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ARANCIA MECCANICA, recensione

Arancia meccanica

Ebbene, in corrispondenza e concomitanza della sua uscita in splendido 4K da collezione per i cinefili di razza, recensiremo o, per meglio dire, esporremo la nostra breve ma al contempo corposa e precisa disamina in merito a un caposaldo inamovibile della settima arte più pregiata, cioè un film irraggiungibile, ovvero il sempiterno capolavoro assoluto di Stanley Kubrick (Eyes Wide Shut).

Kubrick, regista che ovviamente non necessita d’ulteriori precisazioni e superflue presentazioni pletoriche in quanto, naturalmente, al di là dei gusti personali, più o meno opinabili o apprezzabili, è incontestabile che ci troviamo dinanzi a uno dei massimi maestri della più alta cinematografia qualitativa e sofisticata di tutti i tempi.

Inoltre, aggiungiamo che Kubrick, sì, nella sua fenomenale carriera, ha realizzato tanti grandi film, toccando vette incommensurabili come 2001: Odissea nello spazio ma, se fossimo necessariamente costretti a scegliere, all’interno del suo excursus cineastico-filmografico, la sua opus più rappresentativa, epocale, perturbante ed emozionalmente indimenticabile, opteremmo giustappunto per Arancia meccanica.

In quanto, a nostro personalissimo avviso, Arancia meccanica è il suo film più geniale e, a suo modo, eccentrico, creativamente tanto mirabolante quanto, socio-politicamente parlando, più importante e perfino visionario.

Così come avvenuto sempre per ogni sua pellicola, anche per Arancia meccanica, Kubrick non fu autore in tal caso d’una sceneggiatura originale da lui creata e concepita di pura inventività scevra da qualsivoglia materiale di partenza, bensì trasse libera ispirazione dall’omonima novella dello scrittore Anthony Burgess. Adattandola, per la sua trasposizione in immagini, piuttosto fedelmente, cioè non tradendo l’evocativa forza eversiva, enigmatica e scioccante contenuta all’interno del romanzo di Burgess, altresì però plasmandolo a sua immagine e somiglianza, cioè instillandovi la sua radicale e riconoscibilissima poetica dello sguardo, impressionante e consuetamente magistrale.

Film della notevole eppur non eccessiva durata di centotrentasette minuti netti, distribuito nelle sale nel 1971, dopo essere stato presentato in mondiale anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia, Arancia meccanica, oltre a destare potente scalpore comprensibile, suscitò immantinente pareri critici assai discordanti, pur ricevendo altrettanto immediatamente, generalmente, un entusiastico apprezzamento e, subitaneamente, lusinghiere, sperticate lodi da parte dei suoi stimatissimi colleghi Federico Fellini e Akira Kurosawa, i quali si complimentarono direttamente con Kubrick, incensando Arancia meccanica e ammirandolo di venerazione sacrosanta.

Secondo la generalista e superficiale IMDb, stupidamente erronea e ripetiamo sbrigativa nella sua distorta sinossi riportata a riguardo di Arancia meccanica, la vicenda narratici sarebbe sinteticamente e assurdamente, evidenziamolo ancora, semplicemente questa:

In futuro, un capobanda sadico viene imprigionato e si offre volontario per un esperimento, ma non va come previsto.

Be’, che dire? Un’epitome e una descrizione riassuntiva alquanto, anzi, gigantescamente sbagliata e imbarazzante. Poiché, come ben sappiamo, Arancia meccanica non è di certo sintetizzabile in tale scempiaggine sommaria.

Invero, ambientato in un futuro volutamente imprecisato, dunque distopico, in una Londra spettrale sia onirica e lisergica che ammantata, atmosfericamente, di tetraggine malsana e al contempo morbosamente affascinante, Arancia meccanica verte, nel suo travolgente e spasmodico incipit tanto appassionante quanto inquietante e allucinato/allucinante, su un gruppo di ragazzi sbandati e teppistici, auto-battezzatisi drughi, che trascorrono le loro folli giornate pervasi dalla più agghiacciante noia esistenziale che si riflette in atteggiamenti e atti dei più incontrollabilmente pericolosi e delinquenziali.

La banda è capeggiata dallo scapestrato, eppur a suo modo carismatico e indubbiamente magnetico, Alexander “Alex” DeLarge (Malcolm McDowell), amante della musica classica e fanatico di Ludwig van Beethoven, soprattutto fautore dell’ultra-violenza.

I nostri boys sono soliti ritrovarsi, fra una marachella e l’altra (siamo ironicamente eufemistici e riduttivi nel definire in questi termini le loro criminose gesta riprovevoli e mostruose), fra una pazza bravata e altri glaciali malestri, al Korova Milk Bar.

In una delle loro notti da fuori di testa, fra l’altro alterati dalla bevanda bevuta al Korova, a base di sostanze stupefacenti, assaliscono l’abitazione, in periferia, del romanziere Frank Alexander (Patrick Magee), imbavagliandolo e legandolo, nel frattempo “goliardicamente” stuprando la sua sexy moglie (Adrienne Corri).

Nonostante l’osceno e aberrante stupro di gruppo orripilante e imperdonabile, qualcosa però non va per il verso giusto. Qualcuno ha chiamato, infatti, la polizia. I drughi, di tutta fretta, disperatamente provano a sfuggirne, dileguandosi nella macchia. Tutti riescono a non farsi arrestare tranne l’attardatosi Alex.

Il quale viene sottoposto a una cura riabilitativa devastante…

Il resto della trama, crediamo, la conosciate. Quindi, ci fermeremo qui. Anche perché ci parrebbe pleonastico procedere a raccontarvela e, inoltre, sarebbe irriguardoso nei confronti di coloro, ci riferiamo specialmente alle nuove generazioni, che Arancia meccanica ancora non hanno visto.

Pamphlet anti-utopico, polemico in modo non plus ultra, tanto ipnotico quanto incredibilmente sconvolgente, montato da Bill Butler, coi costumi di Milena Canonero e la strepitosa fotografia di John Alcott, Arancia meccanica, a cinquant’anni dalla sua release ufficiale, non c’appare per niente datato e rimane un capolavoro insuperato.

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di Stefano Falotico

 

UNA VOCE AMICHEVOLE (A Friendly Voice) by Daniel Latteo, recensione

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Oggi, voglio presentarvi sinteticamente, spero però esaustivamente l’affascinante, bel cortometraggio firmato dal filmmaker Daniel Latteo. Disponibile alla visione su YouTube e su Vimeo, anche in versione english sub.


Dramahorrormystery del 2009, Una voce amichevole si presenta così nella sua breve ma evocativa sinossi già richiamante torbide atmosfere fascinose di forte impatto emozionale e palpitanti di visionarietà misterica:

Nicholas è un ex yuppie di successo di trent’anni che da qualche tempo sta attraversando una profonda e straziante crisi esistenziale. Da questa sua situazione, Nicholas sembra non avere alcuna via d’uscita. Ma quando tutto sembra oramai senza speranza, egli inizia a sentire una strana voce che gli parla in tono sia amichevole che sprezzante, senza riuscire a capire da dove provenga.

Bella fotografia suggestiva e ricercata, d’atmosphere, a cura di Angelo Strano.

All’istante, nell’attimo stesso in cui è comparso, già nella penombra, il viso del protagonista (Fabio Aiuto), coi suoi lunghi capelli fluenti e sottilissimi, mi ha ricordato immantinente Nicolas Cage. Infatti, la mia associazione mentale non è stata erronea. Scopriamo presto che il suo character si chiama, neanche a farlo apposta, Nicholas. Il ragazzo lascia il lavoro, anzi, lo confida alla sua partner durante una cena in cui con lei si sfoga rabbiosamente. Dichiarando, con ira allucinata e forse in preda alla paura riguardo il suo incerto futuro, di essere stanco della solite routine che lo sta via via prosciugando nell’anima, inaridendolo a mo’ di zombi. Non sa cosa stia cercando dalla sua esistenza ma, con le valigie in mano, cammina con aria disperata, spaesata e perplessa lungo il corridoio di un albergo che potrebbe farci venir in mente il famoso e inquietante Overlook Hotel. Al che, una voce stridula di donna, probabilmente anziana, (la madre, una strega, una sua immaginaria demoralizzatrice, una proiezione uditiva del suo inconscio?), mellifluamente proveniente dalla misteriosa stanza n.33, lo redarguisce, ammonisce e soprattutto umilia nell’animo, scaricandogli addosso cattive etichette e maligni epiteti atti a distruggerlo psicologicamente, ad annientarlo e demotivarlo col potere della suggestione più perfida e subdola. Un pezzente intanto, alloggia, per modo di dire, nel corridoio, accasciato a terra e con sguardo perso e spento, altresì glaciale, che perturba e angoscia noi e il protagonista. Chi è Nicholas? Dove sta andando? A chi appartiene la terribile voce femminile senza identità precisa, lasciata fuori campo? Parte centrale meravigliosa, girata egregiamente. Con un gioco di dissolvenze incrociate veramente riuscite e tecnicamente magistrali, zoomate d’impatto e primi piani studiati con estrema accuratezza e sofisticata oculatezza per instillarci senso alto di tensione palpabile, impreziosiscono questo corto perlaceo dai molti e non trascurabili pregi importanti.IMG-20220101-WA0007 IMG-20220101-WA0006 IMG-20220101-WA0005 IMG-20220101-WA0004

 

C’ERA UNA TRUFFA A HOLLYWOOD, recensione

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Ebbene, oggi vi parliamo di C’era una truffa a Hollywood, diretto da George Gallo.

Pellicola disponibile alla visione, qui in Italia, dal 26 dicembre scorso su Sky Cinema e disponibile in Blu-ray per l’acquisto a partire dal 19 gennaio 2022, C’era una truffa a Hollywood è la “traduzione”, assai eccentrica e non poco, potremmo dire, naïf, bislacca e cinefilo-citazionistica del suo titolo originale, assai dissimile nel suo significante, ovvero The Comeback Trail.

Su IMDb, il film viene accreditato erroneamente e imprecisamente come C’era una truffa ad Hollywood, quindi con una d eufonica che, in tal caso, oltre a essere grammaticamente scorretta e sconveniente, risulta e risona parecchio cacofonica e, ripetiamo, del tutto errata.

C’era una truffa a Hollywood (questa, la dicitura corretta ed esatta), come sopra dettovi, è un film diretto dal regista di Homeland Security. Gallo è più comunemente noto ai più e apprezzato per essere stato, fra gli altri e peraltro, lo sceneggiatore dello splendido Prima di mezzanotte con Robert De Niro. Il quale, di tale C’era una truffa a Hollywood, è uno degli interpreti principali assieme a Tommy Lee Jones, con cui aveva già lavorato in Cose nostre – Malavita di Luc Besson, e Morgan Freeman. Quest’ultimo, già a sua volta, attoriale partner lavorativo di De Niro per Last Vegas di Jon Turteltaub.

Freeman, che pare aver oramai collaudato un’amicizia, una forte intesa e affinità elettiva con George Gallo. In quanto, prima di C’era una truffa a Hollywood, nelle seguenti righe da noi ovviamente recensito e disaminato, aveva già girato con Gallo il film La rosa velenosa e, prossimamente, lo vedremo sempre per la direzione registica di Gallo, per l’appunto, in Vanquish e in Muti.

C’era una truffa a Hollywood è una spassosa, leggerissima e non troppo impegnata, in verità esilarante e scanzonata commedia agrodolce pregna di umorismo nero vivace e perfino macabro, ricolma di omaggi a tutt’andare al Cinema del passato e giocosamente intrisa, pervasa e corroborata addirittura da pugnaci e sottili venature noir-gangsteristiche se non memorabili, perlomeno nient’affatto disprezzabili, anzi, decisamente intelligenti e, ribadiamo, allettanti e dilettevoli. Ed è un remake, molto sui generis e all’americana, di un’omonima e misconosciuta opus di Harry Hurwitz. Per l’occasione, liberamente e creativamente reinventata, rielaborata, adattata e sceneggiata dallo stesso Gallo & Josh Posner.

Ora, passiamo velocemente alla trama:

Max Barber (un istrionico e buffonesco De Niro al top del suo camaleontismo autoironico, sebbene la sua recitazione sia caricata e smorfiosa) è uno scalcagnato e disperato produttore cinematografico di pellicole di bassa categoria, vale a dire dei cosiddetti b movies pedestri.

Il quale, fra un intrallazzo e l’altro, tra un film sgangherato e altre pellicole abbastanza infime, sciatte e mediocrissime, tira a campare alla bell’è meglio, arrangiandosi come può per sbarcare il lunario. Così facendo, si barcamena e vivacchia, anzi, cerca di sopravvivere nel duro mondo hollywoodiano, competitivamente difficilissimo.

Inoltre, oltre ad avere un’esistenza, non solo professionalmente parlando, piuttosto insoddisfacente e scombussolata, è in grave e insaldabile debito economico, a causa delle sue modeste finanze prosciugatesi, con un pericoloso e potente boss malavitoso del luogo di nome Reggie Fontaine (Freeman). Cosicché, angosciato a morte, strozzato psicologicamente e a livello logistico e pecuniario, impossibilitato realisticamente ad estirpare il saldo con Fontaine, di comun accordo truffaldino con Fontaine stesso, decide d’avventurarsi, diciamo eufemisticamente, attraverso un territorio veramente rischioso, osiamo dire criminoso.

Cioè assoldare un attempato attore praticamente fallito, sul viale del tramonto e con manie suicide, Duke Montana (Lee Jones), ex star da quattro soldi di western alquanto osceni e scemi, in termini qualitativi, di certo non paragonabili ai capolavori inarrivabili di John Ford con John Wayne.

Scherzando e giocando anche con le parole, potremmo dire, western ben lungi, anzi, lontani anni luce dall’essere monumentali, naturalmente impossibili da incorniciare nella settima arte più elevata e raffinata, in cui però almeno compare spesso la Monument Valley a far da cornice alla triste “panoramica” della parabola discendente e amarissima di Montana.

Difatti, Barber vuole pianificare delittuosamente, d’omicidio preterintenzionale, addirittura la morte di Montana, volutamente girando e finanziando un film con Montana protagonista, contenente molte scene, senza stuntman, che vedranno Montana spericolatamente destreggiarsene arditamente a suo completo rischio non assicurato…

Per farla breve, Barber spera che Montana muoia sul set della sua nuova cialtronata imbarazzante, in modo tale da poterne intascare l’assicurazione precedentemente, come da contratto, con Fontaine pattuita e furbescamente stipulatagli.

Tutto andrà secondo i suoi loschi piani malsani?

C’era una truffa a Hollywood è esso stesso un film di serie b girato a mo’ di totale divertissement senza velleitarie pretenziosità artistiche e/o autoriali di sorta. Dunque, non si prende sul serio e lascia vedersi volentieri, date le sue esplicite intenzioni smaccatamente, più che trash, godibilmente e marcatamente kitsch.

Gallo, dunque, perfettamente conscio di filmare e firmare una semplice commedia parodicamente grottesca e per niente ambiziosa, da buon mestierante-artigiano qual sa altresì modestamente di essere coscientemente, desidera sol intrattenerci con una burlesca e buffa operetta sbarazzina di rapidissimo consumo, al fine di deliziarci e distrarci spassionatamente con un filmetto innocentemente allegro e adorabile, senza però rinunziare a qualche sorprendente guizzo arguto e inaspettatamente colto e cinefilo.

Il superbo trio formato dai mostri sacri De Niro-Lee Jones-Freeman si disimpegna con navigata bravura senza, ovviamente, strafare più del dovuto. Com’è giusto che sia. Anche perché il film non lo richiede.

C’era una truffa a Hollywood, come da noi ampiamente esplicatovi ed esposto, non è nulla di più d’una appetitosa sciocchezzuola realizzata e appositamente concepita per essere uno “stupido” guilty pleasure e basta.

Perciò, se non gradite questo tipo di operazioni cinefile innocuamente scherzose e farsesche, se le reputate solamente un’inutile perdita di tempo, per l’appunto, lasciate perdere subito.

Nell’eterogeneo, variegato e variopinto cast, fra notevoli caratteristi e facce uniche, assai adatte per un film congegnato così, Zach Braff (in verità, co-protagonista insieme a De Niro), Kate Katzman, Eddie Griffin, Patrick Muldoon, Chris Mullinax, la bellissima Julie Lott, Vincent Spano & Emile Hirsch (Into the WildKiller Joe).

Fotografia, chiaramente demodé, vintage e rozza, di Lucas Bielan.comeback trail de niro freeman lee jones comebacktrail de niro

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Il film è naturalmente una stronzata colossale e non un colossal memorabile. Una cialtronata quasi falotica. Dunque, un vero capolavoro nel suo genere, una rarità pregiata. De Niro gigioneggia a briglia sciolta, i cavalli son imbizzarriti e il regista è un cavallo matto, oserei dire spericolato. Diciamocela, abbiamo bisogno di film così. Siamo infatti stanchi della perfezione.

Diamoci alla perdizione!

di Stefano Falotico

 

 

DON’t LOOK UP, recensione

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Ebbene, oggi recensiamo il godibile, divertente, provocatorio, caustico, corrosivo e satirico film dramacomedy Don’t Look Up, nuova opus di Adam Mckay, il regista de La grande scommessa e dell’acclamato Vice – L’uomo nell’ombra.

Don’t Look Up, pellicola della consistente e considerevole, forse leggermente eccessiva, durata quasi approssimativa di due ore e venti minuti, per qualche giorno distribuita prima nelle sale dalla Lucky Red, ora disponibile su Netflix, che n’è produttrice mondiale, si avvale di un cast strepitoso, i cui nomi pian piano v’elencheremo e ovviamente vi enunceremo uno per uno. Film scritto dallo stesso McKay, il quale ha personalmente adattato per il grande schermo il suo script, traendo spunto e ispirazione da una storia di David Sirota, Don’t Look Up ci presenta, ripetiamo in forma romanzata, sia piacevole che al contempo inquietante e inducente a forti riflessioni perfino di natura sociologica e/o politica, la seguente e bislacca, a suo modo scioccante e assurda, rocambolesca storia angosciante e catastrofica. Da noi, nelle prossime righe, semplicemente sintetizzata e brevemente espostavi:

La dottoranda in astronomia di nome Kate Dibiasky (una strepitosa Jennifer Lawrence fulva), attraverso i suoi studi, scopre l’esistenza assai preoccupante e potenzialmente cataclismatica di una cometa che, se non sarà opportunamente e tempestivamente fermata, s’abbatterà sulla Terra con esiti comprensibilmente devastanti. Assieme al suo collega e fido amico Randall Mindy (Leonardo DiCaprio), si reca alla Casa Bianca per comunicare tale sua allarmante scoperta angosciante nientepopodimeno che alla Presidentessa degli Stati Uniti in persona, vale a dire l’altezzosa Janie Orlean (Meryl Streep). Fra lo scetticismo generale e la derisione collettiva, in quanto i nostri succitati paladini e salvatori del Pianeta non vengono inizialmente affatto creduti, si dipana una vicenda esilarante, piena di colpi di scena spiazzanti e soprattutto sia metaforicamente non poco allusivi che inquietanti, il tutto condito da una vena graffiante che, in molti momenti intrisi poco velatamente di tagliente e sottile autoironia pugnace che colpisce nel segno, gioca abbastanza facile sulle nostre più ataviche e inconsce paure millenaristiche giammai assopitesi, pronte invece a risvegliarsi appena qualcosa d’imponderabilmente incombente, è il caso di dirlo, ci può piovere dal cielo inaspettatamente.

Don’t Look Up, che potremmo ascrivere e categorizzare nel genere apocalittico di matrice para-fantascientifica e complottistica, è una pochade tragicomica impietosa e straordinariamente irriverente, non si ferma dinanzi a niente e piazza stilettate continue assai polemiche sul nostro discutibile modo di vivere, essa stessa vive di dialoghi ficcanti e di perfette tempistiche perfettamente riuscite fra un gruppo d’attori bravissimi, affiatati e in gran sintonia recitativa che, oltre ai protagonisti assoluti DiCaprio-Lawrence, allinea e annovera tra le sue file Jonah Hill (The Wolf of Wall Street), Timothée Chalamet (Dune), una luminosa, sexy ed eccellente, come sempre, Cate Blanchett, Rob Morgan, la cantante Ariana Grande, Ron Perlman e Mark Rylance.

Don’t Look Up, come detto, ha dalla sua una buona sceneggiatura congegnata come un’esplosiva macchina a orologeria, spesso centra il bersaglio e risulta un film avvincente e vincente. Giostrandosi, dopo un incipit veloce e scoppiettante, divertente e contemporaneamente, pazzescamente, verosimilmente scioccante, in quanto ritraente esattamente ciò che accade quando si dice la verità ma nessuno vuole stupidamente credervi, precipitando di conseguenza in una situazione imbarazzante e strozzante, in un intreccio che, a lungo andare, perde visibilmente quota alla pari di una cometa incontrollabile. In parole povere, McKay, dopo la prima ora veramente coinvolgente, affastella forse troppi temi e non riesce più a gestire, in maniera calibrata, la diegetica del suo confuso racconto, mal dosando gli ingredienti e la miscela della sua pellicola, mettendovi troppa carne al fuoco, come si suol dire, appesantendo e abbrustolendo eccessivamente la sua pietanza cinematografica, rendendola anche troppo lunga.

Don’t Look Up, quindi, verso la fine non poco stomaca e risulta addirittura quasi indigesto. Poiché smarrisce, strada facendo, la sua forza polemica, adagiandosi in una pantomima innocua che vira poi, in modo repentino, al film con intenzioni addirittura ecumeniche, portatrici di pace, letizia e umana speranza. Volendoci lanciare messaggi, perciò, da periodo natalizio.

McKay, probabilmente, avrebbe dovuto conservare lo spirito iniziale della storia da lui narrataci e filmata, non tradendolo, bensì azzardando sino in fondo con cinismo non rassicurante. In quanto il suo sano, stoico e sfrontato affronto volutamente canzonatorio e il suo pamphlet s’affloscia, anestetizzando il suo interessante discorso al vetriolo…

Il coraggio delle sconcertanti premesse dei primi sessanta minuti circa, intese anche in senso lato, esulanti dunque solamente dalla sciencefiction di puro intrattenimento e dalla natura grottesca, si perde lungo il viaggio, sterilmente.

Anche se, va ammesso, gli ultimi quindici minuti sono di grandioso impatto emotivo assai toccante.

Un DiCaprio quasi fantozziano che poi diviene Il Leo che conosciamo, trascinante nel finale, una Lawrence bella e magnetica, uno Chalamet mai così simpatico, una Blanchett femme fatale cringe iper-sensuale, una veloce regia non salvano però il film da una certa ruffianeria studiata a tavolino. Peccato.

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di Stefano Falotico

 

 

La leggenda del monachicchio

La leggenda del Monachiccio
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del Monaciello
o
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Ebbene, questa è la strabiliante, magica e sognante, incredibile storia stramba e strampalata, di un fantasma funambolico, sì, d’un uomo evanescente e innocente, smarritosi stranamente e inspiegabilmente nella nera notte più funerea del suo sopravvenuto, terribile e mortifero disincanto apparentemente irreversibile ed immutabile.
Perso come fu, costui, nel suo voraginoso marasma, dissipatosi nell’asmatico e spettrale pallore della sua personalissima luna cinerea e smorta. Parimenti al tetro e grigio eppur candido colore sobrio della luna durante le notti più chiare in cui la si può osservare nitidamente galleggiare, opalescente e poi di nuovo assai linda, nello spazio profondo più misterioso, abbagliandoci col suo marmoreo candore, ora quest’ectoplasma, di cui vi narreremo la storia ipnotica, inebriandovi con immagini delicate, incorniciate alla scultorea rinomanza della sua esplosiva rinascenza inaspettata, languido passeggia ombroso e poi radioso lungo il lungomare poetico e crepuscolare del suo essere riapparso come per miracolo grandioso.
Egli è il monachicchio. Incarnazione vera e tangibile, come vedrete, presto assai visibile, d’una favola folcloristica reputata irreale e fantasiosamente ridicola, eppur invece pittorescamente veritiera e dunque vivissima. Un uomo, un fantasma, un notturno spettro e un fulgido diamante cristallino dalle sembianze umane, or resuscitatosi nell’abbacinarvi di soave letizia pura come il colore immacolato dell’alabastro più sublime da ammirare in maniera estatica.
Rimanendo tramortiti dinanzi alla beltà accecante, persino imponderabile, della sua realtà allucinante, mescolata alla più favolistica visione surreale di tale nostro mondo caotico e forse distopico.
Il monachicchio.
E che questa storia abbia or inizio!
Il supplizio dei martiri, gli uomini e le donne malati di tanti, incurabili vizi indicibili, l’ozio e l’orifizio del buco del culo di tale mondo lercio e porco.
Il monachicchio viaggiò nella notte più cupa e ora vive bellamente rifulgente nel ventre meandrico e oscuro, quindi solare, di questa nostra terra maledetta e impura. Oserei dire… satura di cinismo meschino.
Il suo cuore respira in modo feroce, la sua anima rivive con gaudio lucente.
Eh sì, bella gente.

di Stefano Falotico

 

THE NORTHMAN – Official Trailer

northmanFrom visionary director Robert Eggers comes THE NORTHMAN, an action-filled epic that follows a young Viking prince on his quest to avenge his father’s murder. With an all-star cast that includes Alexander Skarsgård, Nicole Kidman, Claes Bang, Anya Taylor-Joy, Ethan Hawke, Björk, and Willem Dafoe.

 

SCREAM, recensione

Henry Winkler Scream

Ebbene, in concomitanza con la sua uscita per il mercato home video in perfetto 4K, vi parliamo di Scream, firmato dal compianto maestro Wes Craven.

Scream, uscito nei cinema mondiali nello scorso millennio, più precisamente a metà dei nineties (con esattezza nel ‘96) cioè i rutilanti e confusionari anni novanta a loro modo originali e che, potremmo dire, rivisti nostalgicamente col senno di poi, hanno fatto scuola e instaurato nuove mode, fu un inaspettato ma straordinario successo di pubblico. Fu presentato, per il mercato statunitense, sotto l’egida dell’ex Dimension Films (succursale della futura e poi decaduta Weinstein Company), stranamente sotto il periodo natalizio. Periodo in cui, come sappiamo, si preferisce quasi sempre e tradizionalmente distribuire opere a buonista tematica famigliare, i cosiddetti family movies rassicuranti. Invece, in questo caso, s’optò giustappunto per una scelta in controtendenza, essendo Scream, a prescindere dai suoi risvolti demenziali, parodici o parodistici che dir si voglia, a dispetto del suo impianto goliardicamente malsano nel senso più innocuamente morboso del termine e della sua accezione più letterariamente usuale, sostanzialmente un film di matrice orrifica con venature da thriller adolescenziale che mescé alla forte suspense, innegabile, crescente e palpabile, un voluto e intrinseco senso citazionistico ben marcato e originale.

Scream, infatti, per via della sua natura e concezione omaggiante molte pellicole horror, a partire ovviamente da uno dei film capostipiti e totemici del genere slasher per eccellenza, ovvero Halloween di John Carpenter (citato apertamente con tanto di scena dedicatagli espressamente), fin ad arrivare naturalmente a Nightmare di Craven stesso, mischiata al suo ottimamente calibrato canovaccio tipicamente e volontariamente satirico-grottesco, divertito e autoironico, infarcito di riferimenti a man bassa, mieté proseliti e generò epigoni a non finire, partorendo e ingenerando prodotti similari e/o derivativi, sequel e perfino parodie delle più disparate (vedi Scary Movie con altrettanti relativi seguiti) ispirate a esso. Recuperando e rinnovando per l’appunto, in maniera arguta e comunque sia efficace, la tradizione del Cinema di paura tanto inquietante quanto, al contempo, esilarante e ricolmo di trovate indubbiamente spiazzanti ed eccentricamente geniali. Assurgendo esso stesso a pellicola oramai imprescindibilmente iconica e a indiscutibile caposaldo inamovibile.

Scritto da Kevin Williamson, Scream dura all’incirca un’ora e cinquanta minuti, cioè praticamente 2h. Emozionanti e sussultanti in senso toutcourt.

Trama, abbastanza nota da tutti i cinefili, quindi da noi sintetizzata all’osso e, osando noi stessi divertirci corrosivamente con le parole, scarnificata a mo’ di brevissima sinossi lapidaria e smunta. Insomma, ecco il sunto…

Una ragazza di nome Sidney Prescott (Neve Campbell), a distanza di un anno dalla tragica morte della madre assassinata, riceve una telefonata inizialmente buffonesca, invero nient’affatto scherzosa. E impazza presto il terrore, raffigurato e simbolizzato da un babau che indossa, in maniera carnevalesca molto raccapricciante, una maschera non da Michael Myers carpenteriano, bensì ispirata non poco vagamente e in modo granguignolesco al famoso, inquietante quadro L’urlo di Edvard Munch. Da cui il titolo originale del film. Infatti, tale dipinto di Munch, in norvegese, patria dell’artista appena succitato, si chiama Skrik ma è internazionalmente nota come The Scream.

L’omicida seriale non colpisce le ragazze vergini e ammazza invece chi non sa rispondere correttamente ai suoi indovinelli-tranelli in merito ai film del brivido…

Scream Neve Campbell

Wes Craven compie, con Scream, un’operazione simile, sebbene più scanzonata e meno metafisica, al suo precedente Nightmare – Nuovo incubo, nuovamente prendendo di mira, tematicamente parlando, i suoi amati-odiati, inquieti e acerbi teenager statunitensi. Se Freddy Krueger fu un fantasma partorito dalla cattiva coscienza della middle class americana che, alle sue imberbi vittime designate, cioè i figli della generazione dei loro padri che barbaramente lo uccisero e arsero vivo, bruciato in volto si mostrava a viso aperto, materializzandosi nel subconscio della fase REM, il mostro di Scream è ancora, possibilmente, più subdolo e terrorizza perfino maggiormente in quanto realmente vivente seppure invisibilmente identificabile a livello facciale.

Opera dai tanti pregi, Scream non è di certo esente da pecche e forse, sino in fondo, non risulta priva di sbavature, perfetta e ineccepibile anche dal punto di vista formale. Poiché, dopo una prima parte folgorante ed emozionalmente devastante, leggermente s’affloscia ripetitivamente, perdendo la sua verve caustica in un finale piuttosto convenzionale e alquanto prevedibile, molto hollywoodiano.

Cast di giovanissime scommesse attoriali di quei tempi, cioè Courteney Cox, David Arquette, Rose McGowan, Skeet Ulrich e Liev Schreiber. Quest’ultimo, l’unico ad aver mantenuto la promessa…

Cammeo del mitico Henry Winkler nei panni dello stupido preside della scuola di nome Arthur.

Eh già, Arthur come il suo Arthur Fonzarelli, alias Fonzie di Happy Days.

Con l’aggiunta di Drew Barrymore.

Curiosità: tornando a L’urlo di Munch, il sottotitolo italiano di Scream è Chi urla muore.

Paolo Mereghetti asserisce che Scream sia pieno di svaccamenti.

E allora svacchiamoci. E svecchiamoci.

Soffro di amnesia. Un mio amico sostiene che io e lui andammo a vedere questo film per il mio compleanno dei 18 anni.

Mi ricordo solo di aver sempre indossato il giubbotto di pelle alla Fonzie. E di essere uguale ancora a Henry Winkler anche se la gente mi scambiava per Freddy Krueger e Michael Myers. Una vita bruciata, insomma, da vera faccia di cuoio da Non aprite quella porta? No, di culo senza maschere del c… zo.

Ricordo anche che al film Cose selvagge ho sempre preferito le cosce femminili. Ma, a quelle di Neve Campbell, quelle di Denise Richards.

Insomma, persi le palle ma indossai il giubbotto da Cuore selvaggio. Un altro mio amico, per modo di dire, afferma invece di essere figo come Matt Dillon di Rusty il selvaggio e del film eccitante, no, sopra citato, di John McNaughton, sì, il regista di Henry – Pioggia di sangue. Costui dice pure, a mo’ di Dillon di In & Out, che io sarei frocio come Kevin Kline di tale film. Sostenendo, altresì, che io sia calvo. A dire il vero, indosso slip di Calvin Klein e non ho mai voluto ammazzare, a differenza di Myers, Jamie Lee Curtis. Infatti, sia sulle sue cosce selvagge di Un pesce di nome Wanda che sul suo spogliarello di True Lies, scoprii precocemente di essere Mark Wahlberg di Boogie Nights. Agli altri miei “amici” non lo dissi mai perché sarebbero stati gelosi delle mie doti nascoste molto amate e prelibate, succulente non più da illibato. Se avessi detto loro la verità seduta stante, non mi avrebbero ucciso, avrebbero fatto di tutto per castrarmi in un istante. Ci provarono in fallo, no, infatti. Rischiai di finire internato a vita, impazzendo di rabbia, ma divenni un genio psichiatrico come Donald Pleasence? No, questo è un fallito. Mica un Falotico. Sì, alle schiume di rabbie, preferisco quelle da Barbie, no, scusate. Volevo dire da barba.
E su questa battona, no, battuta tagliente e ficcante, dicasi anche freddura travolgente, vi lascio al vostro freddo agghiacciante. Ah ah, eh già, bella gente.

Son un uomo, in realtà, penetrante…Wes Craven Scream Winkler Scream

HAPPY DAYS - "Fonzie Loves Pinky" which aired on September 21, 1976. (Photo by Walt Disney Television via Getty Images Photo Archives/Walt Disney Television via Getty Images) HENRY WINKLER

HAPPY DAYS – “Fonzie Loves Pinky” which aired on September 21, 1976. (Photo by Walt Disney Television via Getty Images Photo Archives/Walt Disney Television via Getty Images) HENRY WINKLER

di Stefano Falotico

 

LA GUERRA DEI MONDI, recensione

guerra dei mondi poster

Ebbene, oggi recensiamo il sottovalutato, da molti ingiustamente snobbato, perfino contestato e a tutt’oggi malvisto, in ogni senso, La guerra dei mondi (War of the Worlds) del grande Steven Spielberg (Schindler’s ListIncontri ravvicinati del terzo tipoLo squalo). Spielberg, genio assoluto del Cinema, incontestabile e immarcescibile, instancabile stacanovista mastodontico che ha compiuto la bellezza totale di settantacinque primavere lo scorso 18 dicembre recentissimo. Attesissimo, immantinente, col suo rinomato remake del capolavoro epocale e intramontabile di Robert Wise, già adorato e acclamato dalla Critica statunitense, ovvero West Side Story.

Con tale La guerra dei mondi, peraltro e neanche a farlo apposta, cimentatosi all’epoca, cioè nell’anno in cui fu distribuito, vale a dire il 2005, nella trasposizione cinematografica del celebre, omonimo romanzo fantascientifico di H.G. Wells che fu alla base dello strepitoso e geniale scherzo radiofonico, passato indelebilmente alla storia, del leggendario Orson Welles.

Opera capitale e per antonomasia della sciencefiction più iconica e imprescindibile, anzi, per l’esattezza, una delle prime novelle veramente ragguardevoli inerenti per l’appunto il genere della fantascienza pura, dunque romanzo “seminale”, progenitore di molti cloni, letterari e non, a seguire, La guerra dei mondi di Wells (non Welles, eh eh), per l’occasione di tale da noi recensita pellicola ad opera di Spielberg, è stato sceneggiato da Josh Friedman (Black Dahlia di Brian De Palma, Terminator – Destino oscuro) e dal valente, sebbene altalenante, non sempre pienamente convincente, David Koepp (writer di Carlito’s Way, regista di Effetto Blackout e Secret Window). Quest’ultimo, inoltre, autore già per Spielberg di Jurassic Park e sceneggiatore di Mission: Impossible con Tom Cruise. Tom Cruise che, a sua volta, soddisfatto ed entusiasta come fu del successo di Mission: Impossible, entusiasmato dall’aver letto la sceneggiatura di Koepp riguardante, giustappunto, una futura ed eventuale versione de La guerra dei mondi avente lui stesso come protagonista e opportunamente passatagli da Koepp in previsione d’un possibile adattamento per il grande schermo, contattò immediatamente Spielberg. Affinché fosse Spielberg a dirigerlo dopo l’esperienza positiva di Minority Report per cui Spielberg & Cruise, come sappiamo, congiunsero le forze con risultati, se non perfetti, perlomeno lusinghieri e comunque di enorme, planetario successo meritevole di lodi.

Dunque, La guerra dei mondi rappresenta la loro seconda reunion artistica che però smentisce il proverbiale detto non c’è due senza tre. Infatti, per ragioni a noi ignote e non spiegateci, dopo La guerra dei mondi, Cruise e Spielberg non hanno più lavorato assieme. Ma questa è forse un’altra vicenda concernente esclusivamente i fatti loro e non intendiamo né possiamo personalmente occuparcene, ovviamente. Sperando però vivamente che, quanto prima, tali due forze della natura possano per l’appunto nuovamente incrociare i loro destini lavorativi per consegnarci altri miracoli. Ora, invece, occupiamoci della trama riguardante La guerra dei mondi e non perdiamoci in chiacchiere futili, soprattutto non smarriamoci in supposizioni e speranze, da cinefili appassionati di questi due titanici nomi hollywoodiani, che esulano dalle nostre realistiche, indagatorie possibilità precognitive…

Un operaio del porto di New Jersey, chiamato Ray Ferrier (un eccellente e magnetico Tom Cruise), uomo un po’ scavezzacollo, eterno Peter Pan forse mai davvero cresciuto, deve fare da balia, per il weekend, ai figli Rachel (Dakota Fanning) e Robbie (Justin Chatwin), avuti dall’ex moglie Mary Ann (Miranda Otto), forse da lui ancora amata, dalla quale però è separato. Irresponsabile e apparentemente anaffettivo soprattutto nei confronti dell’adolescente Robbie, col quale litiga spesso, sarà costretto, a causa d’un evento catastrofico dalle ciclopiche proporzioni sesquipedali e più impensabili per la razza umana, cioè un violentissimo e cattivo, cruento attacco alieno piovuto imponderabilmente dallo spazio, a intraprendere un peregrinaggio esistenziale ove, oltre a combattere in modo resiliente per la propria sopravvivenza e quella dei suoi cari, imparerà giocoforza ad assolvere al suo compito genitoriale da cui, sin a questo momento oltre i confini della realtà, era sempre sfuggito da irredimibile immaturo ostinato.

Lottando, infatti, con ardimento per rimanere vivo in mezzo al tonitruante sterminio dinamitardo, potremmo dire, e terribilmente omicida effettuato da impietosi alieni mostruosi dei più tremendi, a prima vista invincibili e infermabili, la sua anima redimerà, trionfando impavidamente da eroe oramai senza macchia né paura alcuna.

Ergendosi fiero nel commovente finale, visionariamente eccelso, di tale altra perla spielberghiana, come dettovi, fra le più assurdamente sottostimate da parte della cosiddetta intellighenzia critica invero assai, in questo caso, incredibilmente fallace e superficiale.

Fotografia da brividi di Janusz Kaminski che gioca, in virtù della sua bravura encomiabile, con contrasti cromatici d’immane splendore visivo dei più incantevolmente ammalianti. Imprigionandoci soavemente nella beltà d’immagini nitidamente estatiche e suadenti.

Musica, come sempre avviene per Spielberg, di John Williams.

Nel cast, breve ma memorabile parte d’un Tim Robbins tanto delirante come non mai quanto consuetamente perfetto per la parte.

La guerra dei mondi, un film subito da rivalutare, su cui non si doveva, non si deve né si dovrà giammai più sindacare con faciloneria disarmante, osiamo dire imbarazzante.

Perché è un’altra opera straordinaria, poetica e al contempo fra le più inquietanti, sanguinarie, strepitosamente belle ed immaginifiche di un signore dal nome Steven Spielberg.

Vale a dire, un regista e un uomo che nascono ogni cento anni.

Sì, il Cinema di Spielberg è sovente puerile, perfino sdolcinato, a volte didascalicamente retorico, addirittura ampolloso.

Ma nessuno, al mondo, sa creare la magia del sogno più cristallino come lui.

Quindi, finitela di criticarlo e inchinatevi dinanzi al suo cospetto.

Altrimenti, se preferite sennò, penserò che abbiate perso il senno e, in particolar modo, il cervello.
Anche se, a essere sinceri e umanissimi, non alienati come voi, penso che pochissime persone di questa Terra posseggano la mente di Spielberg.

A ragion veduta dico ciò poiché spesso scambiate i geni per cretini quando in verità vi dico che molti di voi, anziché criticare il prossimo vostro con screanzata villania da invidiosi insalvabili, dovrebbero essere belli, almeno al 15%, come Tom Cruise.

Insomma, non pretendo che siate come Tom Cruise. Non gliela potete fare, umanamente parlando. Quindi non vi biasimo né compatisco.

Vi chiedo però di essere come me.

E lo sanno tutti che io sono meglio di Cruise.

Su questa freddura finale, mi sparo, no, nella notte sparisco.

di Stefano Falotico

guerra mondi spielberg cruise

 

È STATA LA MANO DI DIO (The Hand of God), recensione

mano di dio poster sorrentino

È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino – Una soave, malinconica e onirica ode romantica

Ebbene, è finalmente uscito sui nostri schermi e da noi recensito, dopo essere stato apprezzatamente presentato alla 78.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, È stata la mano di Dio, firmato da Paolo Sorrentino. Del quale, peraltro, poco prima della kermesse veneziana, disaminammo brevemente il suo excursus filmografico, concentrandocene nei suoi punti salienti e, osiamo dire, vincenti.

All’epoca, azzardammo a porvi la semplice ma stimolante, seguente domanda, ovvero è il regista italiano, se non più grande, attualmente più importante? E, in tale sede, aggiungiamo noi anche più internazionalmente esportabile? Considerato il fatto, giustappunto, che È stata la mano di Dio è il film dalla nostra commissione selezionato per poter essere nominato alle prossime candidature agli Oscar. Nella speranza, c’auguriamo vivamente, che possa bissare il successo come Miglior Film Straniero dopo la strepitosa, perfino un po’ inaspettata vittoria di Sorrentino agli Academy Awards con La grande bellezza?

Sì, È stata la mano di Dio, possiamo garantirvelo, ha tutte le carte in regola per vincere ancora e potersi aggiudicare dunque il massimo e più ambito riconoscimento mondiale da noi tutto agognato.

Però, premettiamo subito e doverosamente che È stata la mano di Dio, rispetto alla Grande bellezza, se ne discosta notevolmente per tematiche affrontate, opposte diametralmente. Se ne differenzia innanzitutto, ciò salta all’occhio immantinente, per l’ambientazione, essendo stato La grande bellezza ambientato nella capitale, cioè Roma, mentre è Napoli, in tutto e per tutto, la città protagonista di È stata la mano di Dio. Città fascinosa e folcloristica, ricolma di rilevante storia rinomata, città criticata e poi assai amata, denigrata e osteggiata da chi, affetto dai peggiori luoghi comuni (e questo non è un gioco soltanto di parole effimero o velleitario), reputa Napoli solamente una città quasi desolante che alterna, forse pateticamente, alla sua magnificenza architettonica, degna d’esser ritratta in modo pittorico e non solo raffigurata, in senso ridicolmente grottesco, in maniera impropriamente pittoresca e dispregiativamente ironica, la sua sana, creativa, vivaddio vitalistica follia di cui è intrisa a partire dalle sue veraci viscere partenopee, per l’appunto, e dalle sue epocali fondamenta importanti. Permetteteci tali licenze poetiche poiché Napoli è al centro di questa nuova storia tipicamente à la Sorrentino. Girata alla sua maniera, forse meno manieristica e artefatta se messa a confronto con la sua solita cifra stilistica, da molti detrattori di questo regista ritenuta estetizzante, a tratti eccessivamente calligrafica come ne La grande bellezza, fra l’altro.

Con È stata la mano di Dio, Paolo Sorrentino, coraggiosamente, compie un’operazione nostalgica gloriosa, straordinariamente autobiografica e, per l’appunto, fortemente stoica. In quanto, come sappiamo, ci racconta intimamente la sua vicenda personale, essenzialmente la sua storia. La sua vita, quindi, romanzandola delicatamente, liricamente trasfigurandola attraverso una magica macchina da presa pregna di sconfinata passione per il Cinema e incantevolmente ricolma della sua stessa esistenza che profuma di rinascita tanto imprevista quanto miracolistica. Giovanilmente difficile, segnata da un gravissimo lutto indicibile, cioè la tragica e prematura scomparsa dei suoi genitori. Un episodio impossibile da dimenticare, un avvenimento assai triste che nessuno può con facilità dimenticare. Ma può comunque sublimare, cicatrizzando tale immane, irreversibile ferita dell’anima, svoltando altrove, volando alto nella fantasia più pura e piena d’amore, volteggiando per scordare tutto, soprattutto il lutto, e altresì, dalle profondità del dolore interiore, risorgere invigoriti e gagliardamente, se possibile, ancora più sognatori. Ancora più inarrendevoli dinanzi alla beltà e al contempo alla durezza che una complessa, tentacolare giungla metropolitana come Napoli può sbatterti in faccia senza molte parsimonie.

È stata la mano di Dio è indiscutibilmente un capolavoro. Fra le opere di Sorrentino, la più autentica, la più intima, la più romantica, la più emozionalmente mastodontica.

È un viaggio introspettivo, intarsiato e corredato d’immagini bellissime, nel passato di Sorrentino da lui poetizzato, da lui finanche polemizzato, odiato ma inevitabilmente riabbracciato. Un tuffo spettacolare non solo, paesaggisticamente parlando, nel mare che costeggia il Vesuvio, spentosi vulcano che si staglia però eternamente prominente nella sua Napoli stramba e colorata, nella sua Napoli magnifica in quanto debordante di umanissime contraddizioni impagabili. Per di più, È stata la mano di Dio diviene un tuffo marino, a livello metaforico, sì, prettamente figurato eppur persino esteticamente figurativo, nel liquido e incandescente magma esplosivo dei ricordi che tornano a galla e si visualizzano d’incanto. I ricordi che, anziché intristire, ridonano respiro sensibile e alato.

Quei ricordi che fanno male, gli stessi ricordi che pensavi forse, in modo illusorio, d’aver per sempre rimosso ma, invece, come detto, prima o poi riaffiorano, riemergendo prepotenti, irreprimibili e potentissimi come la furia illuminante di Nettuno.

Perché non puoi spegnerli come lo stesso Vesuvio.

Essi, infermabili, tacquero e potesti, arrendendotene, soggiacerne melanconicamente, ma prima o poi ribollono visceralmente in maniera ineludibile e rilucente. E, da tale sussultante ribollio furioso dell’inconscio rispuntato, apparentemente sommerso e soppresso, ecco che quella disumana morte si trasforma in voglia incredibile di vivere, di rivivere di nuovo.

Di risentire la vita ancora e ancora, ancora e ancora.

È stata la mano di Dio, ripetiamo, è un’opera immensamente bella, eccezionale e poetica.

Dunque, ci prepariamo con impavido orgoglio, non solo da fervidi napoletani, fieri giustamente delle loro origini, nonostante i loro stessi mille difetti, a concorrere agli Oscar per vincere un’altra volta.

Risuona, anche nel trailer, riguardo Diego Armando Maradona, quell’epica esultazione esclamante… è un gigante!

Ecco, se per Sorrentino, Maradona ebbe poteri, a detta sua, quasi divinatori o associabili al divino, in quanto da Sorrentino ritenuto un prodigio della natura inaudito, capace col suo genio balistico di emozionare un’intera città contradditoria, ostica ed eroica come Napoli, È stata la mano di Dio è parimenti un grandissimo film, uno strepitoso goal imparabile dei più spiazzanti e sorprendenti. Soprattutto, evidenziamolo ancora, una vetta della settima arte delle più romantiche e vellutate. Ruspante, calorosa, stupendamente malinconica e toccante.

È il colpo geniale e passionale che il Cinema italiano aspettava da tempo immemorabile.

Cast:

mano di dio luisa ranieri

Il nudo integrale di Luisa Ranieri già varrebbe interamente il prezzo totale del biglietto. Ma questo è niente. Siamo di fronte a un film perfetto come la Venere di Botticelli. Poesia purissima incastonata in immagini poetiche oltre il concetto di stupendamente incantevole.mano di dio luisa ranieri 4

di Stefano Falotico

 

 

2022 Golden Globes Nominations

west side story spielberg

Best Motion Picture, Drama

Belfast
CODA
Dune
King Richard
The Power of the Dog

Best Motion Picture, Musical or Comedy

Cyrano
Don’t Look Up
Licorice Pizza
Tick Tick Boom
West Side Story

Best Director, Motion Picture

Kenneth Branagh, Belfast
Jane Campion, The Power of the Dog
Maggie Gyllenhaal, The Lost Daughter
Steven Spielberg, West Side Story
Denis Villeneuve, Dune

Best Screenplay, Motion Picture

Paul Thomas Anderson, Licorice Pizza
Kenneth Branagh, Belfast
Jane Campion, The Power of the Dog
Adam McKay, Don’t Look Up
Aaron Sorkin, Being the Ricardos

Best Actor, Motion Picture, Drama

Mahershala Ali, Swan Song
Javier Bardem, Being the Ricardos
Benedict Cumberbatch, The Power of the Dog
Will Smith, King Richard
Denzel Washington, The Tragedy of Macbeth

Best Actress, Motion Picture, Drama

Jessica Chastain, The Eyes of Tammy Faye
Olivia Colman, The Lost Daughter
Nicole Kidman, Being the Ricardos
Lady Gaga, House of Gucci
Kristen Stewart, Spencer

Best Actor, Motion Picture, Comedy or Musical

Leonardo DiCaprio, Don’t Look Up
Peter Dinklage, Cyrano
Andrew Garfield, Tick Tick Boom
Cooper Hoffman, Licorice Pizza
Anthony Ramos, In the Heights

Best Actress, Motion Picture, Comedy or Musical

Marion Cotillard, Annette
Alana Haim, Licorice Pizza
Jennifer Lawrence, Don’t Look Up
Emma Stone, Cruella
Rachel Zegler, West Side Story

Best Supporting Actor, Motion Picture

Ben Affleck, The Tender Bar
Jamie Dornan, Belfast
Ciaran Hinds, Belfast
Troy Kotsur, CODA
Kodi Smit-McPhee, The Power of the Dog

Best Supporting Actress, Motion Picture

Caitriona Balfe, Belfast
Ariana Debose, West Side Story
Kirsten Dunst, The Power of the Dog
Aunjanue Ellis, King Richard
Ruth Negga, Passing

Best Original Score, Motion Picture

Alexandre Desplat, The French Dispatch
Germaine Franco, Encanto
Jonny Greenwood, The Power of the Dog
Alberto Iglesias, Parallel Mothers
Hans Zimmer, Dune

Best Original Song, Motion Picture

“Be Alive,” King Richard
“Dos Orguitos,” Encanto
“Down to Joy,” Belfast
“Here I Am,” Respect
“No Time to Die,” No Time to Die

Best Animated Feature, Motion Picture

Encanto
Flee
Luca
My Sunny Maad
Raya and the Last Dragon

Best Motion Picture Not in the English Language

Compartment No. 6
Drive My Car
The Hand of God
A Hero
Parallel Mothers

TELEVISION

Best TV Series, Drama

Lupin
The Morning Show
Pose
Squid Game
Succession

Best TV Series, Comedy

The Great
Hacks
Only Murders in the Building
Reservation Dogs
Ted Lasso

Best TV Series, Limited Series or TV Movie

Dopesick
American Crime Story: Impeachment
Maid
Mare of Easttown
Underground Railroad

Best Actor, TV Series, Drama

Brian Cox, Succession
Lee Jung-jae, Squid Game
Billy Porter, Pose
Jeremy Strong, Succession
Omar Sy, Lupin

Best Actress, TV Series, Drama

Uzo Aduba, In Treatment
Jennifer Aniston, The Morning Show
Christine Baranski, The Good Fight
Elisabeth Moss, The Handmaid’s Tale
Michaela Jae Rodriguez, Pose

Best Actor, TV Series, Comedy

Anthony Anderson, Black-ish
Nicholas Hoult, The Great
Steve Martin, Only Murders in the Building
Martin Short, Only Murders in the Building
Jason Sudeikis, Ted Lasso

Best Actress, TV Series, Comedy

Hannah Einbinder, Hacks
Elle Fanning, The Great
Issa Rae, Insecure
Tracee Ellis Ross, Black-ish
Jean Smart, Hacks

Best Supporting Actor, TV Series

Billy Crudup, The Morning Show
Kieran Culkin, Succession
Mark Duplass, The Morning Show
Brett Goldstein, Ted Lasso
Oh Yeong-su, Squid Game

Best Supporting Actress, TV Series

Jennifer Coolidge, The White Lotus
Kaitlyn Dever, Dopesick
Andie McDowell, Maid
Sarah Snook, Succession
Hannah Waddingham, Ted Lasso

Best Actor, Limited Series or TV Movie

Paul Bettany, Wandavision
Oscar Isaac, Scenes from a Marriage
Michael Keaton, Dopesick
Ewan McGregor, Halston
Tahar Rahim, The Serpent

Best Actress, Limited Series or TV Movie

Jessica Chastain, Scenes from a Marriage
Cynthia Erivo, Genius: Aretha
Elizabeth Olsen, Wandavision
Margaret Qualley, Maid
Kate Winslet, Mare of Easttown

 
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