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Lo stagista inaspettato (The Intern), recensione, review

stagista inaspettato

 

Lo stagista inaspettato

 

Incipit melodico, cadenzato da Ben (un sorprendente, “unexpected”, magnificente De Niro) che racconta alla gente, anche agli spettatori, come se ci trovassimo dinanzi a un film di Woody Allen (non a caso, una delle attrici preferite della regista è Diane “Manhattan” Keaton), la sua noiosa vita da pensionato. Le ha provate tutte per “evadere” dalla sua età, per esorcizzar il “profumo” di morte e la depressione “bergmaniana”, si è iscritto a corsi di lingue, ad esempio, ma ciò, anziché alleviare il suo “bofonchiante” rancore e la sua sin troppo languidezza mesta del suo (non) rassegnato animo, ancor leggiadro invece, intimamente “agguerrito”, nel voler inseguire lo sfuggente, inesorabile tempo battente, ha finito, se non a inacidirlo, a “spossarlo”, lui che, vedovo, non è più sposato ma fin troppo (ri)posato, a fargli perdere il vitalistico fuoco sacro del sentirsi “ardente”, vivo, euforico, a rammollirlo nel cuore. “Turba” di cui molti pensionati soffrono, cioè quella di provare l’inadeguatezza oramai d’un vivere “(ir)regolare” senza molto senso. Giornate appunto noiose, nel pedissequo cercar (in)van(itos)o di “forgiarsi”, “foraggiarsi” almeno in qualche impulso creativo per far vibrare un’esistenza “agli sgoccioli”, arrugginitasi, infiacchita, che ha smarrito il mordente dei respiri “vulcanici” e s’è melanconicamente opacizzata in grigi albeggiare dei dì ripetitivi per aspettar la già inoltratasi notte “inutile”, insonne.

Al che, dopo esser andato a far la spesa, in una mattina come tutte le altre, “insignificante”, Ben legge un volantino in cui c’è scritto che “da qualche parte” assumono persone senior per (re)iscriverle al “volenteroso” (apprendi)stato…

Ben, signore appunto compi(u)to, compunto di un’altra epoca, oldfashioned, classico e “firmato” d’eleganza d’antan, “stagionatosi” in tante allegro-morigerate stagioni del cuore sull’orlo se non dello spegnimento, forse, del morir dentro. Che sceglie accuratamente, con estremo gusto, le cravatte da indossare, il suo abito da “biglietto da vis(i)ta” anche se deve, semmai, sol incontrare per strada il vicino di casa. Perché è stato educato così. È di quella generazione lì…

Ben tenta così l’impossibile avventura, trepidante e intrepido, cavaliere senza macchia e senza alcuna paura, ché la saggezza delle tante esperienze l’ha fortificato nella sua amabile gentilezza gioviale intimorita da nulla ma vogliosa di questo capriccio (in)sano, uomo discreto, sen(sib)ile, che certo non è spaventato dal ributtarsi nella mischia e di affrontar a viso aperto una nuova, rinnovante, “rilucidante” occupazione a settanta primavere “suonate”, non ancora però da suonato. È vispo, “ode” scoter la sua anima di stimoli che possan ridonargli gioie rifulgenti che credeva per sempre persesi nell’abitudinaria vecchiaia smorzante.

E incontra, dunque, la radiosa ma nervosa Jules (una grande, naturalissima, come mamma l’ha bellissimamente fatta, Anne Hathaway).

Caro lettore, te lo scrivo col core, se t’appresti a leggere quanto segue e a “inoltrartene”, scoprirai presto, sin dalle mie prime righe, che questa non è solo una recensione standard, ché vidi il film in anteprima, alla premiere londinese, domenica scorsa, elegante e vestito a festa, ma forse non l’ho, e qui cambio il tempo in passato prossimo dal (re)moto che fu, veduto, eppur ne narro. Auto-biografizzandolo, “(di)stil(l)ando” ciò in data 2 Ottobre, aspettando che esca, e possa (ri)vederlo, nel giorno della sua italiana uscita, il 15 sempre di questo mese, caduco, autunnale, piovigginoso, “sdrucciolevole” come le scale bagnate dall’amor rosato, mischiato a baci “grezzi” d’amanti, poco adamantini ma istintivi, “increspati” nel lor “giogo” di cacciatori e prede stronzette coi cazzi nella testa.

In verità, o invero se preferite, non conosco Ben né ho “visionato” il suo stagismo in tal agenzia di moda.

 

Partirei con…

 

L’ironia che fa del tempo perduto un goliardico sberleffo leggero

 

Da che mi ricordi, sono anni “insanabili”, di mia “bile”, che vivo un precoce, (in)sano pensionamento, e non noto nella mia personalità né evoluzioni né (cambia)menti. La mia mente, per evadere dalla noia della mia “vedovità” inconsola-bile, appunto, ha tentato di spremer le meningi nella “cura” della creatività, mia culla, per me, oramai da sempre “allocco”, per risorgere in un ritorno della giovinezza (in)sperata. La mia barbetta, ramosa, “rubina”, quasi da rabbino, si sta ramificando a ogni dì (de)crescente, anziché esser invecchiato nella senilità po(l)t(r)ente, mi sto “umoralizzando” d’atmosfere empatiche col Creato a me prima nauseante, sento infatti riscoccar dalle mie tempie il perduto tempo, ché perito lo credetti, crepato e, invece, dalle crepe sta rinascendo una bella, “tangibile”, succhiante voglia di fresco cioccolato “spiaccicante”, indosso gli scarponi e faccio col pane la scarpetta, sono un (non) vivente mascarpone, dolce alla Up, “vecchietto” furbetto e i giovincelli strafottente, sì, che si fottessero, ora mangio un’altra “caramellosa” crêpe, così di Nu(te)lla ripiena. Ho il panciotto pienotto e do di botte piena e moglie mai o forse avuta, eppur son fradicio ubriaco, (s)fiorente, praticamente un demente. Mi dimeno e tutto in fretta dimentico, a niente oramai credo se non a lasciar che la barca vada ove lo stomaco un po’ deborda e, incontinente, la prostata si alla(r)ghi. Vorrei prender lezioni di Mandarino ma invece sbuccio solo un pompelmo, d’altronde, gente saggia come me sa che la vita è Arancia meccanica, non è più tempo delle mele né dei limoni, per una “limonata” sì, succ(hiott)o-“saccottino” di vero zucchero mio “incarnito”, rincagnito, sono alla frutta e quel che mi resta son i resti dei miei passati, tanti (ri)cor(di).

Devo rimettermi in forma, non son un cassa-(dis)integrato, posso ancora dare molto, in fondo del “barile”, alla società. Devo rischiare, non “raschiarmelo”. La mia maturità può portarmi “ritto” e arzillo a una Rene Russo da cucinarmi, gallina che fa buon brodo, e a un’amicizia platonica con un’Anne Hathaway del più sweet femminismo da chick flick. Speriamo in un happy ending, dopo tanto mio cinismo (ba)lordo, sono buonissimo e non m’incazzo neppure sotto le peggiori torture psicologiche e mille in faccia torte da “schiaffi” (im)morali. Ho molto ancor d’insegnarvi, ragazzini che mi prendete per il popò se il “mio” s’erige per il (ri)tocco della massaggiatrice, ah ah, magari me lo (m)assaggiasse con le sue mani “tornenti”, per il “venir torrenziale e sc(r)ollato”, mani guar(n)enti, delicate, un “toccasana” a uno come me, pensionato non tanto (mal)sano, ché me la tiro di camicia linda e stirata.

Vi metto tutti in “righello”, non siete più “lunghi” di me, la so lunga, so parlar forbito di lingua finissima e “incravattata” da puro gentleman d’aplomb che non si spazientisce mai. Ben rasato, senza baffi eppur col sorriso (non) compiacente d’un De Niro superbo, beffardo come quello migliore del vino d’annata.

 

Procederei, pertanto, con…

 

Anch’io ho, a mo(n)do mio, amato, odiato, la mia età rinnegato, la mia anagrafe distorto, i miei occhi emozionato/i, la mia anima naufraga(ta/o)

Come chiunque, nella mia (non) adolescenza oltraggiata, aberrata, tribolata, mal partorita, a metà e appieno vissuta, triturata, dagli “adulti” scann(erizz)ata, mal vista, acerba e altra, oltre e sempre altrove, m’illusi che 8mm di Joel Schumacher, con Nic Cage, fosse anche un buon thriller “catartico” ma poi, avvedendo la mia (re)visione, sentenziai a perpetua, eterna, finché morte non mi s(e)pari, che sia, perennemente sarà una pellicola fascista, reazionaria, piena zeppa di luoghi comuni sui serial killer, propugnatrice di vendetta giustizialista del peggior Charles Bronson.

Ci fu anche un tempo nel quale pensai che Stanno Tutti bene, sia nelle versione originale di Tornatore mastroianniana che in quella “remake” di Kirk Jones, col “mio” De Niro, fosse un piacevole viaggio “felliniano” agrodolce di rara/e raffinatezze e (ri)sentimenti positivi, ma lo rivalutai, in peggio svalutando me, recensore giudicatomi “alla buona”, e svalutando entrambe le opere del loro insignificante, patetico, nullo “valore”. Se mai l’ebbero, se mai vissi, se(m)mai sa(p)rò.

Trascorsero stagioni magre in cui, “inculato” da mille pensieri dannati, danneggiandomi, sì, io stes(s)o, mi persuasi che l’amore davvero esistesse e che non fosse soltanto l’illusione dell’uomo, creatura contradditoria, nata per sua natura, alla Taxi Driver, solo e senza Sole.

Passarono gli anni e m’incoraggiai, talor scoreggiando da “fattone”, persi la mia indole viscontiana e la mia primordialità da “vampiro”, da Conte tra(s)mutai in principe, poi divenni rospo e sputai sul piatto in cui mangiavo.

 

Ma è or ora di creare l’intervallo…

 

Pubblicità

 

Pensionati, liberi dagli obblighi sociali e “scolastici”, vi siete meritati una gustosa, sciolta, disinibita colazione col cappuccino della Ciobar, in vendita nei migliori discount. Perché noi, “esercenti” di questo regime da esercito, non eserciteremo su di voi, “parassiti” rincoglioniti, altri abusi alla già vostra cagionevole salute, minata, come sappiamo, d’acciacchi e da fissazioni bislacche, da manie compulsive, ché l’Eros della gioventù s’è trasformato in paranoico avvicinamento al Thanatos, da cui il “proteggervi” dietro i rituali e le abitudinarie “convenzioni” dell’io “desessualizzato”, per esorcizzare la (di)partita a carte alla bocciofila.

 

Fate come Ben Whittaker, dopo essere andati a far la spesa, entrate in una tavola calda e chiedete solo ed esclusivamente una bevanda della Ciobar, per una colazione “nutriente”, ipocalorica, anti-colesterolo. Non dovrete pulire la dentiera e non vi verran le carie se userete quello di canna, alla faccia dei ragazzi di McDonald’s che si fan le canne.

Alle prossime elezioni culinarie, salvo alzate di testa e di “uccelli”, da cui le putrescenti, inacidite vostre erezioni, dai il tuo voto alla lista “Ciobar”, per uno Stato più “cremoso” di saccarosio, senza tartari, persone che da un centenario rovinano il mondo con le lor labbra secche da meridionali incazzati.

 

Experience never gets old

(De)pressione (a)sociale

In data di vigilia dall’uscita nelle “saune”, no, sal(s)e, ancor medito sul nostro cam(m)ino così denso di “modernità” sconvolgente, a me, “pensionato”, non più coinvolgente. Gente… che vivacchia, bivacca di “comfort”, il film è “confortevole”, mette di buon umore, “pasticciando” di sentimenti positivi-(bi)polari negli occhi rassicuranti dell’Hathaway, sublim’attrice che, così giovine, (ar)redattrice, ha già le apatie patenti del nostro mondo pa(r)tito, in cor(po) suo (s)magr(it)o, sublimato, fatto sì, di distinta silhouette siffatta, che non “venisse” sfatta, di bel (porta)mento amorevole, grazioso, come il film “delizioso”, tanto da non esser stucchevole ma(i) truccato dietro la furbizia della Meyers che usa molto “trucco” per non far sì, forse no, che Ben invecchiasse patetica-mente sulla demenza. Mette d’accordo tutti, a ogni mo(n)do, c’è chi è (s)truzzo e chi rozzo, chi lo fa pa(r)tire ad azz di razzo e chi ama di più un thriller “tosto”. Ci sono poi quelli che non si cas(s)a-integrano, i disintegrati…, insomma, i pazzi! Di mio, non so, rimango nel dubbio dello sguardo compassionevole, forte d’un De Niro misurato e il caffè, come questo film (non) troppo dolce, miscelo di mia zucca, senza zucche(ro).

Non accetto ulteriori con(s)igli.

I meravigliosi tocchi geni(t)ali della Meyers: ove il femminismo è sweet armonia

Furba, sì, Nancy, ma anche “retrograda” di nostalgico impianto che si riaggancia stupendamente al Cinema “desueto” d’un passato hollywoodiano scomparso, che lei fa riapparire fra squarci d’una periferia d’élite, illuminata da sprazzi solari tendenti alla plumbea notte “ubriaca” e l’omaggio commovente a Gene Kelly, scena d’antologia, con un De Niro incommensurabile, “piangente”, sull’orlo d’una emozionalità “superata”, da vecchia scuola appunto d’un Cinema (s)travolto da “social network” asfissianti e dal logorio frenetico d’un “progresso” che, nella sua superficie dolciastra, è meno potente del suo Cinema dolcissimo, garbato come una carezza a una bambina vestita di ros(s)a.

 

di Stefano Falotico

 

Ellis with De Niro, Trailer

Ellis

No, non è un film ma un cortometraggio diretto da JR, artista a tutto tondo e fotografo originalissimo.
Scritto dallo sceneggiatore Eric Roth e interpretato da Robert De Niro.
Qui, il primo filmato ufficiale diffuso dalla Tribeca. Il corto sarà presentato il prossimo 4 Ottobre al Festival di New York.

Immagini sorprendenti, musica celestiale incalzante, la voce e poi il volto roccioso di De Niro che, al freddo, tra le macerie di una casa appunto fantasmatica, abbandonata, ritraente i volti che furono, oramai sepolti nel giacere altrove, scandisce calda la narrazione.
Pare un trailer di un film di Christopher Nolan per il taglio delle inquadrature alla Inception.

Stupendo. Attesissimo.

The short film stars Academy Award Winner Robert De Niro, was written by Academy Award winner Eric Roth and is directed by the artist JR whose Unframed art installations in the abandoned Ellis Island hospital complex serves as the set for this powerful and timely film.

For millions of immigrants entering the United States in the early twentieth century, Ellis Island was the gateway to a new life. Upon arrival, some travelers were approved, but many, due to illness or simply fatigue, were denied access and hospitalized.

Ellis, a fourteen-minute film directed by JR and written by Academy Award winner Eric Roth, tells the elusive story of countless immigrants whose pursuit of a new life led them to the now-shuttered Ellis Island Immigrant Hospital. Following its opening in 1902, approximately 1.2 million people passed through the facility, where the Statue of Liberty can be seen from the windows. Languishing in a sort of purgatory awaiting their fate, many were never discharged.

Academy Award winner Robert De Niro stars as an immigrant whose pursuit of a new life expired at Ellis Island. Shot on location, the film shows De Niro deliberately traversing the abandoned hospital complex. He is accompanied by fellow ghosts of Ellis Island, which exist in the form of portraits pasted to the walls, windows and doors of the facility in JR’s signature black-and-white style.

Collectively making up an installation titled Unframed, each picture was made from archival photographs of immigrants and hospital patients taken over a century ago. A mother sits on a metal bed next to her resting child. A surgeon looks up from an operation table. A weary traveling group trudges down a derelict stairwell.

JR is known for public installations of large-scale, black-and-white portraits, such as Portrait of a Generation, which began as a way to humanize and demystify residents of Les Bosquets, a housing project outside Paris where riots erupted in 2005. His film Les Bosquets,which documents the pastings and includes a ballet performed by Lil Buck, premiered at TFF in 2015.

Combining a sense of place, history, and documentary images, Ellis nudges our collective memory, evoking the countless individuals throughout history and the contemporary moment who seek freedom from persecution and poverty, abandoning their homes and families for a chance at a better, if uncertain, future.

 

 

 

The Intern, UK Premiere, la bellezza superlativa di Anne Hathaway

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La danza elegante degli ormoni dinanzi allo splendore femmineo

Anne, Anne Hathaway, dolce armonia di simmetrico volto sensualissimo ché, al tintinnio del mio incandescente, arrossitissimo prepuzio, fai sì che in me sgorghi lavico lo sperma maschile del bel sentirmi vivo, ti guardo e m’ingua(i)ni nel “cashmere” avvolgente delle tue sobrie calze a rete, in tue gambe vigorose mi “stupri”, m’induci a (di)venir magro come te, sinuosissima e slanciata di culo però così candidamente maestoso quanto libidinosamente desiderato per amplessi che mi sfiniscano morbidamente nella tua “martellante” figa da dea dell’apparir Madonna e Maddalena ai miei occhi da irriducibile, irrimediabile stronzo. Lecca(r)tela, odorartela, bagnartela e inumidirmi nella beltà superba della donna che sei. Io, irredento, m’inchino prostrato a leccornia della tua solleticante vagina traspirante, ti bacio i piedi e scompaio in un’altra proibita fantasia del mio po(ve)ro matto.

Agguantami, ringhia con me, nitriamo imbizzarriti in “livorosi” orgasmi fragorosi, suda(n)ti, nel nostro dentro che, sven(tr)ato, dannandosi, sì, sì, sì, signor(in)a, si dona rintonante, amanti.

Sono qui, spogliato, nudo. Duro. Prendimi così, piglialo fresco e induriscimelo ancora con la tua tenerezza.

 

di Stefano Falotico

 

La favola del Joker e del Re Pescatore

Fisher King

Clint, in noi un(i)to, ci raccontò dunque tal fiaba nerissima, triste come le donne senza cervello che, mortifere e “balneari”, sc(r)osciano in cerca di pisellini all’albeggiar dei tintinnanti, sciocchini bikini, secca come un film di Sergio Leone, aromatica di retrogusto amaro quanto una sua “nobile” scoreggia profumata d’ansia autunnale, ché le foglie scivolan cadenti nel messianico suo imponderabile (a)mar.

Noi, raccolti a suo insegnamento, “abbeverati” a suo sacro istruirci, ascoltammo ipnotizzati il suo “stupido” candore, imm(ac)olati al suo “fetido” ma saccente odore. Passò circa un’ora e ci dimenticammo delle pornografiche orge che tanto il nostro mondo immondo ammorbano.

Clint, in Lui, c’ammorbidì, teneramente “sdilinquimmo” nella sua serpentesca lingua diabolica e, angelici, folgorati dal suo savio ammaestramento, belli e contenti, non più coglioni belammo, ma con più energie, dal nostro cuore rinnovato, ancor più “forbita-mente” innervatosi dopo tanta gelida neve, all’anima viscerale della Terra nostra (s)porca e ripulita, ci riassorbimmo, aspirando le nevralgiche melanconie che fin ad allora c’ottenebrarono.

Ma ecco il suo racconto, freddo come il mantello di Dracula il Conte, caldo come una concubina che nelle sue fragranti gambe accoglie il Peccato Originale per “indurirti” all’un(z)ione della virilità non più vile.

– Amici, un giorno io passeggiai nei pressi di un cipresso e poi andar a cagar in un pub(bl)ico cesso. Evacuai merda “a voluttà” e cacciai una pisciata sto(r)ica.

Ecco, questa è la fav(ol)a del Joker e del Re Pescatore, due uomini che fuggono dal mondo perché a loro fa cagare, e vi pisciano sopra con indubbio, bellissimo, stupefacente schifo. Svuotandosi e raggiungendo la catarsi.

Al che, uno di noi alzò la mano e domandò: – Tutto qui? Ma che razza di roba è questa? Non è una favola, ma una schifezza. Maestro, è impazzito? Si sta burlando di noi?

Clint: – No, imparerai il senso di questa brevissima storia quando la vita, così colma di delusioni, ti farà merda. E ne apprezzerai l’odore solo dopo la puzza.
In cor(o), applaudimmo ammiranti.

 

di Stefano Falotico

 

The Intern Review, a truly superb film

Forbes-izziamoci!

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The Review:

What’s most impressive about The Intern is how much it does with its premise, and just as importantly what it doesn’t do with it. The notion of a seventy-year-old retired widower re-entering the workforce is one rife with potential for cheap jokes and easy generational shots. But, give or take a few trailer friendly moments, it never actually goes there. There are so many ways that the Nancy Meyers picture could have descended into farce, so many ways it could have descended into cheap theatrics or crowd pleasing hogwash. But time and time again it goes to the brink only to pull itself back with level-headed humanity and insightful empathy. It has a lot on its mind beyond its particular premise, yet at its core it works as a character piece about an unexpected relationship that helps both parties grow and better themselves accordingly. It’s the kind of well-oiled machine that would have been taken for granted twenty years ago but now feels like a revelation.

The Intern concerns Robert De Niro as 70-year old widower Ben Whittaker who signs up for an internship at an online clothes store run by an entrepreneurial Jules Ostin (Anne Hathaway) struggling to juggle the various facets demanding her time. The film’s opening moments immediately earn our sympathy and respect, and it’s clear that the movie is after more than arbitrary punchlines. Yes, it plays a little with generation gaps a little, but everyone has a relaxed chemistry, and there is an overriding sense of can-do decency. As Ben adjusts to a different kind of workforce, and Jules deals with challenges to her leadership and the push-pull of family and work, they of course eventually form a working relationship that blossoms into a genuine friendship. But what sets the film apart is the lack of overt villainy and the presence of an authentic point-of-view about the subjects it raises.

Robert De Niro is pretty great here, and those who would argue that he is a shadow of his former self because he doesn’t kill people in Martin Scorsese movies anymore are doing themselves a disservice. The screenplay walks a fine line between making Ben’s experience and wisdom into a genuine asset and allowing him to overtly patronize his younger coworkers, and the script never tips over into the latter. Ben is too old to carry grudges or take would-be slights personally, and the film benefits from said attitude so it can get to the business at hand. He has exceptional chemistry not just with Hathaway but with his fellow coworkers (Christina Scherer, Adam Devine, etc.) and with Rene Russo in a romantic subplot that just barely works. It’s an unnecessary tangent, but their “first date” is surprisingly moving and I’m always happy to see Russo onscreen.

But truth be told, this is Anne Hathaway’s vehicle. It is as much about Ostin struggling to maintain a successful company while preserving healthy relationships elsewhere as it is about Ben becoming an employee again. I have to wonder if the hook with a 70-year old male intern was required for commercial considerations, but I digress. Meyers based her on real young female entrepreneurs who became CEOs, and as such the film champions her success rather than vilifying her or forcing her to make impossible choices. While her initial introduction is a bit quirky (she rides a bicycle through the office to save time) and we initially hear fearful rumblings from co-workers, the atmosphere in the workplace is one of mutual respect. Hathaway is usually pretty great, but this is the kind of strong movie star turn that would garner more attention if releases like The Intern were taken more seriously as a matter of course.

And, yes, in terms of how it deals with the double standards of women in the workplace and mothers having careers, it is unabashedly feminist and explicitly nonjudgmental in a way that shouldn’t still be surprising in 2015. I bring all of this up to emphasize that The Intern is a genuine adult comedy in that its characters behave like adults rather than stereotypical sitcom constructs. And the picture, which runs two hours, allows everyone their moment or two to shine and allows the core relationships time to grow, change, and be challenged. It touches on the judgment in which mothers hold other mothers, as well as the idea that businesses that cater to women are inherently less serious than those that cater to men. Yes, this workplace comedy centering on a female CEO should be taken every bit as seriously as would-be prestige dramas about great men or gritty crime dramas about scary men who harm those around them. Meyers doesn’t necessarily rub the institutional sexism in our face, but it’s under the surface as an additional issue to be dealt with.

I was constantly impressed by how often the picture presented a scenario that could have led to conventional conflict and strife, but instead was resolved through level-headed adult reactions and communication. And that includes a development that threatens to tip the third act into melodrama but instead allows it to fully engage its main characters in a fantastic dialogue sequence where opinions are aired, and wisdom is shared or challenged. It reminds us how infrequently movie characters just talk to each other and hash out ideas or opinions beyond mere plot-related exposition, and yet this picture is filled with moments just like that. There is no overt villainy in the picture, with the climax hingeing on choices the characters make rather than adversaries they must defeat. It is not edgy or gritty, and thus it may seem slight in the face of would-be Oscar contenders, but its quality should not be ignored due to its emphasis on workplace relationships or its lack of grim spectacle. That it is genuinely witty and consistently entertaining almost counts as a bonus, but said qualities should still be pointed out.

Nancy Meyers’s The Intern is a near-perfect studio programmer, the kind of mainstream multiplex fare that adult moviegoers and critics say we never get anymore. It is intelligent, empathetic, insightful, and charming to a fault, with great star turns from De Niro and Hathaway. There are moments here and there with which I might quibble (a frantic attempt to delete an embarrassing email is a needless distraction), and I don’t agree with every word every major character has to say (Hathaway has a drunken monologue that’s going to inspire a few think pieces), but on the whole it works as refreshingly adult entertainment in the best sense of the phrase. This is Nancy Meyers’s best film as a writer and a director, and I hope Hollywood allows her to make another one in fewer than six years this time. It is tempting to dismiss films of this nature or to quantify their success in lesser terms as a matter of course. But that would be a mistake. The Intern is a truly superb film.

 

 
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