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IL COLLEZIONISTA DI CARTE, recensione

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Ebbene, oggi recensiamo la nuova, elegante opus di Paul Schrader (First Reformed – La creazione a rischio), da lui stesso scritta così come soventemente avviene regolarmente, ovvero Il collezionista di carte (The Card Counter). Il collezionista di carte è stato recentissimamente presentato in Concorso alla 78.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, più precisamente nella giornata dello scorso 2 Settembre, dì nel quale fu mostrata in anteprima mondiale assoluta alla stampa e al pubblico, riscontrando immantinente pareri decisamente lusinghieri. Tant’è che ha ottenuto subito su metacritic.com, celeberrimo sito aggregatore delle recensioni, una superba media equivalente all’83% di opinioni altamente onorevoli.

Nella giornata successiva al 2 settembre, cioè il 3, Il collezionista di carte è stato altresì distribuito, tramite la Lucky Red, sui nostri grandi schermi. Dunque, la sua acclamata presentazione, in quel della kermesse succitata, è avvenuta pressoché in contemporanea con la sua uscita nelle sale nostrane.

Film della considerevole eppur mai annoiante, sebbene a tratti soporifera, durata di un’ora e quarantanove minuti tesi, spasmodici, adrenalinici e intrisi di fortissima tensione palpabile dall’inizio alla fine, Il collezionista di carte è un thriller di pregiata fattura assai raffinata, mescolato a una vicenda torbidamente drammatica impegnata e a sua volta impregnata, potremmo dire, persino di roboanti, egregiamente filmate scene robustamente action, il tutto sapidamente diluito e, attraverso una traslucida fotografia ad opera d’un ispirato Alexander Dynan, il quale gioca magistralmente coi tenebrosi contrasti chiaroscurali di soffuse luci al neon imperterrite e persistenti, sottilmente permeato da lugubri atmosfere tetrissime ed emananti suspense avvincente. Un film inquietante, morboso, in perfetta linea con la poetica angosciosa del tormentato Schrader. Qui patrocinato dal suo eterno amico Martin Scorsese per il quale, come sappiamo, insuperabilmente sceneggiò quattro suoi capolavori impareggiabili, vale a dire l’immortale, epocale, sempiterno e immenso Taxi DriverToro scatenato, il controverso eppur sopraffino L’ultima tentazione di Cristo e Al di là della vita, altra pellicola superlativa seppur, a tutt’oggi, inspiegabilmente sottovalutata, addirittura quasi misconosciuta.

Trama: il misterioso William Tell (un Oscar Isaac in formissima) è un vizioso, incallito, mediocre eppur al contempo professionista giocatore d’azzardo che disperatamente tenta di vivacchiare e sbarcare il lunario, nell’augurio suo profondo di poter quanto prima mettere a segno una mano fortunatamente vincente delle più economicamente cospicue. Forse essa misteriosamente avverrà finalmente? Tell è reduce da tantissimi anni di carcere. In cui fu duramente detenuto a causa delle sue perenni violazioni ai diritti umani, concernenti in particolar modo il cosiddetto, tristemente famoso Scandalo di Abu Ghraib. Durante una sua nottata brava, diciamo così, incontra per pura fatalità una dark lady fascinosa e sensualissima, La Linda (una Tiffany Haddish mai così sexy e, per l’appunto, irresistibilmente fatalona).

Però, al contempo e imponderabilmente, Tell avvista di lì a poco, durante una convention della polizia, il suo ex capo istruttore dell’esercito, il bieco e torvo maggiore John Gordo (il solito luciferino, bravissimo Willem Dafoe che compare però pochissimo). Il quale, pur essendosi macchiato delle stesse imperdonabili, se non superiori, colpe per cui Tell fu incarcerato, soffrendo pene dell’inferno e vivendo un disumano calvario sterminato dei più terribili e violenti, a differenza di Tell, in assenza di prove schiaccianti o forse per via della sua posizione intoccabile, non fu mai davvero riconosciuto colpevole e quindi ingiustamente visse sempre liberamente. Ciò scatena in Tell una comprensibile, inarrestabile rabbia silenziosa e un feroce, potentissimo rimorso ineluttabile dei più indomabili, soprattutto riaziona, nel suo ferito e giammai cicatrizzato cuore affranto, tutta una tormentosa, penosa marea di dolorosi ricordi che aveva apparentemente rimosso e obliato, seppellendoli nel suo inconscio che pareva aver tranquillizzato. Al che, il suo funesto passato, illusoriamente insabbiatosi nel suo animo all’apparenza acquietato, riemerge via via maggiormente in modo assillante e indelebile, affliggendolo vita natural durante in modo martoriante e non raffrenabile.

Uno Schrader cristallino al cento per cento. Cioè, a tutti gli effetti, in maniera inconfutabile, Il collezionista di carte rappresenta l’ennesima sintesi, nel bene o nel male, della poetica schraderiana al suo zenit, innestata e incentrata sulla colpa, sull’intimo e ricercato, osteggiato desiderio di riscatto da un passato dal quale pare non ci si riesca mai a sganciare veramente, sulla futilità del destino impervio che viene sempre boicottato da strani e assurdi eventi che tale passato rievocano invece continuamente, frantumando perennemente ogni buon proposito di catarsi redentiva e d’emotiva, sfiorata, a malapena afferrata acquiescenza riagguantata solo fugacemente, rimarchiamolo, in modo effimero.

Oscar Isaac, qui per la prima volta in assoluto diretto da Schrader, è magnetico e trova un ruolo cucitogli su misura in cui viene valorizzato il suo sfuggente, torpido, malato sguardo seducente e, per l’appunto, perfino esistenzialmente ambivalente. Sì, perché il suo Tell è una sorta di conte di Montecristo ante litteram, collocato in una storia differente ma analoga al capolavoro appena sopra citato, vale a dire in originale Le Comte de Monte-Cristo, di Alexandre Dumas. Una specie, difatti, di Edmond Dantès che forse trova, nel personaggio incarnato dalla Haddish, la donna della sua possibile redenzione, altresì però, per colpa del fato avverso, egli non può dimenticare il perturbante fantasma d’un crudele Fernand Montego simbolizzato dallo spettro sempre più diabolicamente vivo eppur ectoplasmatico del character di Willem Dafoe (oramai presenza quasi immancabile per Schrader, tant’è che le loro collaborazioni, da Affliction in poi, non sono più enumerabili).

In verità, senza spoilerare, è William Tell ossessionato da Gordo oppure, rispetto a lui, lo è molto di più Cirk (Tye Sheridan)? E qui ovviamente ci plachiamo per non svelarvi altro.

Dunque, Il collezionista di carte è un film imperdibile per gli aficionado di Schrader. I quali non mancheranno certamente d’osannare, addirittura sopravvalutare, tale sua prova registica. In quanto, come detto, contiene perfettamente ogni crisma e stilema del suo Cinema.

Il collezionista di carte invece sarà respinto e poco amato da chi, di contraltare, forse non a torto, continua a reputare Schrader forse più bravo come sceneggiatore (vedasi quando i suoi script sono, per l’appunto, filtrati dall’occhio registico di Scorsese) piuttosto che come cineastico metteur en scène.

Perché, a ben vedere, per quanto siano diversificate negli sviluppi, le sue pellicole girano sempre, probabilmente poco inventivamente, sulle sue solite mai rinnovatesi ossessioni solipsistiche che, alla lunga, hanno onestamente un po’ stancato o potrebbero risultare, per l’appunto, monotone oltre che inflazionate e figlie d’un Cinema vecchio e stantio, ricolmo di troppe metafore scontate e oramai esageratamente affrontate dallo stesso Schrader.

Comunque, detto questo, tralasciando le dietrologie riguardanti la ripetitività, a livello esclusivamente tematico, di Schrader, Il collezionista di carte è un oggetto filmico oggettivamente affascinante. Che colpisce almeno in due sequenze oniriche altamente vertiginose.

Perciò, sebbene non lo consideriamo affatto un grande film, a differenza della maggioranza dell’intellighenzia critica che, come sopra dettovi, lo sta fortemente acclamando, non possiamo esimerci dal valutarlo positivamente, soprattutto consigliandovelo immediatamente, nonostante più di una nostra ragionata e ponderata, ragionevole riserva.

Grande coppia, comunque, Oscar ed Elvira Lind.
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di Stefano Falotico

 

 

 

La soave VIRGINIE EFIRA al Festival di Venezia

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MADRES PARALELAS, recensione

madres paralelasEbbene, dopo un’interminabile attesa e malgrado alcuni forti disagi ravvisati a livello organizzativo, è iniziata finalmente la 78.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia che ha inaugurato con la nuova opus del celebrato settantunenne Pedro Almodóvar, ovvero Madres paralelas.

Madres paralelas del grande Pedro, regista che, di certo, oramai non ha più bisogno di presentazioni, in prossimità del suo vicinissimo compleanno che cadrà in data 25 Settembre del mese per l’appunto corrente, indiscusso e sacrosanto premio Oscar alla miglior sceneggiatura originale per Parla con lei e autore di straordinarie opere altresì altamente controverse ma al contempo perennemente contrassegnate dalla sua poetica inconfondibile e dalla sua distinta cifra stilistica che, forse soltanto alla pari di Woody Allen, ne fanno uno dei pochissimi cineasti al mondo i cui film sono perfettamente riconoscibili anche solo dopo pochissimi fotogrammi. Parimenti ad Allen, Pedro dirige e scrive i suoi film pressoché basandosi esclusivamente su materiale estremamente originale, nel suo caso più che peculiare. Pedro Almodóvar, peraltro recentissimamente onorato, cioè soltanto due anni fa, esattamente alla kermesse del Lido, col Leone d’oro alla carriera.

Con Madres paralelas, ovviamente, non smentisce la sua fama di cineasta fedelissimo alla propria lucidissima visione cinematografica inconfutabilmente personale.

Madres paralelas, in Concorso a tale settantottesima edizione del Festival di Venezia, ha dunque aperto le danze dell’appena succitata manifestazione. Colpendo forte allo stomaco, così come sovente accade con ogni pellicola di Almodóvar, con una strana, contorta, fascinosamente perversa, tipica sua vicenda torbidamente generata dal suo più o meno altalenante talento registico che, fra colpi di scena sorprendenti intervallati ad altri forse leggermente telefonati, eppur sempre efficaci, fra l’esplodere grottesco e improvviso dell’inevitabile dark humor emblematico del suo Cinema a fortissime tinte melodrammatiche a loro volta intarsiate e centrifugate in un vortice di vigorose emozioni veracemente incredibili, a prescindere dai gusti, come di consueto c’ha ipnotizzato e incollato allo schermo per due ore nette di pura follia, perfino sfiziosamente malsana, intrisa di parentesi esilaranti, mixata a struggente eleganza di rara delicatezza visiva e, per l’appunto, emotivamente toccante e spiazzante.

Madres paralelas, se volessimo sintetizzarlo brevemente per quanto concerne la trama (compito sempre comunque arduo nel caso di Pedro Almodóvar poiché, inutile rimarcarlo, ogni suo film contiene, al suo interno, una miriade di micro-storie incastrate a mo’ di matriosche e arzigogolate sotto-tracce a prima vista imprevedibili), narra della rocambolesca, amabile e allo stesso tempo assai dolorosa e forse rivelatrice avventura esistenziale di due donne di Madrid, cioè la fotografa Janis (Penélope Cruz) e della minorenne Ana (Milena Smit). Entrambe rimaste incinte e, per curiosa fatalità del destino loro strambo, all’unisono partorenti, nella stanza d’ospedale, due splendide neonate. Terminato il parto, le strade delle due donne, distanti per età anagrafiche e per background sociale, paiono naturalmente allontanarsi, dato che, al di là dell’estemporanea contingenza per cui condivisero la stessa esperienza del vivere la gioia della maternità nel suo attimo più prodigioso, erano e sono perfette estranee sotto ogni punto di vista. Forse, durante il loro scioccante e perturbante percorso di vita, i loro destini però nuovamente s’incroceranno in modo all’inizio disturbante e poi, via via, sempre più avvicinante i loro senzienti, sussultanti cuori in modo appassionante. Non finisce qui, in questo melò straordinario, un ruolo più che determinante l’avrà Arturo (Israel Elejalde), esperto di scavi archeologici, mentre l’insospettabile, eterna aspirante attrice di Teatro di nome Teresa (l’indimenticabile e qui rediviva Aitana Sánchez-Gijón, Il profumo del mosto selvatico, ancora incantevole e bellissima), forse, nasconde non pochi scheletri nell’armadio. Infine, chi è davvero Ana?

In verità, nessuno di noi è quello che sembra in quanto Pedro Almodóvar, firmando e regalandoci un altro capolavoro di tatto e sensibilità magnifica, pieno di risvolti mirabolanti, cambiando improvvisamente e totalmente rotta negli ultimi dieci minuti di Madres paralelas, nuovamente c’insegna che quello che conta nella vita è la vita stessa.

Il resto è solo morte, la morte vera su cui non bisogna scherzare. Ma la vita stessa, per l’appunto, è pazza di suo, inutile pianificarla, è difatti ricolma di contrattempi, di sorprese dolceamare e non, d’eventi incalcolabili che, addirittura, di primo acchito potrebbero sembrarci tragici, invece possono essere se non salvifici, perlomeno d’amare e d’accogliere, lasciandosi andare piacevolmente senza rimuginarvi e riflettervi con amarezza stagnante, episodi di vita su cui sdrammatizzare, ridere o interminabilmente piangere dirottamente.

Nel bene e nel male, questa è infatti la vita nella sua esemplare nitidezza ineludibile e Madres paralelas è forse l’essenza limpida del grande Cinema che non ha bisogno di riprese troppo sofisticate, di effetti speciali spettacolari, per illuminare di poesia la nostra stessa esistenza. Ché essa stessa è Cinema.

Cos’è, in fondo il Cinema, se non l’incarnazione di ciò che per Pedro Almodóvar è a sua volta la vita?

Cioè un viaggio squinternato e perturbante nell’animo umano, quello vero, detonante di slanci euforici immensi e poi l’itinerario di un terribile salto nei quotidiani dolori strappalacrime più magniloquenti.

Un viaggio anche nella memoria di traumi giammai risolti e della Storia, non soltanto personale, di ognuno di noi. Poiché Madres paralelas diviene, in crescendo, un commovente omaggio a tutte le vittime innocenti del regime franchista, accecandoci di stupore e sterminato dolore infinito in una meravigliosa scena che c’ha ricordato, immantinente, Schindler’s List.

Dunque, se Madres paralelas riesce a essere un dramacomedy angosciante e scoppiettante, un labirintico trip psico-emozionale dei più superlativamente potenti e al contempo un urlo di rabbia spaventosamente bello sull’uomo, sulle sue piccole o grandi tragedie e sulla stranezza imponderabile della vita, inutile dire che la parola capolavoro perfettamente gli si addice.

Penélope Cruz è già da Coppa Volpi. Sicuramente, non stiamo esagerando, possiamo inoltre già tranquillamente considerarla appartenente alla futura cinquina delle attrici che, ai prossimi Oscar, si contenderanno la statuetta.

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di Stefano Falotico

 

IL MISTERO DI SLEEPY HOLLOW, recensione

johnny depp sleepy hollowEbbene, oggi recensiamo lo stupendo e, purtroppo, a tutt’oggi leggermente sottovalutato, sebbene premettiamo subito che non lo consideriamo affatto un capolavoro, Il mistero di Sleepy Hollow, firmato da quel geniaccio stratosferico e mirabolante, fantasioso, eccentrico regista che risponde al nome di Tim Burton (Big Fish).

Il quale, quasi allo scoccare della mezzanotte della favola di Cenerentola, no, in prossimità del nuovo millennio, cioè a fine anno 1999, uscì nei cinema mondiali, per l’appunto, col suddetto Il mistero di Sleepy Hollow, un mystery thriller assai sui generis con forti tinte e venature orrifiche e, come sovente accade per le pellicole del cupamente onirico Burton, innestato su una magniloquente visionarietà elegantemente dark di matrice favolistica.

Prodotto da Francis Ford Coppola e dalla sua società di produzione, ovvero l’American Zoetrope, partorito dalla valente penna di Andrew Kevin Walker (SevenPanic Room di David Fincher, prossimamente di nuovo per lui sceneggiatore di The Killer con Michael Fassbender, 8 mm – Delitto a luci rosse di Joel Schumacher) che, per l’occasione, ha adattato e reinterpretato, in forma estremamente fantasiosa e libera, il celeberrimo racconto La leggenda di Sleepy Hollow ad opera di Washington Irving, Il mistero di Sleepy Hollow, a prescindere comunque dalla sua natura letterariamente derivativa, essendo per l’appunto tratto dall’appena suddetta fiaba nera molto arcinota a livello mondiale, è vivificato dall’originalità registica del nostro Tim Burton sempre unico e personalissimo.

Il mistero di Sleepy Hollow dura un’ora e quarantacinque minuti ed è un riuscitissimo mix fantastico di Cinema per l’appunto peculiarmente fantasy a sua volta shakerato all’interno delle prospettive visivo-diegetiche di una storia avventurosa e marcatamente horror che vi terrà col fiato sospeso dal primo all’ultimo minuto, emozionandovi, spaventandovi terribilmente e perfino continuamente divertendovi non poco. Poiché Il mistero di Sleepy Hollow, al di là del suo impianto tenebrosamente ancestrale, pur essendo immerso in atmosfere spesso tetre e dunque scarsamente solari e luminose, è addirittura permeato da situazioni esilaranti quasi da slapstick comedy, è stracolmo di buffi sketch spassosi ed è quasi interamente costruito su dialoghi effervescenti, a tratti intelligentissimamente demenziali.

Insomma, è un film di Tim Burton a tutti gli effetti e, da ogni suo crisma e stilema, si nota immantinente che è una sua riconoscibilissima opus lontano un miglio.

Estrapolandovi la trama de Il mistero di Sleepy Hollow dal dizionario dei film Morandini, con alcune nostre necessarie aggiunte poiché il compianto Morando, in tal caso, si dimenticò di aggiungere, fra le parentesi, gli attori dei rispettivi personaggi del protagonista della vicenda e del suo antagonista “invisibile”, da lui menzionati.

«1799. Ichabod Crane (Johnny Depp), poliziotto di idee progressiste e di metodi razionalisti, è inviato da New York in un paesino nella valle dello Hudson per indagare su una serie di omicidi le cui vittime vengono decapitate. La voce popolare li attribuisce a un fantomatico cavaliere decollato (Christopher Walken). Giunto sul posto, mentre gli omicidi continuano, Ichabod è costretto a fare i conti con l’amore e il soprannaturale, ridimensionando il suo credo illuminista. Liberamente ispirato al racconto La leggenda di Sleepy Hollow (in Il libro degli schizzi 1819-20) di Washington Irving, sceneggiato da A.K. Walker (Seven), l’8° film di Burton è una storia di fantasmi fondata su “l’esitazione tra vero e falso, tra ciò che si offre alla vista e la sua interpretazione percettiva” (A. Di Luzio), sovraccarica di citazioni (i film Hammer, La maschera del demonio di M. Bava, Coppola, Kubrick nei 3 incubi a flashback), autoconsapevole, ma non autocompiaciuto. Ben strutturato nel far coincidere lo sguardo dello spettatore con quello del protagonista e nel suo romantico recupero del fiabesco ottocentesco, ha punti deboli nel subplot sentimentale e nell’enfatica colonna musicale di Danny Elfman».

Che dire, dunque?

Superbamente fotografato dal grandissimo , vincitore di tre Oscar consecutivi, ottenuti rispettivamente per GravityBirdman Revenant, paradossalmente, Il mistero di Sleepy Hollow se, dal punto di vista prettamente figurativo, è cristallinamente ineccepibile, per quanto concerne invece l’andamento narrativo, difetta abbastanza. Il film, infatti, ha parecchi punti di cedimento nel ritmo e, verso la metà, può indubbiamente risultare soporifero.

Sebbene dunque l’avvolgente e plumbea fotografia crepuscolare di Lubezki doni a tale pellicola di Burton delle tonalità ammantate perfino di fascinosa morbosità paurosa, permetteteci la seguente licenza poetica, Il mistero di Sleepy Hollow si rivela, nella sua totale compiutezza, un’opera meno magica di altre di Burton, parendo difatti poco spontanea ed eccessivamente studiata e artefatta.

Malgrado ciò, rimane una perla inestimabile in quanto i notevolissimi pregi sopperiscono alle sue perdonabili lacune.

Cast strepitoso ove, oltre ai succitati Depp e Walken, risaltano le presenze dell’ex conturbante Lolita di nome Christina Ricci, Casper Van Dien, Jeffrey Jones, Michael Gambon, Miranda Richardson, la magnifica Lisa Marie (ex di Burton, Mars Attacks! docet), il folgorante cammeo nell’incipit d’un subito decapitato Martin Landau (non accreditato e indimenticato Bela Lugosi di Ed Wood), Christopher Lee.

Inoltre, in questo film, l’ex habitué di Burton e suo attore feticcio per antonomasia, naturalmente Johnny Depp, è quanto mai in parte e il suo carnato pallidissimo, al limite d’una dionisiaca bellezza spettrale e diafana quasi mortifera, grandiosamente s’intona al clima invece, al contrario, molto scuro della storia da noi vista.

di Stefano Falotico

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Il CINEMA di Paolo Sorrentino

Paolo Sorrentino Cinema

Ebbene, qualche giorno fa, tutti noi abbiamo assistito all’attesissimo teaser trailer ufficiale della nuova opus di Paolo Sorrentino, intitolata È stata la mano di Dio.

È stata la mano di Dio è un film pronto a sbarcare, assai prossimamente, in Concorso alla 78.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ed è, soprattutto, ribadiamolo fermamente ancora, il nuovo lungometraggio di uno dei registi più discussi e al contempo più amati degli ultimi anni, per l’appunto Sorrentino.

Paolo Sorrentino, nato a Napoli (città ove peraltro è ambientato interamente il film appena succitato) nel giorno del 31 maggio del 1970, e rimasto purtroppo orfano a sedici anni.

Scrittore, regista e sceneggiatore ineccepibile il quale ha sempre orgogliosamente dichiarato che, per riprendersi dal comprensibile shock della prematura e luttuosa perdita dei suoi genitori, s’affidò nientepopodimeno che a Diego Armando Maradona:

 «A me Maradona ha salvato la vita. Dall’età di due anni, chiedevo a mio padre di poter seguire il Napoli in trasferta anziché passare il weekend in montagna, nella casetta di famiglia a Roccaraso; ma mi rispondeva sempre che ero troppo piccolo. Quella volta finalmente mi aveva dato il permesso di partire: Empoli-Napoli.

Citofonò il portiere. Pensavo mi avvisasse che era arrivato il mio amico a prendermi. Invece mi avvertì che era successo un incidente. Papà e mamma erano morti nel sonno. Per colpa di una stufa. Avvelenati dal monossido di carbonio».

Una tragedia incolmabile salvata dal genio balistico dell’idolo della sua città, il sempiterno e immortale Maradona, per l’appunto, una specie di santo salvatore per ogni partenopeo verace giammai arresosi dinanzi alle dure asperità che la vita ostilmente ti pone inevitabilmente davanti.

Infatti, nel suo discorso di commosso e commovente ringraziamento in occasione della vittoria del suo celebrato e oramai celebre La grande bellezza, Sorrentino spese parole assai sentite nei riguardi del suo salvatore Maradona.

Sì, Paolo Sorrentino è l’unico regista italiano delle ultime decadi, dopo Roberto Benigni per La vita è bella (il quale sarà, neanche a farlo apposta, omaggiato col Leone d’oro alla Carriera proprio all’imminente Festival di Venezia), a essere riuscito ad agguantare la statuetta per il Miglior Film Straniero.

Traguardo rarissimo, raggiunto solamente da pochissimi e storici, grandi nomi del Cinema nostrano più pregiato, quali Federico Fellini, Elio Petri, Gabriele Salvatores, Giuseppe Tornatore, Bernardo Bertolucci. Quest’ultimo, a essere più precisi, vincitore di Miglior Regista per L’ultimo imperatore.

L’Oscar, a prescindere dalla sua effettiva e/o contestata validità, è comunque una meta ancora, checché se ne dica, grandemente agognata da ogni cineasta del mondo.

E rappresenta ovviamente un punto d’arrivo imprescindibile.

Giacché, se Sorrentino, prima del suo Oscar vinto era considerato “solo” un regista di talento, autore di opere molto belle e assai stimolanti come L’uomo in più, Le conseguenze dell’amore, L’amico di famiglia, Il divo, This Must Be the Place, ecco che con La grande bellezza ascese veramente internazionalmente nell’empireo planetario dei premiati più epocali.

E, dopo l’esperienza lavorativa con una star come Sean Penn (invero avvenuta già prima della Grande Bellezza, tanto a dimostrare che Sorrentino, ben prima di ricevere l’Academy Award, era già un nome tenuto sott’occhio da Hollywood e dintorni), ecco che il nostro Paolo poté permettersi, con Youth, di poter dirigere due mostri sacri del calibro di Harvey Keitel e Michael Caine. Lavorando poi con Jude Law, John Malkovich e un cast di nomi famosi del panorama cinematografico mondiale, per il dittico The Young Pope & The New Pope. Riscontrando e ottenendo, anche in un territorio “televisivo”, eccezionali plausi critici.

Subito dopo È stata la mano di Dio, Paolo Sorrentino, mai con le mani in mano come si suol dire, si sta già apprestando a firmare e filmare Mob Girl con Jennifer Lawrence.

Quindi, a prescindere che Sorrentino vi piaccia o meno, a dispetto di ogni possibile vostra considerazione, aleatoria o no, riguardante la sua Settima Arte, al di là delle critiche piovutegli addosso per Loro col suo immancabile Toni Servillo, tralasciando chi odia il suo Cinema, specialmente dai suoi detrattori reputato sterilmente estetizzante, troppo manieristico e furbetto, non c’è comunque niente da dire e obiettare.

Ogni nuova opera di Paolo Sorrentino è un evento e non vediamo l’ora di vedere (perdonateci il voluto gioco di parole) È stata la mano di Dio.

Sinceramente, augurandoci non solo di vedere e amare questo film, bensì di rivedere Paolo Sorrentino stringere nuovamente la statuetta all’edizione degli Oscar del prossimo anno.

In bocca al lupo, Paolo!

di Stefano Falotico

 

 

 

È stata la mano di dio – The Hand of God, il trailer: Paolo Sorrentino è un genio, un cretino, ha firmato un nuovo capolavoro di Grande Bellezza? I

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A me piace Paolo. Mi piace la sua napoletanità, sebbene debba ammettere che a me i partenopei non piacciano particolarmente. Odio infatti ogni forma di cannibalismo, no, di campanilismo melodrammatico e i nazionalismi esasperati di gente italiana tutta che, paradossalmente, non sapendo uscire dai propri mentali confini, nella più triste esterofilia modaiola si trincera, confinata com’è nella propria mentalità retriva, retorica, campagnola e meschina, sbandierando ai quattro venti la great beauty soltanto d’una finta e artefatta grandeur retorica del Cinema a stelle e strisce più inutile.

Sono stanco dei miti imposti e dei cosiddetti mostri sacri intoccabili. Però mi piaceva da matti Maradona come calciatore ma l’odiai a morte quando a Napoli, al vecchio stadio San Paolo, oggi ribattezzato col suo nome, in onore della sua morte e del suo immortale mito calcistico da indimenticabile campione, su uscita a vuoto di Walter Zenga, nella semifinale di Coppa del Mondo d’Italia 90, il suo amico (credo anche di Coca…, forse quella di Vasco Rossi, forse no, io no, io no, io non ti dimenticherò, ah ah) Claudio Caniggia pareggiò i conti dopo il goal storico di Totò. No, non il napoletano principe della risata per antonomasia, ovvero Antonio de Curtis, bensì Schillaci. Erano altri tempi, ragazzi, quando si potevano mangiare anche le fragole… quando, ben prima della vittoria di Roberto Mancini ai recentissimi Europei, Mancini stesso col suo inseparabile amico Gianluca Vialli, il quale era all’epoca l’amante segreto di Alba Parietti, appena invece separatasi da Franco Oppini, forse sì, forse no, esultava per i trionfi della Sampdoria ma pianse dinanzi alla bomba di Ronald Reagan? No, di Ronald Koeman. Mi piace Sorrentino, malgrado non abbia mai finito di vedere interamente Il divo. Oggi forse sono L’uomo in più oppure l’idolo… delle folle. Fui, credetemi, vi giuro, non sto mentendovi, una grande ala destra ma mi spaccai la testa e persi ogni brocca e palla per molto tempo. Che brocco! Che tristo, così come dicono a Bologna. Che bidone! Ah ah. Ma io sono come Best, sì, l’ex calciatore incorreggibile, altresì impareggiabile e testardo più di un mulo. Ho sempre vissuto al motto di o tutto o niente. A proposito di Maradona, Diego Armando giocò anche nel Barcelona. E il Barcelona di Romario, allenato dal grande Johan Cruyff, fu distrutto dal Milan di Capello & Berlusconi. Cruyff era un genio del giuoco del pallone, così come lo fu Marco Van Basten. Mentre Berlusconi, anche trent’anni fa, non sapeva nemmeno pronunciare, in inglese corretto, la parola Google

Capito, è stato il premierLoro… lo votaste voi. Voi sapete. Abbiamo visto. Eh eh.

Nella mia vita, non calcolai mai Le conseguenze dell’amore e, da quando ricominciai ad innamorarmi delle donne, dopo molti giochi balistici in solitaria, in cui dribblai perfino me stesso e la mia coscienza che si salvò però sempre in corner, dopo molte balle raccontate alla gente per non ammettere di essere solamente un onanista e un amante non della Parietti e dei suoi sgabelli, bensì di Holly e Benji, divenni un fuoriclasse impari sempre più bello. Sì, in passato non ero classificabile, ah ah. Perennemente mi auto-ubicai fuori da ogni categoria a causa della mia impertinenza immoderata, della mia ingovernabile attitudine ai colpi di testa non però da bomber supercannoniere e da centravanti alto di statura, miei filibustieri… Giocai anche una vita da mediano alla Luciano Ligabue, in tutti i sensi. Sono sempre stato timido e poi spericolato come Johnny Utah/Keanu Reeves di Point Break. Spesso, ancora oggi, gli uomini boomer come Gary Busey di Un mercoledì da leoni, eh già, sparlano di me, pensando che io sia un coglione come pochi.

E dicono: – Mi hanno affiancato, al lavoro, un centromediano di merda.

Tanti anni fa, con una tizia andai a vedere L’amico di famiglia. Lei era convinta, già prima che lo acclamassi, che questo film mi sarebbe piaciuto alla grande, anzi, lei diceva di brutto. Difficile, comunque, essere più brutti di Geremia De Geremei, cari fratelli miei. Ah ah. A lei piacevo ma non capii perché quando, sullo schermo, io vidi Laura Chiatti, lei capì che Laura più di lei mi piaceva e mi diede un calcio sapete bene dove. Soventemente, sono un pagliaccio come Sean Penn di This Must Be the Place.

È meglio non provocarmi. L’altra sera, per esempio, quattro scugnizzi di Imola, sì, non dei quartieri spagnoli, bensì della piadina, no, pianura emiliano-romagnola, mi presero in giro, scambiandomi per uno che, dalla vita, vuole solo la pummarola! E mi urlarono: fallito, non sai manco dare un calcio a una palla! Ma ce l’hai… o no?

Al che, io risposi con educazione signorile e gentilmente domandai loro discretamente: – Posso unirmi a voi e scendere in campo?

Ho purtroppo, la scorsa sera, rovinato la vita di questi ragazzi. Erano cresciuti nel mito di Maradona, Pelé e Messi. Ho sconvolto ogni loro certezza. La realtà è scadente. Tutti i napoletani sono “pazzi”, tutti i napoletano sono dei geni, dei grandi fantasisti. Molti sono, in realtà, disoccupati.

Di mio, ammetto di essere un peccatore. Commisi falli di mano plateali, l’arbitro non se n’accorse e convalidò la rete. Non credo nella confessione e quindi, per perdonare me stesso, faccio il due a 1 allo stesso modo di Diego contro la povera Inghilterra. Ché non vince mai. Così come quasi tutti i napoletani.
Gente ruspante e verace, di troppa vita così vorace da venire poi inghiottita da delusioni più abissali del loro immenso mare, del loro sterminato cuore e del loro credere ingenuamente che, nel 2021, ai tempi di Instagram e porcate varie/affini, possa esistere ancora la parola amore.

Qualche volta, a proposito di riscendere in campo, ecco che spunta Bud Spencer de Lo chiamavano Bulldozer. E, dinanzi a tutti i cattivi e ai figli di buona mamma, alla domanda: – Non avevi giurato di non giocare più? – risponde…

MA QUESTA NON è una partita, amico.

Infine, all’ennesima provocazione del villain ostinato, cioè questa:

– Tanto non lo segnerete mai quel punto, Bulldozer.

Bud, Carlo Pedersoli, dice e fa qualcosa di epico:

– E allora preparati perché adesso segno.

Sì, sono infantile, a quarant’anni mi piacciono ancora i film con Bud.

E ho lo stesso fisico, la stessa agilità di una lince, cioè di Terence Hill dei tempi d’oro.

D’altronde, Lo chiamavano Trinità. Ah ah.

Chi pensava di avere capito tutto di me, dandomi per spacciato, rivedendomi così, pensa… non è possibile, non è umanamente concepibile.

E io rispondo: è stata la mano di dio.

Dio però non esiste, esisto io. E questa è la mia vita, nessuno più la sporcherà.

Paolo Sorrentino è il più grande regista italiano. Teniamocelo stretto. E, ai prossimi Oscar, ancora tutti uniti come durante la finale degli Europei: vincere e vinceremo!

 

di Stefano Falotico

 

NON APRITE QUELLA PORTA by Marcus Nispel, recensione

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Ebbene, dopo il capostipite e irraggiungibile Non aprite quella porta di Tobe Hooper, da noi precedentemente già opportunamente recensito, stavolta vogliamo occuparci del suo rifacimento o remake che dir si voglia, datato anno 2003 e firmato, forse rozzamente forse invece sorprendentemente, chissà, da Marcus Nispel, regista oramai specializzatosi nel rovinare e sciupare, vivificare o comunque rigenerare, a prescindere dai risultati ottenuti, perciò conseguentemente dalla loro qualità cinematografica, vecchi e indimenticabili classici del Cinema horror e non.

Infatti, Nispel, regista tedesco naturalizzato statunitense e classe ‘63, ben memore delle pellicole che devono aver inciso non poco durante la sua adolescenza, tralasciando l’opinabile fatto per cui risulta se non del tutto inviso, perlomeno non particolarmente amato e rispettato da molti cinefili e intransigenti puristi nei suoi riguardi aspramente critici e offensivamente durissimi, è colui che ha diretto, oltre al film da noi in questa sede preso in questione, cioè ovviamente Non aprite quella porta, anche i remake di Venerdì 13 e di Conan the Barbarian (titolo così lasciato immutato anche qui da noi in Italia e non tradotto letteralmente in Conan il barbaro proprio per distinguerlo dall’appena citatovi omonimo capolavoro immortale di John Milius di cui n’è, per l’appunto, una moderna rivisitazione, peraltro molto contestata).

Non aprite quella porta di Nispel dura quasi quanto esattamente quello di Hooper, vale a dire novantotto minuti e, ispirandosi naturalmente al soggetto dello stesso Hooper e dello sceneggiatore Kim Henkel che fu alla base del suo, potremmo dire per evitare ripetizioni, antesignano storico, per l’occasione rivisitato e parzialmente reinventato, più che altro ammodernato dal writer Scott Kosar, della pellicola epocale e seminale di Hooper ne ricalca, a grandi linee, la trama. Apportandovi però, com’accennatovi, alcune modifiche rilevanti, se non addirittura eccentricamente personali e, qua e là, geniali. E, per tale nostra affermazione, non ce ne vogliano, per l’appunto, i suoi ostinati detrattori assai numerosi e irriducibili.

In quanto, immediatamente chiariamoci, a noi questo Non aprite quella porta di Nispel non dispiace affatto. Certamente, non può reggere il confronto con l’originale, come dettovi, a nostro avviso e a detta dei più, ineguagliabile. Ma ha, eccome, la sua forte valenza e sa, durante la sua ora e mezza di durata, stupirci e godibilmente terrorizzarci in maniera null’affatto sottostimabile o disdicevole.

Trama: siamo nella contea di Travis in Texas, nell’agosto del ‘73. Anche se l’abbigliamento e il gergo utilizzato paiono quelli di un film ambientato ai giorni nostri. Quattro ragazzi, due uomini e due donne, rispettivamente fidanzati, stanno tornando da una vacanza da loro trascorsa in Messico. Fra loro, spicca l’avvenente e sensuale bellezza rappresentata, meravigliosamente incantevole e incarnata da colei che si rivelerà la più coraggiosa del gruppo, cioè Erin (Jessica Biel, al solito più bella che brava ma emanante, con la sua camicetta striminzita che le scopre piacevolmente l’ombelico e i suoi jeans molto attillati, una carica erotica potentissima). Dopo pochi minuti e dopo aver assistito ad alcune goliardiche scaramucce fra i componenti dell’allegro quartetto, i quattro danno un passaggio a una ragazza che pare uno zombi, cioè una ragazza che sembra una morta vivente, avendo costei lo sguardo perso nel vuoto. La quale, appena entrata nel loro furgoncino, consiglia loro di svoltare e cambiare direzione in quanto, secondo lei, se continueranno nella direzione che stanno seguendo, s’imbatteranno in un uomo molto, molto cattivo e crudelmente impietoso. Al che, dopo aver mostrato ai ragazzi le sue gambe insanguinate e atrocemente scorticate, la donna estrae una pistola dalla sua gonna e, puntandosela alla bocca, si suicida immantinente, fracassandosi il cranio in modo tremendo e scioccante. I ragazzi, sconvolti dall’imponderabile avvenimento assolutamente imprevisto e nefasto, si fermano a una stazione di servizio, in cerca dello sceriffo, al fine di denunciare quanto prima il macabro e allucinante accaduto. Qui, fanno la conoscenza di una vecchia signora burbera e dai modi ambigui che, alle loro domande, risponde in modo maliziosamente evasivo e minaccioso.

L’anziana signora, inoltre, dice loro che lo sceriffo è momentaneamente assente. I ragazzi proseguono quindi incoscientemente nel loro viaggio e presto si fermano a pochi metri da un fatiscente, enorme casolare all’apparenza abbandonato. Qui però ci fermiamo noi e non andiamo avanti nello svelarvi altro. Poiché, se non avete visto il film, vi guasteremmo senza dubbio la visione, rivelandovi troppo.

Che dire? La fotografia è ottima ed è firmata da Daniel Pearl (Mom and Dad). Non aprite quella porta si lascia vedere volentieri e, ai nostri occhi, palesandosi fin dapprincipio come una chiarissima operazione commerciale senza qualsivoglia artistica pretenziosità che, in tal caso, sarebbe risultata oltre che immotivata, fortemente erronea, non è niente di che ma anche niente di male.

Non aprite quella porta comincia veramente a carburare e a farci sussultare appena entra in scena Leatherface (Andrew Bryniarski). Inutile rimarcarlo… È un film grezzo a dismisura ove le battute sono scarsissime e ove abbondano le grossolanità più cinematograficamente oscene e impresentabili. Però, a dispetto del suo impianto tamarro, nonostante sia stato evidentemente realizzato per essere indirizzato a un pubblico di teenager con pochissime pretese, per l’appunto, riesce sostanzialmente a ottemperare al suo primario intento. Cioè quello d’intrattenere in modo stupido ma comunque divertente e, nelle scene sue più gore, splatter ed esageratamente violente, non si può dire che non adempia semplicemente a rispettare gli abusati eppur sempre funzionali e funzionanti classici meccanismi dei film di paura più volutamente prevedibili, altresì efficaci.

Nispel sa il fatto suo, non è, a differenza di ciò che sostengono a spada tratta i suoi haters agguerriti, il primo arrivato. Sa soprattutto che, al di là della tematica horror da lui visivamente qui enucleata in maniera più che discreta e accettabile, il suo Non aprite quella porta basa la sua maggiore attrattiva sulla beltà sconfinatamente ipnotica della sua immensamente provocante protagonista Jessica Biel, donna dal sex appeal bestiale, saggiamente messa in contrasto con la spietatezza efferata del mostro Leatherface.

Sì, Non aprite quella porta è, a conti fatti, un film più che guardabile e per niente disprezzabile. Se a ciò, per l’appunto, aggiungiamo la grandiosa presenza dell’insuperabile, apoteotica venustà portentosa della Biel, donna che, come si suol dire, a ogni inquadratura buca lo schermo in modo adorabilmente imbarazzante e impressionante, capite bene che il film merita di essere visto alla grande.

Dunque, in sintesi: non sono stato apposta troppo duro contro questo film e non ho voluto stroncarlo e segarlo a mo’ di Leatherface. Anche perché, per un’ora e quaranta minuti circa, vedendo continuamente Jessica Biel, ce l’ho avuto durissimo. Finisco con una freddura: mi raccomando, teste di cazzo, Jessica Biel non va segata. Non mi piacciono le seghe, anche elettriche. Anche se, a esservi franco, la vedo dura farmela… sotto? Sì, Jessica Biel è bella da far paura. Pure Leatherface, infatti, trovandosi dinanzi a lei, dubitò della sua psicopatica durezza e, sinceramente, desiderò buttare via ogni sega e offrirle non solo una carezza ma qualcosa di più amorevolmente ficcante, non so se leggermente tagliente e sanguinante. Sì, Leatherface, si sa, non ci va delicatissimo. Però vorrei dargli un consiglio: caro coniglio di Leatherface, lei non ha mai fatto sesso con una donna. Come uomo, è risaputo, non vale una beneamata minchia. Quindi sappia che la prima volta potrebbe un po’ farle male… Lei, caro Leatherface, la dovrebbe finire di ammazzare le persone. Dovrebbe essere più dolce. Stasera, innanzitutto, mangi tre gelati e li lecchi con gusto. Deve partire dal gelato all’amarena se vuole farsi leccare quello alla crema.

Io sono l’antitesi di Leatherface. In una sola coscia, no, cosa, gli somiglio anche se soltanto a livello metaforico. Lui scarnifica le persone, io denudo la realtà degli ipocriti. Ed è per questo che non ho mai capito perché un uomo e una donna, prima di amoreggiare (tanto per essere eufemistici ed eleganti), debbano passare orge, no, ore, giornate e mesi, perfino anni, corteggiandosi e leccandosi il culo per arrivare al sodo e al liquido.

Sì, sono uguale a Woody Allen. Volete ammazzarmi e farmi a pezzi, poveri pazzi? Sì, certo, continuate a parlare, me ne fotto…

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di Stefano Falotico

 

JACKIE BROWN, recensione

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Oggi, saltiamo ancora una volta repentinamente e intrepidamente indietro nel tempo e nelle nostre memorie cinefile più dorate e giammai dimenticate, in quanto recensiremo un magnifico film perlaceo uscito nelle nostre sale nell’oramai lontano anno 1997, ovvero Jackie Brown, scritto e diretto da un consuetamente prodigioso Quentin Tarantino, qui allo zenit della sua indiscussa bravura cineastica dalla rinomatissima scuola profumata di classicismo d’annata.

Jackie Brown uscì quasi in concomitanza, anzi, praticamente in contemporanea, con Il grande Lebowski dei fratelli Coen. Non citiamo quest’ultimo film a caso.

Sia Jackie Brown che Il grande Lebowski, difatti, sono due hardboiled molto sui generis, entrambi sono dei capolavori straordinari ma tutt’e due furono ampiamente sottovalutati ai tempi, per l’appunto, della loro ufficiale release sui grandi schermi. Insomma, furono in gran parte decisamente snobbati e, soltanto col passare degli anni, valutati in maniera più oggettivamente distaccata ed esatta. Crescendo infatti progressivamente presso i favori dell’intellighenzia critica e assurgendo, a tutt’oggi, a vette irraggiungibili del loro genere cinematografico, a sua volta mescolato a molteplici sotto-trame, a coltissimi citazionismi e a variegati generi centrifugati in forma di rispettivi lungometraggi strabilianti.

Se Il grande Lebowski è una geniale rivisitazione farsesca e in chiave irresistibilmente grottesca, corroborata d’humor nero esilarante e al contempo tagliente di molte opere della Hollywood degli anni cinquanta e dei seventies, se è un sapido potpourri di matrice visivo-narrativa, ricolmo di chiarissime allusioni a Raymond Chandler, con un folle McGuffin a giustificare la sua trama apparentemente lontana dalle atmosfere tipiche del noir à la Il grande sonnoJackie Brown gli è parzialmente similare nella sua diegetica speculare ed è un’arguta e sofisticata mistura stratificata di poliziesco, potremmo dire, anacronistico e volutamente, piacevolmente fuori moda, un thriller a combustione lenta, ottimamente congegnato e a orologeria, è perfino un film pulp che omaggia la blaxploitation e la regina di molti suoi b movies, Pam Grier, qui protagonista assoluta, venerata e da Tarantino glorificata, ed è soprattutto una potente storia d’amore che lascia esterrefatti ed emozionalmente tramortiti per l’immensa e struggente malinconia che languidamente emana. Jackie Brown dura due ore e trentaquattro minuti avvincenti e rocamboleschi che scorrono tutti d’un fiato ed è l’unica opus di Tarantino, come sopra dettovi, sì, scritta da Quentin stesso ma tratta da un romanzo, vale a dire Punch al rum di Elmore Leonard.

Il saggio e compianto Morando Morandini fu uno dei pochi critici italiani a vedervi lungo, assegnando in tempi non sospetti tre stellette e mezza assai lungimiranti a Jackie Brown. Captandone immediatamente i pregi che, come poc’anzi accennatovi, passarono in passato alquanto inosservati. Estrapolandovi dunque la sua ammirabile recensione, concisa e assai precisa, quanto mai perfettamente sintetica e del tutto centrata, non magnificheremo affatto Jackie Brown, soltanto pigramente associandoci all’alto giudizio a riguardo da lui espresso ed emessovi, semplicemente ce ne rispecchiamo indiscutibilmente, riconoscendoci in esso pienamente:

A Los Angeles, il mercante d’armi Ordell (Samuel L. Jackson) vuole ritirarsi dagli affari, ma non prima di venire in possesso di un’ingente somma depositata in Messico. Dovrebbero aiutarlo l’amico Louis Gara (Robert De Niro), appena uscito di prigione, l’amante Melanie (Bridget Fonda) e la ex socia (Grier) arrestata per colpa sua. Max Cherry (Robert Forster) la fa uscire di prigione, pagando una grossa cauzione a nome di Ordell, ma s’innamora di lei e la aiuta a impossessarsi del malloppo, ingannando tutti. Al suo 3° traguardo, Tarantino spiazza tutti, gli entusiasti e i detrattori diffidenti, con un film lineare, tradizionale, “prudente e maturo, scaltro nell’evitare lo scoglio del déjà vu, prigioniero della sua cautela nel tenere a distanza l’umorismo cruento, lo stravolgimento dei generi, il sensazionale in una parola” (P. Cherchi Usai), gli ingredienti che avevano creato la folata modaiola del tarantinismo.

Dal romanzo Rum Punch di Elmore Leonard, sceneggiato con poche e significative libertà, ha cavato un film molto riuscito e poco innovativo che sa fare aspettare: puntiglio nel disegno dei personaggi, inquadrature equilibrate, pochi movimenti di macchina e sempre funzionali, nessun effetto speciale, nessun esibizionismo. Tarantino va controcorrente: a modo suo, è già un classico.

Morandini ci trova assolutamente concordi.

Fotografia di Guillermo Navarro, colonna sonora da urlo, messinscena che non sbaglia un colpo e non “stecca” un solo fotogramma, attori uno più bravo dell’altro, per un capolavoro irripetibile difficilmente eguagliabile.

Il film meno sanguinolento di Tarantino, il più inaspettato, forse il più bello, di certo il più commovente.
Nel cast, anche Michael Keaton, Michael Bowen & Chris Tucker.

Ora, la palla e le palle passano a voi. Ah ah, non siete Tarantino e non siete il Falotico, perciò non siete capaci di scrivere e dirigere capolavori.

Al massimo, potete pulire i cessi, anche delle vostre mogli. E coltivare le cicorie, aspettando tiepidamente la morte, credendovi uomini e donne di valore. In verità, siete tragicomici e, per allentare la tensione del quotidiano stress rompiballe, sapete solo fare carnascialesca baldoria senza gusto né piacevole, equilibrato umore e amore. Siete putridi e cinici, avete perduto ogni sano pudore, non sapete nulla di poesia, della grandiosa fantasia e del vivido, pittoresco, bizzarro folclore.

Di mio, bevo un White Russian come Lebowski e so che la vita è fatta di gioie e poi di dolori, di tanto malincuore ma anche di un falò nella notte che sa inebriarvi di lucida follia piena di colore e calore. Ah ah.

A dircela tutta, inutile poetizzare e romanzare, è stato un sabato sera moscio come pochi.

Vado a prepararmi un frappè ma in cucina non incontrerò Melanie con gli shorts. Alla pari di John Travolta di Pulp Fiction, mi darò al fai da te, berrò un tè e poi un caffè.

Forse incontrerò me stesso, cioè il diavolo di Paranormal Activity.

Su questa stronzata, vi lascio con una faccia da Marilyn Mason dei poveri e vi auguro buone mignotte, no, solamente buonanotte.

P.S.: non moti lo sanno ma sono Michael Keaton di Birdman.

Ora, come il Michael di questo film nel finale, mi lancerò giù dal balcone e non morirò.

Sapete perché? Sono anche Batman di Tim Burton, ho le ali da pipistrello. Inoltre, secondo me, Ed Norton de L’incredibile Hulk avrebbe fatto pena sia a Naomi Watts che a Stone di John Curran, no, ad Emma Stone.

Se voi doveste incontrare il vero Joker per strada, ragazzo disturbato dalla doppia personalità da Edward Norton di Fight Club, ditegli che ci sono anche i film 4 pazzi in libertà e Mi sdoppio in 4.

Dunque, deve ancora mangiare molti panini e guardare tanti altri film prima di fare la fine di Michael Keaton di Fuori dal tunnel.

Se invece io incontrassi Tarantino, Quentin mi direbbe: non farti più vedere, testa di cazzo. La gente non deve sapere che c’è uno più bravo di me.

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di Stefano Falotico

 
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