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Le Fidèle, recensione del film con Matthias Schoenaerts e Adèle Exarchopoulos

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Oggi recensiamo Le Fidèle, terzo lungometraggio del regista belga Michaël R. Roskam, presentato fuori concorso al Festival di Venezia del 2017 e interpretato dal suo attore feticcio Matthias Schoenaerts e da Adèle Exarchopoulos.

È stata la pellicola che il Belgio aveva selezionato per entrare nella cinquina dei migliori film stranieri agli Oscar, ma non è riuscita poi a essere candidata appunto come Best Foreign Language Film.

La coppia Roskam-Schoenaerts era invece riuscita ad arrivare alla nomination col precedente Bullhead – La vincente ascesa di Jacky del 2011.

Le Fidèle, un film sceneggiato dallo stesso Roskam assieme a Thomas Bidegain e Noé Debré, della durata (eccessiva) di due ore e 10 minuti.

È la tragica, fatale storia di uno straordinario, indimenticabile amour fou, di una passione travolgente fra Gino Vanoirbeek (Schoenaerts) e la bellissima Bénédicte Delhany (Exarchopoulos), detta Bibi.

Gino è aitante, possente, carismatico, incontra Bibi in un circuito automobilistico e se n’innamora all’istante. Anche lei, immediatamente, come nei migliori e più romantici colpi di fulmine, viene ipnotizzata e attratta da lui. Ed esplode subito fra i due la passione infuocata, struggente.

Diventano inseparabili ma Gino sta nascondendo a Bibi un terribile segreto. Non si occupa, in realtà, d’importexport di auto, bensì è un rapinatore di banche. E i suoi amici non sono ordinari colleghi di lavoro. Sono persone malavitose come lui, un uomo che potrebbe avere tutto dalla vita ma che non riesce a emanciparsi dal suo criminoso passato perché rapinare è l’unico mestiere che lo tiene in vita.

Lei lo ama però talmente tanto da non fare una piega. Poi, una grossa rapina va male, Gino e la sua gang vengono accerchiati dalla polizia e tutti i suoi membri, incluso Gino, rispettivamente sono  condannati a quindici anni di carcere.

Bibi non si arrende, continuerà ad amarlo quando Gino sarà in permesso. E aspetterà perfino un figlio da lui.

Ma la tragedia, inevitabile, è dietro l’angolo, pronta a sbranare letalmente i loro già flebili, ultimi sogni amorosi.

Bibi si ammala di cancro, perde il bambino ma per Gino è disposta a tutto pur di garantirgli l’evasione, la libertà, come in un dramma larger than life di von Trier.

Lei forse morirà ma donerà a Gino l’illusione di una nuova, crepuscolare, devastante speranza.

Gino merita una seconda chance, nonostante gli ultimi, irreversibili, angoscianti respiri disperati di Bibi. Il loro amore sarà comunque immortale. A sconfiggere potentissimo le barriere del tempo. Le sue silenti urla nella notte di un sogno, tramutatosi in perentorio, glaciale incubo esiziale, sono la voce immacolata dei loro innocenti cuori uccisi dalla vita puttana e bastarda. Il candore imperituro di un’estasi passionale destinata a vivere per sempre anche quando ogni sogno, per Gino, sarà trafitto dalla nostalgia più distruttiva.

Un grande film per un’ora abbondante, con uno Matthias Schoenaerts al suo meglio e un’Adèle Exarchopoulos magnetica, stupenda.

Poi, da quando Gino viene arrestato in poi, la pellicola si accartoccia, gira un po’ a vuoto pateticamente su sé stessa, perde in vigoria emozionale, diventa perfino ricattatoria e ruffiana, facilmente strappalacrime. Inesorabilmente, il film, da heist movie e polarnoir spericolato e intenso, da storia d’amore carnale ed esplosiva, diviene un melò prevedibilmente pessimista e, paradossalmente, emoziona e affascina molto meno.

Eccezionale però il magnifico piano-sequenza in soggettiva finale.

Un film che poteva essere un capolavoro e invece forse dura troppo, si perde in digressioni abbastanza inutili e viene esautorato del suo carburante erotico-romantico, cercando la strada più ovvia della tragedia scontata.

Ma, ripetiamo, Adèle Exarchopoulos impressiona a ogni inquadratura, col suo carico infantilmente perverso di sex appeal irresistibile e puro.

Ottima inoltre la fotografia di Nicolas Karakatsanis.

Purtroppo, rimane un’occasione mancata. Peccato.

Se Michaël R. Roskam avesse azzardato di più e spinto maggiormente sull’acceleratore, Le Fidèle sarebbe stato immensamente memorabile.

Ma è un film che comunque non dovete perdervi.rc03le-fidele-recensione-film-01-le-fidele-recensione-film-03-

di Stefano Falotico

 

Racconti di Cinema – Basic Instinct di Paul Verhoeven con Sharon Stone e Michael Douglas

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Basic Instinct con Sharon Stone e Michael Douglas, il prototipo perfetto dell’erotismo plastificato della stupida Hollywood dei nineties. Un pastrocchio di rara furbizia? Con una Sharon però d’antologia, nel bene e nel male? Siamo sicuri che sia realmente brutto come si disse?

Sì, oggi vi parlerò di questo classico invincibile, non nel senso raffinato del termine. Cioè non un film soavemente di prim’ordine ma diventato immediatamente una tappa fondamentale da prendere in seria considerazione per l’impatto che ha avuto nell’immaginario erotico mondiale. Tanto d’assurgere a modello basilare di thriller erotico per eccellenza.

Anche se sinceramente appare, oggi come oggi, un po’ inconcepibile e assurdo che venga annoverato tra i film più scandalosi di sempre assieme a 9 settimane e ½ di Adrian Lyne con la bollente coppia dei sex symbol platinati per antonomasia degli anni ottanta, il trasgressivo, stropicciato Mickey Rourke e la longilinea, bionda tutta d’oro Kim Basinger, e naturalmente a Ultimo tango a Parigi del nostro Bertolucci con un Marlon Brando allo zenit della sua maschia sensualità sull’orlo del maledettismo decadente più anarchicamente ribelle e una Maria Schneider conturbante da celeberrima scena del burro. Peraltro, sottolineiamolo, scena indimenticabile quanto sopravvalutata e ridicolmente mitizzata.

Ebbene, solo Ultimo tango…, di questi tre, è un capolavoro, il film di Lyne è un trascurabilissimo esempio di Cinema commerciale melenso e programmaticamente pruriginoso, alquanto imbarazzante, rivisto oggi.

Basic Instinct invece porta la firma di Paul Verhoeven, un regista, come sappiamo, tutt’altro che incapace, autore di alcuni dei film di fantascienza più spericolatamente coraggiosi, distopici, sfrontati, impavidi e persino irriverenti delle ultime decadi, basti pensare al seminale, violentissimo e stilizzato RoboCop, al ventrale Atto di forza, al profetico, politicizzato e inaudito Starship Troopers, un autore che, dopo la scemenza di Showgirls, con la quale tentò pateticamente di bissare il successo di Basic Instinct in maniera fallimentare, ha poi nuovamente saputo inventarsi con film bellissimi come Black Book ed Elle.

Un olandese senza sprezzo del pericolo, abile ed espertissimo nel suo mestiere che, alla veneranda età di ottant’anni, sono convinto che non mancherà di stupirci anche col suo prossimo Benedetta.

Ma torniamo a Basic Instinct. Film uscito da noi il 18 Settembre del 1992 e subitaneamente diventato un hit che furibondamente sbancò il botteghino, annientò, sfracellò e repentinissimamente frantumò ogni record d’incasso grazie al martellante, tonitruante, maliziosamente ruffiano battage pubblicitario. Che divinizzò fin dapprincipio la star creata ad hoc per l’arrapato pubblico di massa. Certo, lei, Sharon Stone, l’unica attrice forse nella storia del Cinema a essere stata elevata a diva assoluta, a paladina della sensualità più impudica ed emancipata soltanto grazie ai pochi istanti infinitesimali del suo audace, provocante, svergognato e famosissimo accavallamento di gambe senza slip nella scena dell’interrogatorio. Insomma, quello che oggi viene definito un lampante, entusiasmante, eccitantissimo, inequivocabile upskirt.

Sì, Sharon, un’attrice divenuta arcinota, a livello planetario, in un batter d’occhio solo col devastante potere cataclismatico, oserei dire a proposito degli ormoni maschili da lei vigorosamente strapazzati, di un ammiccante, giocoso e peperino accavallar di cosce senza biancheria intima addosso.

Incredibile, vero? Eravamo nel ’92. Oggigiorno, a poco più di venticinque anni da questo film, scene di questo tipo non suscitano alcuno scandalo. A meno che non siate dei tremendi moralisti incurabili e dei perbenisti chiesastici, repressi e bigotti. Impazza la pornografia sul web, siamo bombardati giorno e notte da immagini decisamente più osé di quelle presentate in Basic Instinct, tali forme di lussuria voyeuristica costruita a tavolino c’inducono semmai a sorridervi, rattristandoci, perdonandole e assolvendole con compassionevole bonarietà. Cioè, questi escamotage pubblicitari non ci turbano affatto. Anzi, addirittura ci annoiano. È ben altro che sollecita il rimescolamento dei nostri sensi, è molto altro che denuda e sconvolge le nostre innate voglie irregolarmente peccaminose.

Fatto sta che Basic Instinct divenne un istantaneo fenomeno di costume e il suo sceneggiatore, il volpone Joe Eszterhas, con la sua scaltrissima trovata, guadagnò talmente tanti soldi da poter sfamare tutte le sue future generazioni. Anche se, va ammesso, che il successivo, già succitato Showgirls, sempre da lui firmato, e Sliver col quale cercò miseramente d’intascare altri facili dollaroni, deflorando del tutto ogni residua, virginale resistenza di Sharon (sì, spogliandola impunemente del tutto, deprivandola di ogni rimastale castità cinematografica e non, e regalandole incessanti nudi generosissimi, gratuiti, abbondanti e marmorei), gli andarono giustamente malissimo.

La trama di Basic Instinct è parossisticamente banale e tanto incredibilmente allucinante e terribile nella sua ovvia linearità anemica, sì, talmente poco appassionante e passionale, che m’induce adesso inevitabilmente e con indubbia costernazione a riflettere (dico a voi, finti bacchettoni, certo, e vi punto il dito, vistone lo spaventoso e inammissibile successo e l’osceno appellativo di cult che gli decretaste) su quale possa esser stato, al di là delle grazie della Stone bellamente esibite, il motivo principale che all’epoca v’indusse a osannare tale riprovevolmente scioccante ma efficace sciocchezza (non sconcezza, attenzione), e ciò mi porta anche a interrogarmi sulla ragione, reale e leale, che vi spinse… ad accorrere al cinema per vederlo. Solo per vederla…?

A San Francisco, un uomo viene trovato morto nel suo letto. Efferatamente massacrato con un punteruolo dopo uno scatenato amplesso. Chi è stato o chi è stata a ucciderlo?

La scrittrice-psicologa bisessuale Catherine Tramell (Sharon Stone) è l’indiziata numero uno. Ogni sospetto infatti cade su di lei.

Catherine si sottopone alla macchina della verità e viene poi interrogata dalla polizia, appunto nella scena senza mutande. Il detective Nick Curran (Michael Douglas), sconvolto dal fascino ipnotico e seduttivo della donna, comincia a cambiare personalità e assume atteggiamenti violenti nei riguardi della sua amante, la castana dottoressa Beth Garner (una Jeanne Tripplehorn sexy e magnifica quanto Sharon), tanto da sodomizzarla, una notte, con immonda brutalità, in preda a un’incontrollabile, scalmanata, delirante furia pazzesca.

La donna, esterrefatta e schifata dal gesto di Nick, lo schiva, lo allontana, ma comunque gli confida parecchie informazioni importanti su Catherine Tramell. Beth conosce molto del passato di Catherine perché avevano frequentato assieme lo stesso corso.

Continuano le indagini e Nick viene sempre più dissolutamente attratto da Catherine. Dopo un infuocato ballo a un night club, Nick bestialmente cede alle ardite lusinghe di Catherine e abbocca piacevolissimamente al suo sbranante, spudorato, impudentissimo corteggiamento.

I due finiscono a letto e si amano come inverecondi animali selvaggi. Distruggendo e incenerendo ogni loro reciproco pudore.

Nick rischia grosso. Se davvero Catherine fosse l’assassina e avesse il vizietto di trucidare col tritaghiaccio le sue vittime durante i suoi torridi rapporti sessuali quasi sadomaso?

Ma Nick è troppo innamorato di Catherine, non può resisterle, e forse anche Catherine è per la prima volta in vita sua davvero sensibilmente innamorata di un uomo…

Chissà… lo ucciderà o no? O si ameranno e scoperanno come conigli per tutta la vita?

Ora, chiariamoci. Verhoeven, come detto, non è il primo venuto, ha strepitoso senso del ritmo e la fotografia di Jan de Bont è bella, elegante, sensuale. E neppure le musiche di Jerry Goldsmith sono malvagie.

Ma è chiaramente stato ed è un cretinesco porno molto soft, abbastanza innocuo, velleitario, architettato per sollevare lo scandalo facilissimo, per rilanciare la carriera all’epoca in discesa del macho Douglas (che probabilmente in Black Rain era stato molto più affascinante e virile che qui) e per creare dal nulla una nuova dea di Hollywood, una sorta di niccoliana S1m0ne perversa e to die for… Sharon Stone!

La Stone fregò perfino la Critica americana e si guadagnò una nomination ai Golden Globe.

In Basic Instinct è davvero bellissima, stratosferica, magnetica. Ma continuo a credere, ve lo dico con enorme sincerità, che al di là della sua impareggiabile venustà, del suo notevole, immane sex appeal e della sua prova sofferta e sentita in Casinò di Scorsese, Sharon Stone sia sempre stata un’attrice abbastanza mediocre.

Non me ne volere, Sharon.

Chioserei con le recensione di Morandini estrapolata dal suo Dizionario, alquanto in linea con la mia disamina e piuttosto aderente al mio giudizio…

Morandini: poliziotto di S. Francisco è morbosamente attratto da una scrittrice sospettata di un omicidio commesso durante un amplesso. Thriller erotico in forma di giallo (whodunit) di imbecillità costernante e di svergognata disonestà nell’accanita ricerca dello choc. Verhoeven e il suo strapagato sceneggiatore Joe Eszterhas (3 milioni di dollari!) mimetizzano i loro intenti mercantili, e la misoginia, con pomposi alibi tematici. Celeberrima la scena dell’interrogatorio in cui la fatale Stone, senza slip, accavalla le gambe. È tutto dire. M. Douglas, spesso con le brache abbassate, sembra la copia carbone del padre Kirk nelle sue peggiori interpretazioni.

Mentre Paolo Mereghetti, dopo aver mantenuto intatta la sua sonora stroncatura in molte edizioni del suo tomo, in quella del 2018 ha alzato le stellette da una e mezza a due e mezza, rivalutandolo alla grande e definendolo un ottimo blockbuster dalla discreta suspense.

In fondo, sì, non è poi malissimo, è soprattutto un film assai interessante a livello sociologico per capire quali fossero i turbamenti, post-edonismo reaganiano, degli uomini e delle donne.

Ma, per carità di Dio, i grandi film sono altri.

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di Stefano Falotico

 

Racconti di Cinema – Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese con Ray Liotta, Robert De Niro e Joe Pesci

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Ebbene, stavolta ci concentriamo su un film oramai leggendario che possiamo senz’ombra di dubbio annoverare fra i grandi capolavori di Martin Scorsese, ovvero il mitico, incendiario, irresistibile Quei bravi ragazzi (Goodfellas).

Ve ne parliamo ancora in occasione del suo recentissimo passaggio televisivo di qualche giorno fa e per via del fatto che, certamente, presto sentiremo parlare dell’immenso Scorsese poiché, come sapete, a fine anno (salvo contrattempi), il suo attesissimo The Irishman sbarcherà su Netflix (e noi ci auguriamo anche nelle sale), ineludibilmente uno dei film più importanti ed epocali dell’intera stagione cinematografica. Anzi, non siamo allibratori ma siamo pronti a scommettere che The Irishman, se le enormi aspettative saranno rispettate, per come l’epicità del progetto si è ingenerata in crescendo rossiniano vertiginoso e per come già la sua monumentale, fantasmagorica aura fascinosamente lo ammanta di leggendarietà, verrà consacrato istantaneamente come assoluta pietra miliare della Settima Arte. O, perlomeno, lo speriamo vivamente.

Ma torniamo a Quei bravi ragazzi.

Scritto da Scorsese assieme a Nicholas Pileggi, tratto dal libro Wiseguy di quest’ultimo. Un libro che fu tradotto anche in italiano per la collana Azzurri Italiani della Rizzoli del 1987, col titolo Il delitto paga bene, novella però attualmente rara da trovare.

In questo mastodontico film, che n’è appunto il suo geniale adattamento, si racconta la vita del pentito Henry Hill, la sua inevitabile iniziazione criminale e la sua discesa negli inferi della malavita stessa.

Henry Hill (un magnifico Ray Liotta, nel ruolo, tutt’ora insuperato, lifetime della sua carriera) è un adolescente di sangue mezzo irlandese e mezzo italiano che cresce in un famigerato quartiere molto malfamato di Brooklyn. E dunque, giocoforza, visto l’imprinting ambientale che riceve dalle sue cattive frequentazioni sin da quando è giovanissimo, avrà l’unica, quasi inesorabile scelta di abbracciare appunto la criminalità. Diverrà allora il pupillo di un boss locale della famiglia Lucchese, Paul Cicero (Paul Sorvino), che lo farà entrare in una gang fin a che, in un’escalation irreversibile, scalerà ogni delinquenziale vertice, partendo con qualche furtarello e piccolo contrabbando, poi diventando amico sempre più stretto del gangster Jimmy Conway (Robert De Niro) e dello scellerato, iracondo, folle Tommy DeVito (Joe Pesci), facendosi piacevolmente trascinare nelle loro losche imprese bandistiche e scriteriate.

“Simpaticamente”, si fanno chiamare bravi ragazzi. Tipi in gamba, certo, a delinquere.

Henry crescerà così, con amici tanto “fidati”. S’innamorerà di una donna (Lorraine Bracco), la sposerà, avrà da lei due figlie, vivrà nell’immoralità e nel lusso più sfrenato, tradirà la sua donna per una squallida amante e poi, assieme ai suoi amici, compirà un furto pazzesco, un immane colpo alla Lufthansa. Sarà proprio allo zenit del suo successo e di quello di Jimmy Conway e Tommy DeVito, che il suo impero del crimine, insieme a quello di tutti gli altri, rovinosamente si sbriciolerà in mille pezzi fra colpi bassi e impazzimento collettivo. Saranno messi alle strette dalla macchina giudiziaria e il malsano sogno americano sfuggirà di mano a Henry, DeVito sarà assassinato per aver compiuto uno sporco, imperdonabile sgambetto ai Gambino, Jimmy invece si defilerà sempre più paranoicamente. Henry, sull’orlo del collasso nervoso, alla fine, incastrato dalla narcotici, che rinverrà in casa sua un grossissimo quantitativo di droga, sarà arrestato e così, pur di garantirsi la libertà vigilata, si affilierà al programma di protezione testimoni dell’FBI, confessando ogni malefatta e tradendo il patto d’onore dei bravi ragazzi, sputando vigliaccamente dalla sua corrotta bocca tutti i nomi dell’organizzazione mafiosa.

Dopo tanto divertimento, soldi a non finire, vizi, stravizi e sterminato agio, Henry Hill diventerà un “normale” cittadino. A triste sigillo della pietra tombale di un’epopea gangsteristica irripetibile che è volata via come un’intera vita vissuta dalla parte sbagliata. Una vita difficile ma anche piena di gioie ed esaltazioni da rimpiangere malinconicamente sino alla morte.

Attori in stato di grazia, scene memorabili che si sprecano, regia magistrale di uno Scorsese all’apice della sua furiosa inventiva, un Joe Pesci sacrosantamente premiato con l’Oscar come migliore attore non protagonista, fotografia del grande, compianto Michael Ballhaus e montaggio di una scatenata Thelma Schoonmaker. Ma, scandalosamente, soltanto il contentino di un Leone d’Argento – Premio Speciale per la miglior regia al Festival di Venezia per un film che meritava molto di più a livello di riconoscimenti. Ma quello era l’anno anche di Balla coi lupi, che lo sconfisse e fece sfracelli agli Academy Awards.

Dai, rivediamolo ancora.

UpdateThe Irishman non è uscito a fine 2018 come si credeva, bensì lo vedremo alla fine di questo 2019.

 

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di Stefano Falotico

 

Alec Baldwin Joins Todd Phillips’ ‘Joker’

Mandatory Credit: Photo by The Oxford Union/REX/Shutterstock (9326916h) Alec Baldwin Alec Baldwin at the Oxford Union, UK - 19 Jan 2018

Mandatory Credit: Photo by The Oxford Union/REX/Shutterstock (9326916h)
Alec Baldwin
Alec Baldwin at the Oxford Union, UK – 19 Jan 2018

From Deadline:

EXCLUSIVE: Alec Baldwin is boarding Todd Phillips’ Joker movie at Warner Brosin a supporting role, Deadline has learned. Cameras roll on September 10. While Warner Bros has not confirmed what role, buzz is that Baldwin is poised play the role of Thomas Wayne, who in DC canon is Bruce Wayne/Batman’s father. Thomas Wayne was first introduced in Detective Comics #33 (Nov. 1939) and he is respected physician and philanthropist in Gotham City.  Wayne and his wife are murdered exiting the theater, an incident which young Bruce witnesses. That becomes his m.o. for ultimately becoming a vigilante. In the early comics, Wayne’s murderer is mugger/hitman Joe Chill, but starting with the first Tim Burton 1989 Batman movie, it’s the Joker who is the culprit.

Baldwin joins a growing cast that includes Joaquin Phoenix in the title role, Robert De Niro, Frances Conroy, Marc Maron, and Zazie Beetz as Sophie Dumond. As has been previously reported, Phillips’ take on the famed DC character will possess a grittier, ’80s sensibility.

Baldwin was recently nominated for his 19th Primetime Emmy. For the second consecutive year, he’s up for outstanding supporting actor in a comedy series for playing Donald Trump on Saturday Night Love, a role which delivered him a win in the category last September. Overall, Baldwin counts three Emmy wins, his other two being in 2008 and 2009 for outstanding lead comedy actor on 30 Rock. Baldwin was nominated for a supporting actor Oscar in 2004 for The Cooler and recently starred in this summer’s half-billion-plus grossing hit Mission: Impossible – Fallout as well as Spike Lee’s BlacKkKlansman which is taking off on the specialty circuit with north of $31M. Baldwin is already starring in another Warner Bros.’ feature, the Ed Norton-directed period drama Motherless Brooklyn due out next year.

Baldwin is repped by CAA. Joker opens on Oct. 4, 2019.

 

Suspiria – Official Trailer by Luca Guadagnino

MV5BNjhmN2E4NzMtN2U0MC00NGY1LWJmNDUtNzYwMWY0ZWQ1OWUwXkEyXkFqcGdeQXVyMzU4ODM5Nw@@._V1_A darkness swirls at the center of a world-renowned dance company, one that will engulf the artistic director, an ambitious young dancer, and a grieving psychotherapist. Some will succumb to the nightmare. Others will finally wake up. Suspiria is in New York and Los Angeles theaters October 26, expanding nationwide November 2. Starring Dakota Johnson, Tilda Swinton, Mia Goth, Lutz Ebersdorf and Chloe Grace Moretz. From director Luca Guadagnino.

 

King Lear with Anthony Hopkins, Official Trailer

kinglear_keyart_vertical_1_pre_rgbSet in the fictional present and starring Anthony Hopkins, the 80 year-old King Lear divides his kingdom among his daughters, Goneril, Regan and Cordelia, according to their affection for him. When his youngest daughter, Cordelia, refuses to flatter him, hurt and angry Lear banishes her. With that fateful decision, family and state collapse into chaos and warfare.

 

Racconti di Cinema – Rocky V di John G. Avildsen con Sylvester Stallone e Tommy Morrison

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Ebbene, il prossimo 29 Novembre uscirà nelle sale italiane il secondo capitolo dello spinoff su Rocky Balboa, ovvero Creed II. Inutile aggiungere altro perché credo che pleonasticamente v’annoierei. Sapete già tutto e probabilmente su questo mitico personaggio, Rocky, che ha dato il successo planetario al suo protagonista, Sylvester Stallone, siete più informati e fan di me e conoscete a menadito, scena per scena, tutti i film della sua celeberrima saga.

Rocky Balboa, il loser per antonomasia che, grazie a un incontro inaspettato col campione in carica dei pesi massimi, Apollo Creed, ritrovò il riscatto di tutta una vita calpestata nella dignità. Nel primo film perdeva ai punti ma trionfava moralmente, elevandosi a paladino statuario di tutta quella povera, brava gente che perennemente, invano aspettava febbricitante e rabbiosa la seconda chance. Rocky questa possibilità l’aveva avuta, gli era stata offerta dalla dea bendata, ed è diventato un mito di Philadelphia, tanto che gli hanno elevato in gloria persino una statua in suo onore.

Ma facciamo un doveroso passo indietro. Prima di autocelebrarsi con l’ultimo episodio del franchiseRocky Balboa, un film crepuscolare, impregnato di nostalgia abissale e commovente, certamente a mio avviso l’episodio migliore e più riuscito della serie, e prima di continuare le sue avventure, appunto, nei vari Creed, subito dopo il commercialissimo, indigesto e pacchiano incontro con Ivan “ti spiezzo in due” Ivan Drago, Stallone nel 1990 nuovamente scrive il soggetto e la sceneggiatura del quinto e penultimo segmento balboiano, Rocky V, col fido Irwin Winkler ancora come immancabile produttore per la United Artists, e ritrovando il regista del primo, quello oscarizzato che decretò la sua immensa popolarità, vale a dire il compianto John G. Avildsen, deceduto il 16 Giugno dell’anno scorso.

Sconfitto Drago in Unione Sovietica, con tanto di applausi scroscianti di Gorbaciov, Rocky torna nella sua cara e natia Philadelphia. Ma ad aspettarlo vi sono due terribili, brutte sorprese. Rocky avverte dei fortissimi, dolorosi mal di testa e si sottopone a una visita medica. Dalla TAC, risulta che il suo cervello è irreversibilmente danneggiato, in seguito ai troppi duri colpi inferti da Drago sul ring, e gli vien detto quindi che non potrà più combattere. Inoltre, a causa degli scellerati intrallazzi del suo truffaldino commercialista, Rocky ha perso tutte le fortune accumulate e deve sloggiare dalla sua lussuosissima magione, ritornando a vivere nel quartiere popolare ove, prima del successo, era nato e cresciuto. Uno sballottante ma forse rigenerante ritorno alle origini dopo tanti soldi, macchine, una vita agiatissima e gli sfrenati vizi che, inevitabilmente, l’avevano un po’ rintronato.

Rocky torna nella sua vecchia palestra, quella del suo ex allenatore Mickey (Burgess Meredith), e si ricicla lui stesso come personal trailer delle giovani promesse pugilistiche della sua città. Allenare i ragazzi lo rivivifica e presto conosce Tommy Gunn (Tommy Morrison), un ragazzo orfano e sbandato dal combattivo potenziale enorme. Ne diviene il mentore, gli si affeziona quasi più che a suo figlio che comincia a trascurare e, alla fine, lo porta addirittura al titolo più ambito e agognato da qualsiasi boxer, quello del campione dei pesi massimi.

Tommy però nel frattempo si è ammanicato a un manager senza scrupoli, George Washington Duke (Richard Gant), un nome ch’è tutto un programma, un omaccione sbruffone e cinico, ricalcato caricaturalmente sulla figura altrettanto arrivista e spregevole del famoso promoter Don King.

Washington Duke, per tirannica voglia irredenta di guadagnare un sacco di money, riuscirà madornalmente a istigare Tommy Gunn a ribellarsi al suo “padre putativo”, Rocky, cosicché Tommy e Rocky si affronteranno a mani nude in mezzo alla strada, con tutta la gente del quartiere giunta sul luogo ad assistere al frenetico, scoppiettante, sanguinolento, virilissimo, maciullante spettacolo.

Rocky è Rocky, uno che nella vita è andato tante volte al tappeto ma non si è mai arreso per via della sua tenacia indomabile, e vincerà mirabilmente anche stavolta, massacrando di pugni Tommy Gunn. Perché lui è il campione, gli altri sono soltanto sue scialbe, patetiche copie.

E la folla, con tanto di parroco della chiesa locale, in un tripudio di esagitato folclore pittoresco, acclamerà fastosamente, a gran voce magnificante e populista, lui, e chi sennò, Rocky Balboa, il simbolo eterno e invincibile della città, il “totem” quasi cristologico incarnato dalla sua figura titanicamente mitologica. Rocky!

John G. Avildsen non fa un malvagio lavoro di regia, si attiene al compitino, recupera egregiamente le atmosfere suburbane del primo e, nonostante il sovrabbondante, smodato e lacrimevole sentimentalismo pietosamente quasi farsesco e imbarazzante infuso alla vicenda, permette che il suo Rocky V si guardi abbastanza volentieri.

È la sceneggiatura a difettare non poco. Nell’iniziale versione, Rocky doveva morire sotto i colpi micidiali e letali di Tommy Gunn, dando addio definitivamente, in maniera tragica e funesta, al suo leggendario personaggio. Ma ciò avrebbe certamente scontentato il pubblico e i suoi irriducibili aficionado, e dunque si optò naturalmente per un finale decisamente diverso, appunto trionfalistico.

La storia è piena di buchi ed errori filo-narrativi colossali. Dopo il match con Drago, Rocky torna appunto a casa. Il figlio lo sta aspettando calorosamente per abbracciarlo. Ma non è più il piccolo bambino che, alla fine di Rocky IV, avevamo visto esultare di gioia assieme ai suoi amichetti per la vittoria di suo padre. Adesso, a distanza di pochissimi giorni, è già cresciuto e ha le fattezze puberali-adolescenziali del vero figlio di Stallone, Sage.

Insomma, dalla vigilia di Natale alla notte di San Silvestro sin a Capodanno, nella tetra Philadelphia invernale, il figlio di Rocky, in una manciata di ore, ha subito una metamorfosi incredibile, da bambino gracile e timido s’è trasformato in un brufoloso pupetto arrogante e viziato, nell’accrescimento iper-scattante di una fisionomia fisico-emotiva mutata in un battibaleno, superando esponenzialmente ogni fase normale e delicata dello sviluppo. Roba da fare un baffo a Kafka. Ah ah.

E poi… ma come? Rocky aveva tirato su quel ragazzo con tanta accortezza e affetto spaventosamente amorevole, quasi fosse un prezioso Bonsai da far germogliare e coltivare con cura minuziosa, e basta solo che Tommy sferri un pugno al suo cognato Paulie Pennino (il solito Burt Young) per innescargli la reazione omicida di vendetta, per scendere in istrada e annientare Tommy a base d’imperiosi montanti dalla potenza inaudita e jet lag crudelissimamente furiosi? Sì, in fondo il termine jet lag, usato metaforicamente nel pugilato per definire i colpi frastornanti, altri non è letteralmente che la discronia emozionale-percettivo dovuta ai fusi orario. E Stallone, dunque, redigendo lo script, deve aver dato di testa…  Ah ah.

Una sceneggiatura “clinicamente” asincronica che passa da un cardiaco, viscerale stato psicologico all’altro semplicemente perché gli appassionati della saga non aspettano altro che a Rocky scatti la molla della grinta perduta e della scintilla poderosamente riscoccata. Senz’alcun nesso logico e coerenza diegetica. Ma comunque di sicuro effetto, carica e presa.

Se accettate tutto questo, Rocky V può emozionarvi come tutti gli altri. Ed è comunque, ripeto, indubbiamente superiore al precedente.

Rocky V però ha portato decisamente sfortuna sia a Sage Stallone che a Tommy MorrisonSage, alla sola età di trentasei anni, è stato trovato morto nel suo appartamento il 13 Luglio del 2012. A Tommy Morrison, che è stato realmente un campione dei pesi massimi del campionato WBO, battendo il gigante George Foreman, e che nell’ambiente veniva soprannominato The Duke per essere stato uno dei pochissimi atleti bianchi a gareggiare in una categoria esclusivamente riservata a quelli di colore, è andata quasi peggio. Nel 1996 ammise pubblicamente di essere affetto dal virus HIV. E il primo settembre del 2013, dopo un lungo calvario dovuto all’AIDS, è precocemente morto alla sola età di 44 primavere.

Peraltro, secondo l’ex moglie Trisha, Morrison era anche malato della terrificante sindrome di Guillain-Barré e, prima di morire, non riusciva più a muoversi, tanto da rimanere ampiamente paralizzato a letto per circa un anno.

Mi spiace, a tutt’oggi, ancora molto. Nonostante il suo personaggio in Rocky V non sia simpaticissimo, Tommy Morrison era diventato uno dei miei beniamini dell’infanzia. Posso confidarvelo. Un pezzo d’uomo granitico dai muscoli impressionanti. È stata un’orribile fine ingiusta.

Tutto qui.

Questo è Rocky V nel bene e nel male.

Viva Rocky V!

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di Stefano Falotico

 
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