinanzi a Zemeckis.

Detto ciò, la confezione è impeccabile. Ma l’involucro perfetto non sempre fa un grande film.

FLIGHT

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di Stefano Falotico

 

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